Carlo Sigismondo Capece

La Resurrezione

foto © Fabrizio Sansoni

Georg Friedrich Händel, La Resurrezione

Roma, Basilica di Massenzio, 4 luglio 2025

★★★☆☆

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Quando il diavolo veste in lamé


Il Festival di Caracalla 2025, curato da Damiano Michieletto e intitolato Tra sacro e umano, si apre con La Resurrezionedi Händel. L’oratorio, eseguito dalla Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori diretta da George Petrou, convince solo nelle voci femminili. La regia di Ilaria Lanzino, attualizzata in chiave familiare e borghese, risulta confusa, di gusto discutibile e accolta con freddezza.

“Tra sacro e umano”, così si intitola il festival estivo di Caracalla 2025, un cartellone ricco e multidisciplinare, curato da Damiano Michieletto, che si snoda tra opera (Traviata, Don Giovanni), musica sacra (La Resurrezione), musical (West Side Story), danza e concerti pop.

Dà il via l’oratorio sacro che il giovane Händel scrisse durante il suo viaggio in Italia nel 1708 a Roma ospite della famiglia Ruspoli: una commissione di papa Clemente XI impegnato nella guerra di successione spagnola. Stupisce la decisione di incaricare un luterano come Händel per un oratorio pasquale di argomento così cattolico, ma probabilmente la scelta faceva parte di una meditata strategia tesa a celebrare la “resurrezione” della chiesa cattolica contro i nemici protestanti, oltre ovviamente alla grande fama del Sassone.

L’8 e 9 aprile di quell’anno viene dunque eseguito a Palazzo Bonelli (oggi Valentini) di piazza Santi Apostoli uno dei più costosi e spettacolari oratori che si fossero visti allora a Roma: «l’Oratorio per la Risurrettione di Nostro Signor Giesù Cristo su poesia del Sig. Carlo Sigismondo Capece e musica del Sig. Giorgio Federico Hendel», come si legge sul libretto stampato in ben 1500 copie. L’impresa frutterà al marchese Ruspoli il titolo di principe di Cerveteri l’anno successivo. Il teatro ligneo allestito al piano nobile del palazzo prevedeva quattro gradinate per l’orchestra e un podio per il concertino degli archi diretto da Arcangelo Corelli. Gli strumentisti erano parzialmente celati alla vista del pubblico da una tavola riccamente decorata con cornucopie e da una grande tela di 12 metri quadrati dipinta da Michelangelo Ceruti raffigurante la resurrezione di Cristo in un tripudio di putti e cherubini, l’angelo seduto sul sepolcro per l’annunciazione alla Maddalena, Maria di Cleofa e Giovanni Battista. Sullo sfondo demoni che sprofondano nell’abisso. Sono i personaggi che troviamo nei 23 numeri (tra cui due duetti e due cori) ripartiti in due parti e otto scene. (1)

Sulla tela era intagliato il titolo dell’oratorio con lettere alte 18 cm retroilluminate da candele sorvegliate da due uomini di guardia! L’orchestra era composta da 36 archi, due trombe, un trombone, due oboi, flauto e fagotto. La parte di Maria Maddalena era sostenuta da Margherita Durastanti nonostante il divieto papale di far cantare donne sulle scene pubbliche, infatti dopo le due esecuzioni private, nelle repliche pubbliche fu sostituita da un evirato cantore. Una delle arie di Maddalena è la frivola «Ho un non so che nel core», che conclude la seconda scena della prima parte e che la Durastanti canterà l’anno successivo a Venezia nella profanissima Agrippina, uno dei tanti esempi di disinvolti autoimprestiti comuni all’epoca.

Ora, sotto la maestosa volta a botte dei ruderi della basilica di Massenzio, ma con il rumore del traffico romano e i garriti dei gabbiani sopra il Colosseo e i Fori Imperiali, la musica della volenterosa Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori – progetto sostenuto dal Ministero dell’Università e della ricerca in collaborazione con Conservatorio “Alessandro Scarlatti” di Palermo – viene amplificata in modo tale da appiattire i suoni così che diventa difficile giudicare la resa strumentale (che non sembra eccelsa, comunque) e la direzione di George Petrou, frequentatore assiduo del repertorio händeliano, asciutta e precisa in cui si nota però un certo allargamento dei tempi che si riflette sulla fatica dei cantanti, soprattutto maschili: un Charles Workman (Giovanni) sempre grandissimo stilista ma troppo sobrio e un Giorgio Caoduro in difficoltà con l’impegnativo ruolo di Lucifero. Alla fine della rappresentazione saranno gli interpreti meno applauditi.

Lodi incondizionate invece per le voci femminili. Sara Blanch è un angelo dalla voce cristallina e sicura tecnica che svetta nelle agilità della iniziale «Disserratevi, o porte d’Averno» o nella successiva «Risorga il mondo, lieto e giocondo col suo Signor» fino alla drammatica «Se per colpa di donna infelice». Ana Maria Labin (Maddalena) si esprime invece in un registro più introspettivo e doloroso, con una linea di canto attenta alla bellezza del suono. Perfetta la Cleofe di Teresa Iervolino, anche lei impegnata negli sbalzi e nelle puntature di «Naufragando va per l’onde», l’immancabile aria dove la metafora della tempesta di mare riflette i tumulti dell’anima umana. Prima aveva offerto un grandioso esempio di espressività emotiva unita a perfetta tecnica vocale con l’intensa «Piangete, sì piangete».

È la grande eterogeneità dei numeri musicali dell’oratorio a crearne la drammaturgia senza scene, ma ultimamente molti pezzi sacri vengono presentati con un’ambientazione e una drammaturgia che spesso aggiungono un qualcosa di più alla fruizione del lavoro: è il caso del Saul allestito da Kosky a Glyndebourne nel 2015 o da Guth a Vienna nel 2021. Per non parlare del recente Stabat Mater di Castellucci a Ginevra. Ci prova anche Ilaria Lanzino, pisana attiva all’estero come regista, in Polonia ma soprattutto in Germania, la patria del Regietheater, dove ha fatto diventare Lucia di Lammermoor un uomo. Ora debutta in Italia con questa sua lettura dell’oratorio händeliano come racconto di una famiglia contemporanea in lutto per la perdita del figlio. Il solenne tema sacro viene quindi svolto nell’intimità borghese di una coppia devastata dal dolore, ma fin dall’inizio si evidenziano problemi con la sua drammaturgia: come è prassi comune il lavoro di Händel è introdotto da una Sinfonia tripartita nei movimenti Allegro-Lento-Allegro, ed è appunto sul tema allegro iniziale che entra in scena un mesto corteo funebre con la piccola bara bianca del morticino. Un effetto decisamente straniante. Ma è il secondo allegro che dà il tono della sua ambientazione, allorché entra in scena un gruppo di cheerleader d’entrambi i generi capeggiato da un angelo dalle ali spelacchiate che dopo aver intonato la sua prima aria se la deve vedere con Lucifero che si era camuffato nel gruppo, ma che ora, smascherato, si ripara dietro le quinte per poi riapparire indossando il suo vero abito: se il diavolo veste Prada, qui porta un lungo abito nero da sera con paillettes, parrucca e trucco pesante. Insomma, ci dice la regista, il travestimento da drag queen è diabolico e il male sta nella commistione dei generi. I partecipanti dei Pride ringraziano…

Sulle note del sacro oratorio assisteremo poi al tableau vivant con fermo immagine del piccolo portato inutilmente in ospedale dove è presente, chissà perché, un clown. In seguito vedremo il dramma della madre (Maddalena) prima in crisi religiosa, poi consolarsi con l’alcol e quindi venire poco cristianamente cacciata di casa dal marito (Giovanni) che si consola con un’altra sposa, già incinta però, con la quale convola a nuove nozze. O era un flashback del primo matrimonio? Chissà. Nel finale arriva dalla platea un bambino, biondo ovviamente, che si porta via la mamma n° 1 mentre quella n° 2 col neonato in braccio, assieme alla nonna Cleofe, Lucifero, il clown e altri personaggi intonano il coro finale «Diasi lode in cielo e in terra».

Se con questo suo spettacolo Lanzino voleva aprirsi la strada verso i teatri italiani non so se ci è riuscita. Lo spettacolo è sì tecnicamente ben costruito, ma per nulla pertinente e zeppo di momenti che non sono atti di irriverenza ma semplice e gratuita caduta di gusto. Nella scenografia di Dirk Becker la solita piattaforma rotante illustra i vari ambienti realisticamente definiti: l’altare della chiesa; la stanzetta del bambino con i suoi peluche; la camera da letto dei genitori dove il marito cerca di consolare sessualmente la moglie mentre lei gorgheggia «Ho un non so che nel core», scambiando la visione mistica di Maddalena con i mugolii di un orgasmo…

I costumi di Annette Braun e le luci di Marco Filibeck completano visivamente una lettura che secondo la regista si ispira al cinema d’autore: Antichrist di Lars von Trier; La stanza del figlio di Nanni Moretti; The Broken Circle Breakdown di Felix van Groeningen; So Long, My Son di Wang Xiaoshuai. Tanta roba per uno spettacolo infelice accolto piuttosto freddamente dal pubblico che ha risposto con applausi da minimo sindacale al termine di questa terza replica. Stasera l’ultima.

(1) Parte I. Scena 1 – In un dialogo fra l’Angelo e Lucifero, quest’ultimo domanda da dove venga tanta luce e il motivo di quell’insolita visita. La creatura celeste risponde annunciando la venuta del Re. Il signore degli abissi, cacciato un tempo dal Paradiso, crede ora di aver avuto la sua rivincita poiché in quel giorno il Figlio di Dio è stato sconfitto dalla morte. L’Angelo gli impone di tacere; infatti egli non comprende che Dio ha scelto di soffrire la Passione per amore e che con il suo gesto ha riscattato l’umanità e vinto la morte. Scena 2 – Maddalena e Cleofe si dolgono della morte di Gesù, quindi giunge Giovanni a consolarle e infondere in loro la speranza giacché il terzo giorno, quello della Resurrezione, è prossimo. Maddalena e Cleofe si recano presso il sepolcro di Cristo con balsami e unguenti, mentre Giovanni si reca a confortare la Vergine Maria. Scena 3 – L’Angelo invita le anime dei morti a uscire dal tetro luogo ove per lungo tempo hanno atteso il momento di seguire Cristo nel giorno del trionfo della vita.
Parte II. Scena 1 – Rimasto solo, Giovanni racconta le lacrime versate dalla terra e la speranza di veder risorgere il Dio vincitore. Scena 2 – L’Angelo intona una lode alla Resurrezione del Signore e del mondo che egli ha salvato. All’udire quelle parole, Lucifero è mosso a vendetta e proclama la sua intenzione di confondere gli animi umani e impedire alle pie donne di diffondere la notizia che Cristo è risorto. Scena 3 – Maddalena e Cleofe, giunte al Sepolcro, rammentano che Gesù non ebbe timore di affrontare la morte per loro. Scena 4 – Cleofe ha l’impressione che il cielo si stia rasserenando, poi nota che la tomba è aperta e che un giovane è assiso a destra. Maddalena esorta l’amica ad avvicinarsi alla misteriosa creatura da cui sente promanare un senso di consolazione. L’Angelo annuncia alle donne che Gesù non è più nella tomba, ma è risorto dai morti e che il felice messaggio deve essere riferito a tutti. Colme di gioia, esse cantano lodi e vanno cercando il Signore. Scena 5 – Cleofe si imbatte in Giovanni che le domanda dove sia diretta ed ella lo informa della notizia e del modo in cui le è stata rivelata. Poco dopo i due vengono raggiunti da Maddalena, che narra loro come abbia visto il Signore e gli sia corsa incontro per baciargli le piaghe, ma egli le abbia detto di non poter essere toccato e sia scomparso. A quelle parole Giovanni comprende che il tempo del dubbio è finito, Gesù è risorto e con lui il mondo è salvo. Il coro invita a lodare Dio in cielo come in terra.

Griselda

Alessandro Scarlatti, Griselda

Martina Franca, cortile del Palazzo Ducale, 1 agosto 2021

Continua la collaborazione con Orlando Perera, questa volta con un suo compte rendu dal Festival della Valle d’Itria.

La Griselda di Scarlatti a tre secoli dalla prima

Fondato da un gruppo di musicofili innamorati dei luoghi, tra cui l’allora sovrintendente della Scala Paolo Grassi, il Festival della Valle d’Itria si è fin dall’inizio distinto per le scelte innovative. In anticipo di due o tre anni sui tic dell’interpretazione filologica (oggi si preferisce dire “storicamente informata”) della musica del passato, ha riproposto titoli inediti e prassi esecutive dimenticate. Altri filoni tracciati negli anni Ottanta sotto la presidenza di Franco Punzi (tuttora attivo in questo ruolo) e la direzione artistica di Rodolfo Celletti, il repertorio belcantistico, da Monteverdi a Donizetti e oltre, e la grande scuola napoletana, operistica e strumentale. Insomma la migliore tradizione italiana, che tra Seicento e Ottocento ha insegnato la musica al mondo, imponendo com’è noto il proprio lessico, a partire dalla stessa parola “concerto”. Di certo, nel cortile del seicentesco Palazzo Ducale di Martina o nel teatro Verdi o nel chiostro di San Domenico, mai si è visto un titolo ovvio, né una messinscena banale. Magari kitsch, a volte poco riuscita: di routine mai. Gli spettacoli si tengono ora causa Covid solo nel cortile del Palazzo Ducale, dove ho ritrovato tutto quanto sopra detto.

La Griselda, ultimo esito nel genere di Alessandro Scarlatti (1660-1725), siciliano cresciuto artisticamente a Roma e Napoli e padre del più celebre Domenico, è proposta al Festival nel trecentesimo anniversario dalla prima rappresentazione (Roma, Teatro Capranica gennaio 1721). Il libretto di Apostolo Zeno del 1701 è stato intonato da molti musicisti coevi, come Antonio Pollarolo, Tommaso Albinoni e Giovanni Bononcini. Ispirò anche Antonio Vivaldi, che però lo fece modificare da Carlo Goldoni. Scarlatti si rivolse invece, secondo il musicologo Luca Della Libera, al poeta arcadico Carlo Sigismondo Capece.

La fonte è l’ultima novella del Decamerone di Boccaccio. Griselda è una povera fanciulla sposata a un gran signore, qui Gualtiero re di Sicilia, che l’ha scelta capricciosamente per moglie e che la sottomette a molte prove per verificare la sua obbedienza. Lei le supera tutte e alla fine conquista il suo cuore.

Atto I. Il re di Sicilia Gualtiero ha preso in moglie Griselda, umile pastorella di grande bellezza e virtù; la loro unione è però sempre stata osteggiata dai cortigiani, che non gradiscono avere una contadinotta per regina. Lo stesso Gualtiero ha spesso messo alla prova la fedeltà di Griselda, togliendole ad esempio la loro figlia primogenita e raccontandole di averla uccisa in nome della ragion di Stato; la donna non è però mai venuta meno ai suoi doveri e all’amore per suo marito. Dopo la nascita dell’erede maschio Everardo, i nobili siciliani scatenano una ribellione; Gualtiero decide allora di sottoporre sua moglie a un’ultima prova: dapprima la ripudia, rimandandola nei boschi a fare la pastorella; in seguito le annuncia di volersi risposare con Costanza, una bellissima trovatella cresciuta alla corte del principe di Puglia Corrado. Griselda, pur struggendosi di dolore, dà prova di grande fedeltà arrivando persino a decantare la bellezza della sua rivale, quando la vede in un ritratto; nel frattempo il nobiluomo Ottone, da sempre innamorato di lei, approfitta della situazione e tenta di insidiarla, ma lei non cede alla sua corte. A Palermo arrivano intanto Costanza, Corrado e il fratello di lui Roberto; questi è da sempre innamorato di Costanza, ricambiato, ma decide di rinunciare al suo amore poiché non vuole mettere a repentaglio l’alleanza tra Puglia e Sicilia; questo causa il gran dolore di Costanza, che decide a sua volta di rinunciare al suo amato e offrirsi in sposa a Gualtiero.
Atto II. Mentre Costanza viene accolta a corte con tutti gli onori, Griselda si adatta a vivere insieme a Everardo nella decrepita capanna in cui aveva abitato prima del matrimonio. Giunge Ottone, venuto a portare via il bambino; Griselda tenta di opporsi, ma quando Ottone le mente dicendo che si tratta di un ordine di Gualtiero si arrende al volere del suo amato, pur consapevole che suo figlio potrebbe essere ucciso come la primogenita; non cede nemmeno quando il nobiluomo le propone di salvare il ragazzo dandosi in sposa a lui, e lo scaccia malamente. Durante una battuta di caccia, Costanza giunge alla capanna di Griselda: le due donne provano subito un grande affetto reciproco e riconoscono nell’altra la madre e la figlia che hanno perduto, pur non osando confessarlo. Quando Gualtiero giunge in cerca di Costanza, sottopone Griselda a un’ennesima umiliazione: ella diventerà la serva della sua nuova moglie. Griselda, mossa sia dall’amore per lui che dall’affetto per Costanza, acconsente senza opporsi alla decisione.
Atto III. Dopo un tentativo da parte di Ottone di rapire Griselda, si scopre che il nobiluomo aveva rapito Everardo di sua volontà, e non per ordine di Gualtiero: sottoposto a processo, egli confessa di averlo fatto per amore di Griselda, sottolineando che la donna è stata irremovibile. Gualtiero, commosso dal gesto della donna, lo perdona. Più tardi Roberto e Costanza hanno uno struggente incontro in cui dapprima si rinfacciano la reciproca infedeltà, e poi finiscono per scambiarsi tenerezze; a quel punto vengono scoperti da Griselda, che rimane sdegnata della loro infedeltà nei confronti di Gualtiero. Questi, sempre più convinto della virtù di Griselda, la sottopone a un’ultima prova: le annuncia che non sarà più pastorella né serva, ma potrà vivere da nobildonna se accetterà di sposare Ottone. A quell’ultima umiliazione Griselda chiede di essere messa a morte, piuttosto che sposare un uomo diverso da quello che ama. A quel punto Gualtiero richiama a sé i membri della corte, mostrando loro come Griselda, pur essendo di umili natali, abbia dimostrato l’onestà e la virtù di una vera regina: questo metterà finalmente a tacere tutti i malcontenti. Griselda torna a corte come sposa di Gualtiero, il quale le rivela che Costanza è in realtà la loro primogenita, da lui segretamente affidata a Corrado; inoltre questa potrà sposare Roberto, mentre Everardo sarà riconosciuto legittimo erede al trono.

A Martina è stata proposta – sempre in tema di ricerca e innovazione – una nuova edizione critica, curata dall’ensemble La Lira di Orfeo, fondato dal controtenore Raffaele Pe (in scena come Gualtiero) e dal già citato studioso Luca Della Libera. Non è un aspetto secondario. I lavori musicali del passato non si possono eseguire leggendo direttamente i manoscritti antichi, che spesso contengono versioni differenti dello stesso lavoro. Bisogna che qualcuno studi i documenti, li compari e li traduca per così dire nel linguaggio musicale di oggi, ricostruendone insieme la forma ritenuta più vicina alle intenzioni dell’autore. Tale in parole semplici è l’edizione critica, una mediazione indispensabile per restituire alla vita i testi antichi.

In questo caso, ci ha permesso di conoscere un piccolo capolavoro poco eseguito. A memoria d’uomo solo due storiche esecuzioni in forma di concerto nei primi anni Sessanta e un’importante produzione a Berlino nel 2000, diretta da René Jacobs, da cui è derivato un CD. La ricchezza musicale di Scarlatti si manifesta in arie struggenti come «Mi rivedi o selva ombrosa» di Griselda, atto secondo, o drammatiche, «Fama, cred’io Temeraria» di Gualtiero, atto terzo. Ma lo splendore melodico si accompagna qui – e non è scontato nell’opera barocca – a una solida struttura drammaturgica, sicuramente merito del libretto, che Scarlatti proietta sapientemente nella musica. Tutto ciò richiede interpreti adeguati, tenendo presente che all’epoca i ruoli erano quasi sempre affidati ai grandi castrati. Il soprano Carmela Remigio nel ruolo-titolo, veterana del Festival, fornisce una prova maiuscola, riflettendo nella voce (quasi) sempre limpida la delicata malinconia, il sacrificio d’amore del personaggio, in una chiave che potremmo persino definire pre-romantica. Peccato alcune rare incertezze d’intonazione, dovute forse al plen-air e alla citata brezza che certo non aiuta la corretta diffusione del suono. Anche di Raffaele Pe non si può dire che bene, voce tanto potente, anche nel registro di per sé innaturale del controtenore, quanto duttile nelle agilità. Molto curati anche i recitativi. Nelle rimanenti parti si sono fatti valere Francesca Ascioti (Ottone), Mariam Battistelli (Costanza), Krystian Adam (Corrado), Giuseppina Bridelli (Roberto) e Carlo Buonfrate (Everardo).

Sul podio de La Lira di Orfeo, il greco George Petrou, preciso ma non sempre convincente nel fraseggio barocco. Molto efficace la regia scabra di Rosetta Cucchi, ispirata alla condizione femminile nella Sicilia di primi ‘900. Notevoli le donne velate, che richiamano direttamente un maestro del surrealismo come René Magritte.

Orlando

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★★★★★

Un Orlando quasi sperimentale

Degli innumerevoli libretti tratti dall’Ariosto questo, adattato da L’Orlando overo la gelosa pazzia di Carlo Sigismondo Capece (o Capeci, 1711), è quel­lo che si concentra maggiormente sulla gelo­sia che porta alla follia il cavalie­re carolingio. Rispetto al libretto originale qui sono aggiunti concertati a più voci (il terzetto alla fine del primo atto, lo stupefacente duetto del terz’atto) ed è un’invenzione di Händel e dell’ignoto librettista il personaggio di Zo­roastro, perno su cui ruota la vicenda.

Tutta la partitura è particolarmente interessante dal punto di vista armonico e strumentale e fa di quest’opera un unicum nella produzione del Sassone.

Orlando (Rolando), un grande soldato nel l’esercito di Carlo Magno, si innamora perdutamente della principessa pagana Angelica, che a sua volta è innamorata di un altro uomo, Medoro. Orlando non riesce ad accettarlo e questo lo porta alla pazzia. Gli viene impedito di causare una completa carneficina solo dal mago Zoroastro, che naturalmente riesce a farlo rinsavire, salvandolo dalla follia.
Atto I. Di notte, sulla sommità di una montagna. Lo stregone Zoroastro scruta nel firmamento il destino di Orlando e vede segni nelle stelle che il guerriero Orlando sarà ancora una volta capace di compiere atti di valore e riprendersi dalla sua insana gelosia per la principessa del Catai, Angelica. Il paladino, innamorato d’Angelica appare combattuto tra amore e dovere. Con un gesto della bacchetta magica, il mago evoca visioni inquietanti dei grandi eroi dell’antichità addormentati ai piedi di Cupido. Zoroastro sollecita Orlando a dimenticare Venere, la dea dell’amore, e ancora una volta seguire Marte, dio della guerra. Orlando è in un primo momento umiliato dalle parole di Zoroastro, ma poi decide che l’amore e il dovere non devono necessariamente essere in conflitto, riflettendo che Ercole non fu derubato del suo stato di eroe per la sua relazione con la regina Onfale o Achille perché si era travestito da donna per un certo tempo. Un boschetto con capanne di pastori. La pastorella Dorinda riflette sulle bellezze della natura, che però non la riempiono di serenità come in passato; lei sente che questo potrebbe essere un segno che si sta innamorando. Orlando piomba in scena con una principessa, Isabella, che ha appena salvato dal pericolo e Dorinda pensa che anche lui possa essere innamorato. Dorinda aveva dato protezione nella sua capanna alla principessa Angelica, quando Angelica aveva trovato il guerriero moresco Medoro ferito e vicino alla morte e si era perdutamente innamorata di lui e lo aveva portato a rifugiarsi con lei nella capanna della Pastorella. Dorinda è sconvolta dal fatto che Medoro e Angelica sono innamorati, perché lei stessa è innamorata di Medoro, ma Medoro dice a Dorinda che Angelica è una sua parente e l’assicura che non dimenticherà mai la sua gentilezza nei propri confronti. Dorinda sa che Medoro non sta dicendo la verità, ma lo trova assolutamente affascinante in ogni caso. Zoroastro dice ad Angelica di sapere che lei è innamorata di Medoro e l’avverte che la gelosia di Orlando, quando lo scoprirà, porterà a risultati imprevedibili e potenzialmente pericolosi. Quando Angelica incontra Orlando, lei finge di essere gelosa del suo salvataggio della principessa Isabella, dicendogli che non può aspettarsi che lei ami un uomo che non riesce ad esserle fedele. Orlando protesta che non avrebbe mai potuto amare nessun’altra a parte lei e si offre di fare qualsiasi cosa per dimostrarlo, persino combattere contro mostri feroci. Appena Orlando parte entra in scena Medoro e le chiede con chi lei stesse parlando. Lei spiega che Orlando è un guerriero potente ed è infatuato di lei e raccomanda che loro due dovrebbero ritirarsi nel suo regno ad est per sfuggire alla sua ira. Dorinda è sconvolta nel vedere che si abbracciano, ma gli amanti le dicono di non essere troppo scoraggiata: un giorno anche lei troverà l’amore. Angelica regala a Dorinda un prezioso bracciale in segno di gratitudine per la sua ospitalità.
Atto II. Una foresta. Dorinda, inconsolabile per la perdita di Medoro, ascolta la canzone malinconica dell’usignolo e trova che il suo canto si accorda con il suo stato d’animo. Orlando chiede di sapere il motivo per cui Dorinda ha detto a tutti che lui è innamorato di Isabella. Dorinda nega e dice che stava parlando non di lui, ma dell’amore di Medoro e Angelica. Gli mostra il bracciale che sostiene di aver ricevuto da Medoro e dice che vede il suo volto in ogni ruscello e fiore. Orlando riconosce il bracciale come quello che lui aveva donato ad Angelica ed è furioso per il suo tradimento. Giura di uccidere lei, poi se stesso e di inseguirla fino all’Inferno. Da una parte un boschetto di alberi di alloro, dall’altra l’ingresso di una grotta. Zoroastro consiglia a Medoro e Angelica di fuggire l’ira di Orlando e promette di proteggerli nel loro viaggio, consigliando loro che dovrebbero sempre essere guidati dalla ragione. Angelica e Medoro sono rattristati di dover lasciare i boschi in cui si sono innamorati e Medoro scolpisce i loro nomi sugli alberi come ricordo. Angelica è grata a Orlando per averle salvato la vita una volta e si sente in colpa per aver mentito, ma si dice che arriverà a comprendere il suo amore per Medoro, essendo lui stesso innamorato. Si congeda tristemente dal bellissimo bosco dove si era innamorata. Orlando irrompe sulla scena e tenta di uccidere Angelica, che invano chiama Medoro per salvarla. Zoroastro invoca alcuni spiriti che scagliano via Angelica lontano su una nuvola. Orlando comincia a perdere la ragione: si immagina di essere morto e vede se stesso entrare nell’Ade. Ha una visione del suo odiato rivale fra le braccia di Proserpina, regina degli inferi, ma poi si accorge che Proserpina piange e prova pietà per lei. Infuriandosi nuovamente, Orlando si precipita nella grotta, ma essa si apre dividendosi e rivela Zoroastro su un carro volante. Egli mette Orlando sul carro e lo trascina via.
Atto III. Un boschetto con delle palme. Medoro si era separato da Angelica nella confusione ed ora è tornato alla capanna di Dorinda per cercare rifugio una volta di più. Le dice che l’avrebbe amata, se avesse potuto, ma che non può donarle il suo cuore. Dorinda descrive il turbine di passioni causate dall’amore. Appare Orlando e, rivolgendosi a Dorinda come a Venere, dichiara il suo amore per lei. Dorinda può vedere che Orlando è ancora fuori di sé e questo è ancora più evidente quando lui la confonde con un nemico di sesso maschile con cui aveva combattuto in precedenza. Zoroastro appare e ordina ai suoi spiriti guardiani di trasformare il boschetto in una grotta buia dove cercherà di riportare Orlando alla ragione. Sa che le tempeste alla fine si allontanano e la calma tornerà. Angelica trova Dorinda che piange e lei spiega che Orlando nella sua follia ha bruciato completamente la sua casa, uccidendo così Medoro. Angelica è devastata e quando appare Orlando lo implora di uccidere anche lei. Orlando scaglia Angelica nella caverna e, immaginando che di aver liberato il mondo da tutti i suoi mostri, si sdraia per riposare. Zoroastro allora dice che è giunto il momento di guarire la mente di Orlando; un uccello magico scende con una fiala d’oro, il cui contenuto lo stregone spruzza sul viso addormentato di Orlando. Orlando si sveglia, riportato alla ragione, ma è inorridito di apprendere che ha ucciso sia Medoro che Angelica e implora la morte per se stesso. Zoroastro però aveva salvato sia Angelica che Medoro; Orlando è felice di vederli e augura loro una vita felice insieme. Dorinda dimentica il suo dolore e invita tutti a casa sua per festeggiare.

Cinque soli perso­naggi per un dramma quasi borghese: Angelica, Medoro, Dorinda e Zoroastro, oltre al paladino. Questa economia di personaggi met­te a dura prova la resistenza degli interpreti che hanno ognu­no un considere­vole numero di arie impegnative. Alla prima del 1733 il ruolo del titolo fu af­fidato al castrato Senesino e si ebbero allora dieci re­pliche dell’opera che poi non fu mai più ripresa se non nella seconda metà del Novecento. Lo stesso William Christie ne fu interprete in una versione nel 1994 con la regia di Carsen.

Qui a Zurigo nel 2008 la messa in scena è di Jens-Daniel Herzog che am­bienta la vicenda in una clinica di lusso in cui il direttore/Zo­roastro cerca di guarire con vari modi più o meno leciti la pazzia di Orlando, soldato trauma­tizzato della Prima Guerra Mondiale. L’ingenua pastorella Do­rinda è un’in­fermiera che alla fine si vendica con un solenne manrovescio dell’amore tra­dito di Medoro mentre Orlando a un certo punto ha le sembianze di un killer con l’ascia rubata al pompiere di servi­zio.

La scena claustrofobica è quella degli interni della clinica che l’a­bile sceno­grafo con pareti scorrevoli trasforma in vari ambienti. Non c’è traccia dei verdi praticelli, degli alberi ombrosi, dei fiori odorosi evocati dal li­bretto: il regista ci vuole suggerire come essi siano solo nella fantasia ma­lata degli ospiti e un’invenzione del mago (come Alcina nell’Orlando di Vivaldi). L’idea registica è sicu­ramente scioccante, ma regge molto bene lo sviluppo della vi­cenda e le sorprese sono teatralmente efficaci.

Christie e La Scintilla sono tutt’uno con i cantanti, ed è il mi­glior compli­mento che si possa fare alla sua precisa e pimpante direzione orchestrale. Le finezze strumentali della parti­tura sono innumerevoli, con tutti quegli assoli degli strumenti che accompagnano il canto dei personaggi.

In scena nel ruolo principale c’è la voce calda e insolita del mezzo­soprano serbo Marijana Mijanovič, che dipana felicemente le agi­lità richieste dalla sua parte e rende drammaticamente convincente il suo personaggio. La scena della paz­zia del second’atto è vocal­mente e teatralmente fenomenale. Degli altri quat­tro ottimi inter­preti una menzione merita la straordinaria Angelica di Marti­na Janková, stilista perfetta e voce di grande bellezza.