Modest Musorgskji, Boris Godunov
Amsterdam, Muziektheater, 23 giugno 2025
(video streaming)
Serebrennikov, un Boris Godunov per l’era di Putin
La storia del Boris Godunov si colloca in un periodo turbolento della storia russa, tra la morte di Ivan il Terribile e l’ascesa della dinastia Romanov. Il regno di Boris Godunov è breve ma segnato da lotte di potere, corruzione e instabilità. Quando Mussorgskij scrisse l’opera, la Russia stava attraversando un periodo di grandi cambiamenti e riflessioni sulla propria identità e storici come Nikolaj Karamzin cercavano di tracciare un filo diretto tra passato e presente, dando forma a una narrazione nazionale che interrogava il destino della Russia.
Kirill Serebrennikov si inserisce in questa tradizione storica, ma lo fa con una sensibilità tipica del nostro tempo. La sua versione di Boris Godunov non è solo un dramma sulla Russia del passato, ma un ritratto crudo e desolato della Russia di oggi. Il regista, che ha lasciato il paese dopo l’invasione dell’Ucraina, ha vissuto un’esperienza personale di conflitto con le autorità russe, che lo hanno accusato di frode nel 2017 e posto agli arresti domiciliari. Questo contesto biografico, unito alla sua posizione di dissidente e alla sua esperienza come figura di spicco sulla scena culturale russa, conferisce all’operazione una carica emotiva e politica intensa.
Nella produzione di Serebrennikov, il Santo folle, una figura tradizionalmente profetica e outsider nell’opera, diventa un dissidente moderno. Viene rappresentato come un “uomo semplice” che è stato recentemente rilasciato dopo dieci giorni di isolamento, un riferimento evidente alla repressione politica contemporanea. I suoi monologhi, che attraversano tutta l’opera, sono tratti dalle testimonianze di attivisti russi condannati per essersi opposti al regime. Questo rende la messa in scena ancora più potente, poiché non solo racconta una storia fittizia, ma ci invita a riflettere sul presente di chi vive sotto un regime autoritario.
La trasposizione di altri personaggi di Mussorgskij in figure della vita russa contemporanea aggiunge un ulteriore strato di realismo. Grigorij, il giovane pretendente al trono, diventa un driver che pedala attraverso il palco, simbolo di una classe lavorativa impoverita e oppressa. Le scene di incoronazione, un momento fondamentale dell’opera, si trasformano in un discorso televisivo di Capodanno, evocando le propagande moderne e la manipolazione dell’immagine pubblica. Ogni dettaglio scenico riflette la realtà della Russia oggi, con infermiere, prostitute, poliziotti, burocrati e vedove che popolano lo spazio scenico ideato da Sebrennikov stesso e Olga Pavliuk, ritratti di una società frammentata e lacerata.
La preghiera ortodossa, che nella versione originale è un momento di grande spiritualità corale, diventa in questa versione la colonna sonora di un team di spazzini che puliscono il marciapiede di un condominio prefabbricato, una panelka. Questo luogo, anonimo e desolato, è il simbolo di una Russia provinciale e abbandonata, dove la vita quotidiana è segnata dalla fatica, dalla miseria e dall’indifferenza. Invece Uglich, la città russa dove nel 1591 il giovane Zarevič Dmitrij Ivanovič morì misteriosamente, viene evocata attraverso il nome scritto sulla borsa di Grigorij, portando con sé il peso di una storia di violenza e omicidi di stato. La genialità della produzione di Serebrennikov sta in questa specificità. È una produzione pensata per i russi — sia quelli che sono rimasti, sia quelli che sono andati via. Come Dmitrij Markov, il fotografo morto per overdose un giorno prima della morte di Aleksej Naval’nyj, in prigione nel febbraio 2024. Le sue immagini vengono proiettate lungo tutta l’opera. Come la fotografia di Markov, anche la produzione di Serebrennikov è una rappresentazione cruda, intransigente, ma empatica e non giudicante del suo paese natale. Una tenerezza che emerge, anche nei momenti più desolati.
La violenza e la guerra sono onnipresenti: nelle case di provincia le pareti delle stanze sono tappezzate di foto di soldati caduti. Le vedove indossano nastri simbolici, omaggi ai mariti e figli morti in guerra. La propaganda televisiva diffonde immagini di guerra, mentre le famiglie ricevono premi burocratici per i loro cari defunti, simboli di una morte svuotata di significato e ridotta a mero strumento di controllo sociale. In una scena inquietante, le donne in lutto vengono premiate con targhe per la morte dei loro cari, una macabra celebrazione che ricorda la banalità della sofferenza in un sistema che non conosce pietà. Nella realtà alle vedove vengono offerti apparecchi domestici come forni a micro onde a compensazione delle perdite umane.
Ogni elemento della produzione è un frammento di autentica vita russa contemporanea, un mosaico di sofferenza e disillusione. Non c’è ironia né satira, non c’è nessuna distorsione, ma solo un’espressione di esaurimento, solo la verità spoglia di un paese che sembra incapace di liberarsi dal suo passato e di affrontare il futuro. L’aspetto realistico dei costumi (di Serebrennikov e di Tatiana Dolmatovskaya) e dei dettagli scenografici, come la presenza di cigni fatti di pneumatici e degli svogliati spazzini, contribuisce a creare un’atmosfera opprimente, che rende ogni momento sul palco vivo e tangibile. Questo è un mondo che non può essere ignorato, ed è il mondo che Serebrennikov vuole mostrare senza veli.
Il terzo atto, noto come l’“atto polacco”, tradizionalmente un’allegoria della lotta politica, diventa nella messa in scena di Serebrennikov una parodia dei thriller politici moderni. Il personaggio di Marina Mniszek, una nobildonna polacca che rivendica il diritto al trono russo, viene reinterpretato come una potente presidente degli Stati Uniti in uno spettacolo televisivo surreale che mescola propaganda e realtà. L’atto diventa una riflessione sui media e sulla loro influenza, con il personaggio di Grigorij che assiste alla narrazione attraverso la televisione, entrando infine nel sogno stesso, come se la realtà e la finzione si fondessero in un unico, inquietante spettacolo. Anche il dissenso viene filtrato e distorto dai media. Il messaggio è chiaro: la distrazione è complicità. Le persone sono troppo impegnate a consumare contenuti e narrazioni preconfezionate per rendersi conto della realtà che li circonda. La resistenza, quindi, diventa un atto di pura immaginazione, ma la sua inefficacia è evidente. La produzione di Boris Godunov di Serebrennikov è un atto di resistenza, una denuncia della disintegrazione sociale e politica della Russia. La morte di Boris non porta sollievo, né un cambiamento significativo. La violenza esplode senza sosta, le persone sono troppo divise e consumate dalle proprie lotte quotidiane per ribellarsi. La fine dell’opera non segna una liberazione, ma un silenzioso capitolo che continua a ripetersi.
Eccezionale il lavoro dello sterminato cast che rivela doti attoriali di tutto rispetto. Svetta la performance di Dumitru Mîțu, un Grigorij da ricordare per pienezza vocale e interpretativa. Tomasz Konieczny è un Boris di tradizione ma scenicamente efficace, meglio il Pimen di Vitalij Kowaljow, mentre Raehann Bryce-Davis delinea una Marina vocalmente e interpretativamente inappuntabile. Accanto a lei il preciso Rangoni di Gevorg Hakobyan. Di rilievo anche Ya-Chung Huang, un gelido Šujskij, e Shen Yang, sapido Varlaam. Particolare qui la parte dell’Uomo semplice/Santo folle affidata a Odin Lund Biron che convince sia come cantante che come attore. Il Coro dell’Opera Nazionale Olandese si assume con sicurezza il ruolo di personaggio principale dell’opera sotto la sapiente cura di Edward Ananian-Cooper e ottimo anche il coro di voci bianche Nieuw Amsterdams Kinderkoor istruito da Pia Pleijsier. Vasilij Petrenko, alla guida della sempre affidabile Koninklijk Concertgebouworkest, restituisce in maniera coinvolgente la sorprendente scrittura orchestrale di una partitura ricca di atmosfere contrastanti. La versione scelta è quella del 1872 con l’inserimento della scena dell’incoronazione del 1869.
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