Guelfo Civinini

La fanciulla del West

foto © Daniele Ratti – Teatro Regio Torino

Giacomo Puccini, La fanciulla del west

Teatro Regio, Torino, 23 marzo 2024

★★★☆☆

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L’omaggio del Regio torinese a Puccini continua col suo western

«Il poema sinfonico di Puccini» lo aveva definito Arturo Toscanini che ne aveva diretto la prima a New York nel 1910. In effetti la musica dispiegata dal compositore ne La fanciulla del West è opulenta e sproporzionata rispetto alla vicenda narrata e si è talmente trasportati dalla musica e ammaliati dalla ricercata orchestrazione che quasi danno fastidio i banali interventi dei minatori che si lamentano del loro stato e piangono la mamma lontana.

Nella sua incessante volontà a «innovare lo stile», dopo Madama Butterfly Puccini aveva cercato nuove strade che lo avevano portato all’insolito progetto della Fanciulla e in seguito de La rondine, una “colonna sonora” la prima, un’“operetta” la seconda. Anche il successivo Trittico, se non sperimentale, era comunque qualcosa di mai affrontato prima. Quella della Fanciulla è una musica sontuosa che nel secondo atto non si fa scrupolo di ricordare la suspence della fucilazione nella Tosca, mentre nel terzo la perorazione di Minnie per il suo Dick sembra voler citare «N’est-ce plus ma main que cette main presse?» dell’“altra” Manon, quella di Massenet. Puccini era un musicista attento verso la cultura musicale della sua epoca, con Strauss e Debussy in prima linea, e nella Fanciulla questa apertura è ben evidente. Ma resta il problema di un lavoro che si stacca totalmente dagli altri per la mancanza dei sensuali sfoghi melodici a cui Puccini aveva abituato il suo pubblico. Per non dire del libretto di Carlo Zangarini rielaborato in seguito da Guelfo Civinini e con ingenui versi spezzati e goffe rime, non all’altezza di quelli di Adami, Forzano e soprattutto Illica & Giacosa.

Tra le meno apprezzate opere di Puccini, ogni volta spero che una nuova esecuzione mi faccia cambiare idea, ma neanche questa volta ciò è avvenuto. Non per la qualità dello spettacolo, ma perché ci vorrebbe qualcosa di veramente speciale per produrre il miracolo, cosa che non è avvenuta con questa produzione del Teatro Regio. La direzione di Francesco Ivan Ciampa esalta la superba orchestrazione e il tono drammatico della vicenda ma ne sottolinea anche il carattere di colonna sonora, con la musica sempre in primo piano e con i cantanti spesso coperti dagli strumenti, vuoi per la non perfetta acustica della sala e della scenografia, vuoi per la qualità delle voci. Il soprano americano Jennifer Rowley è quella che più risente del volume orchestrale con una voce di bel timbro ma di scarsa proiezione e con acuti talora problematici. Il Dick di Roberto Aronica è al contrario molto sonoro, sicuro negli acuti ma con una declamazione stentorea che nuoce al fascino del personaggio. Il baritono Gabriele Viviani connota con efficacia il carattere detestabile di Jack Rance mentre nel folto gruppo di comprimari si evidenziano per le indubbie qualità vocali e sceniche il Nick di Francesco Pittari e l’Ashby di Paolo Battaglia. Filippo Morace lascia i consueti ruoli comici del teatro napoletano per delineare il personaggio più umano di tutta la vicenda, Sonora. Completano il cast voci di esperienza e altre ormai consolidate uscite dalla scuola del Regio Ensemble: Gustavo Castillo (Wallace), Cristiano Olivieri (Trin), Eduardo Martínez (Sid), Alessio Verna (Bello e Harry), Enrico Maria Piazza (Joe), Giuseppe Esposito (Happy), Tyler Zimmerman (Larkens), Adriano Gramigni (José Castro) e Alejandro Escobar (Un postiglione). Ksenia Chubunova è Wowkle, il personaggio della squaw che con il suo linguaggio fatto di verbi all’infinito e Ugh! fa rizzare i capelli anche a chi poco sopporta il politically correct – e la regista ironicamente fa entrare in scena Billy inalberando il cartello «Native Lives Matter»!

Nel manifesto della prima al Metropolitan Opera House la “special performance – first time on any stage” di The Girl of the Golden West – dove Minnie era Emmy Destinn, Dick Enrico Caruso e il direttore d’orchestra Arturo Toscanini – sono indicati uno stage manager, un chorus master e un technical director, ma non la regia, come era la prassi del tempo. Ora invece i responsabili dell’allestimento hanno il loro giusto peso nell’economia dello spettacolo e i nomi di Valentina Carrasco (regista), Carles Berga e Peter van Praet (scene), Silvia Aymonino (costumi) e Peter van Praet (luci) sono elencati a pieno titolo assieme a quelli degli interpreti sul palcoscenico. La regista di Buenos Aires firma sempre i suoi spettacoli con un’idea forte e questa Fanciulla è presentata come la ripresa di un film western. Il saloon dove si rifocillano i minatori dopo il duro lavoro e la baracca di Minnie sono ambienti isolati nella nudità del palcoscenico trasformato in un set cinematografico dove compaiono macchine da presa, un regista e alcuni assistenti. L’idea non è tra le più originali – la stessa regista l’aveva utilizzata nella sua Tosca a Macerata – ma si giustifica per la fascinazione di Puccini per la nuova musa che in quegli anni sfornava innumerevoli pellicole sull’epopea della “corsa all’oro” nel West americano, anche se la Carrasco pensa agli “spaghetti western” e ai film di Sergio Leone piuttosto che alle lontane pellicole mute e in bianco e nero. Anche Robert Carsen nella sua produzione alla Scala aveva utilizzato una lettura cinematografica, ma con risultati più convincenti. Nello spettacolo della Carrasco su uno schermo che scende dall’alto sono proiettate le immagini che vengono riprese in tempo reale, talora per evidenziare i primi piani dei personaggi oppure per farci vivere la vicenda da una prospettiva diversa, come quella di Dick nascosto nella baracca di Minnie all’arrivo dello sceriffo Jack. L’espediente non è però utilizzato al meglio, l’utilizzo delle camere da presa non ha una sua chiara logica e gli interpreti del “film” si confondono con quelli della “realtà” dell’opera, come quando alla colletta per Larkens partecipa anche il regista o quando alla ricerca del bandito non partono solo i minatori armati di fucili ma anche i macchinisti con i loro martelli e in maniche di camicia sotto la neve… Nel secondo atto la trovata registica è meglio realizzata e risulta più efficace, con il suo gioco di interni-esterni e la nevicata con i fiocchi bianchi sparsi dall’alto e il grande ventilatore. Meglio ancora l’atto terzo quando ci mostra la coppia incamminarsi su una strada verso un futuro più sereno con la citazione del celeberrimo finale di Modern Times di Charlie Chaplin.

Sugli applausi finali scorrono i titoli di coda del film che abbiamo visto ripreso in diretta. E sono applausi calorosi per tutti.

La fanciulla del West

Giacomo Puccini, La fanciulla del west

Berlino, Staatsoper unter den Linden, 13 giugno 2021

★★★☆☆

(video streaming)

Tra Far West e Las Vegas

Riapertura al pubblico della Staatsoper di Berlino dopo la pandemia. Cinquecento spettatori sono ammessi in sala, alcune centinaia davanti allo schermo gigante rizzato nell’area del defunto aeroporto di Tempelhof e molte altre migliaia sono davanti agli schermi casalinghi per la trasmissione in streaming di La fanciulla del west, in una produzione con nomi stellari, a cominciare dal maestro concertatore, Antonio Pappano, in una delle sue poche apparizioni nel teatro berlinese, che si conferma il raffinatissimo esecutore che è. Il punto di forza dell’opera sta proprio nell’orchestrazione, che passa dalla trasparenza strumentale al pieno da musica per film ante litteram, con una forza teatrale che riscatta l’ingenuità del lavoro. E Pappano realizza tutto magistralmente, sia che si tratti del fragoroso incipit, sia dei rari momenti lirici di cui il lavoro è parco rispetto agli altri di Puccini. La partitura è in una versione ridotta, di Ettore Panizza, per poter mantenere gli strumentisti con il distanziamento previsto dalle norme sanitarie, ma il risultato non ne risente. Chi ama quest’opera non soffrirà. E chi non la ama continuerà a non amarla…

Completamente assente l’aspetto romantico o nostalgico, il Far West messo in scena dalla regista americana Lydia Steier evidenzia la violenza e la brutalità della vicenda quasi con cinico sadismo: fin dall’inizio si vede un impiccato che viene scaricato su un pickup sotto lo sguardo di un adolescente che è obbligato ad assistere allo spettacolo. Altre esecuzioni sommarie seguiranno assieme alle continue scazzottate che incorniciano la lezione biblica dei rudi cercatori d’oro e della finale caccia all’uomo. Ambientato ai nostri tempi, la California di Belasco non è distante da Las Vegas a cui si ispirano alcuni momenti dello spettacolo, come la discesa dall’alto in un cuore di luci di Jake Wallace per la sua nostalgica ballata affiancato da due – inutili – acrobate. La “Polka” è un furgone delle bibite con insegna al neon, sul fondo si intravedono proiezioni di immagini naturalistiche, la capanna di Minnie è un’incongrua monocamera in cui bivaccano Wowkie e Billy, due drogati sfatti con un bambino, lo stesso adolescente dell’inizio, di chissà chi. Nel terzo atto la “Polka” è rovesciata, un altro impiccato penzola al cappio e il campo è come investito da un’apocalisse tinta dal cielo rosso e livido dello sfondo. La storia d’amore e redenzione di Minnie e Dick è costretta a forza in questa visione e non risolve la inattualità della vicenda.

Anja Kampe è una fervida Minnie dal registro un po’ limitato per il suo impervio ruolo (la crudeltà di Puccini per i soprani…) e il suo «Anch’io vorrei trovare un uomo» è un grido sforzato. Più a suo agio Marcelo Álvarez come Dick Johnson e Michael Volle come lo sceriffo Rance. Nick (Stephan Rügamer) è qui incomprensibilmente en travesti come bartender in paillettes e nel folto gruppo maschile si notano Viktor Rud (Happy), Łukasz Goliński (Sonora) e Grigory Shkarupa (Jake Wallace), tutti efficaci.

La fanciulla del West

Giacomo Puccini, La fanciulla del west

★★★★☆

Monaco di Baviera, Nationaltheater, 30 marzo 2019

(diretta streaming)

Una Fanciulla di successo a Monaco

Con l’addio alle scene della Gruberová nel Devereux e il Parsifal diretto da Petrenko, Monaco avrebbe già tutte le carte per essere una meta operistica di grande interesse in questo periodo, ma per buona misura c’è anche questa intrigante produzione de La fanciulla del West.

Nell’allestimento di Andreas Dresen se non tra i cercatori d’oro del Far West ottocentesco, siamo comunque tra i minatori di una qualche miniera d’oggi. L’atmosfera maschile e violenta non cambia, i colori sono cupi sia nella scenografia di Mathias Fischer-Dieskau (il figlio maggiore del rimpianto baritono) sia nei costumi di Sabine Greunig. Unica macchia chiara e colorata è quella della figura di Minnie. Perfetto il gioco luci di Michael Bauer che evidenzia i personaggi sul fondo nero di un palcoscenico per lo più vuoto: una scala nel primo atto, una microscopica capanna nel secondo, un traliccio a cui impiccare Dick nel terzo. Il regista segue fedelmente la vicenda con un ottimo lavoro attoriale anche nei personaggi minori, il che rende la storia particolarmente coinvolgente.

Il giovane direttore americano James Gaffigan gioca con la drammaticità della partitura in modo molto abile e dà allo spettacolo il giusto taglio cinematografico. Seppure a livelli generosi, l’orchestra è sempre rispettosa delle voci in scena. La wagneriana Anja Kampe non è certo intimorita del volume sonoro che esce dalla buca cui replica con acuti possenti. Di tutto rispetto è poi la sua presenza scenica. Brandon Jovanovich ha il physique du rôle perfetto dello yankee Dick Johnson alias bandito Ramerrez, ma la voce cambia nei passaggi di registro e il timbro si sbianca nell’acuto. L’unica vera aria dell’opera, «Ch’ella mi creda libero e lontano», è comunque efficacemente resa. Convincente lo sceriffo Rance di John Lundgren, così come il barista Nick di Kevin Conners. Della folta schiera dei minatori si fanno ricordare lo Ashby di Bálint Szabó e il Sonora di Tim Kuypers.

Sì, questa produzione mi ha fatto apprezzare di più questo titolo pucciniano che non è mai stato tra i miei favoriti.

La fanciulla del West

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Giacomo Puccini, La fanciulla del West

★★★☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 10 maggio 2016

(live streaming)

Questo essere film di Puccini. Ugh.

Agli studenti ammessi come consuetudine alla prova antigenerale Riccardo Chailly ha raccontato che Dimitri Mitropoulos avrebbe voluto fare una versione puramente orchestrale di quest’opera. Mica una cattiva idea. La partitura strumentale è la cosa migliore: nuova, fluida, la più moderna di quelle di Puccini, a tratti quasi schönberghiana o invece impressionista. Il canto è invece senza ampie oasi melodiche, a parte l’arioso di Dick Johnson nel terzo atto, tutto un canto di conversazione non facile da rendere – e su un libretto di disarmante ingenuità.

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Quando a New York Toscanini presenta questo lavoro siamo nel 1910 e il cinema, nato da poco, con le pellicole di Tom Mix aveva scoperto il West, l’epica americana. In questa produzione scaligera all’apertura del sipario il pubblico di minatori sta assistendo alla proiezione di My Darling Clementine di John Ford (Sfida infernale, che però è del ’46) e alla fine Minnie e Dick Johnson, imborghesiti nei loro cappottoni cammello (lui sembra Caruso, l’interprete originale) e stola di pelliccia, si rivelano i protagonisti del film che i minatori vanno a vedere entrando in una sala cinematografica dove viene proiettato The Girl of the Golden West, il dramma di David Belasco da cui è tratto il libretto.

La fanciulla del west

L’allestimento di Robert Carsen è appunto un omaggio al cinema western americano: il primo atto ha come sfondo un’immagine cinemascope della Monument Valley che trascolora nelle luci del giorno (bello il lavoro fatto da Carsen stesso e da Peter van Praet), mentre nel secondo assieme a Luis Carvalho il regista costruisce un interno di baracca di legno in un bianco nero rigato come una vecchia pellicola. Anche i costumi della Petra Reinhardt rimandano a quell’epoca.

Assente dal teatro milanese da oltre vent’anni, c’era molta attesa per questa produzione che doveva restituire La fanciulla del West alla versione originale, quella prima cioè dei tagli e delle tante piccole modifiche apportate da Toscanini, modifiche e tagli che erano stati ufficializzati sulla partitura a stampa di Ricordi. Ma un’indisposizione di Eva-Maria Westbroek, la prevista protagonista che aveva già cantato la parte in patria, ha richiesto una sostituzione all’ultimo momento e la mancanza di prove ha fatto desistere dall’introdurre alla prima le modifiche alla versione di tradizione delle pagine in cui è coinvolta Minnie.

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Il soprano Barbara Haveman, anche lei olandese, improvvisamente accorsa a salvare le recite si è trovata in panni non molto adatti né al suo fisico né alla sua vocalità. A parte le incertezze della prima, anche nella recita trasmessa dalla televisione ha confermato la sua inadeguatezza sia scenica sia vocale, con acuti gridati, assenza di colori e di mezze voci e una dizione impastata. La stessa inadeguatezza scenica si ha nel Dick Johnson di Roberto Aronica, impacciato nei movimenti e vocalmente poco espressivo. Un po’ sopra le righe infine il Jack Rance di Claudio Sgura, seppure l’interprete più efficace.

Chailly si conferma interprete ideale per la concertazione di questa partitura con un grande senso dei contrasti emotivi. La sua intenzione di portare in scena l’opera omnia del maestro lucchese non può non far piacere, ma al momento il mio giudizio su La fanciulla del West non cambia.

La fanciulla del west

La fanciulla del West

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★★★☆☆

Spaghetti western a Wall Street

Il fatto che non mi sarei rivisto la solita ambientazione da far west di film di serie B è stato il motivo principale per la visione di questo DVD di un’opera che non è proprio tra le mie preferite. Con il suo tono da musical è un po’ un unicum nella produzione pucciniana e certamente non la sua cosa migliore.

Settima delle dieci opere completate dal compositore di Lucca è su libretto di Civinini e Zangarini tratto da The Girl of the Golden West di quel factotum del teatro (attore, autore, impresario, regista, scenografo, costumista…) che fu David Belasco il quale aveva già fornito a Illica e Giacosa la vicenda di Madama Butterfly. La prima, diretta da Toscanini e con Caruso nella parte del bandito Dick Johnson, fu data al Metropolitan di New York nel 1910.

Atto primo. In California, intorno al 1850, ai tempi della febbre dell’oro. L’interno della “Polka”. Terminato il lavoro i minatori si vengono a rilassare. Nick, il cameriere, li serve, e si prende gioco di Sonora e Trin, facendogli credere che Minnie sia innamorata di loro: i due, lusingati, offrono whisky e sigari a tutti. Entra il cantastorie Jack Wallace, che canta la nostalgia di casa, provocando la commozione disperata di Larkens, che decide di abbandonare la miniera. Tutti, impietositi, fanno una colletta per aiutarlo a partire. Si gioca anche a carte, e Sid bara. È però scoperto e punito dallo sceriffo Jack Rance (baritono). Arriva poi Ashby, rappresentante della compagnia Wells Fargo; avvisa tutti che Ramerrez si aggira nei dintorni, e poi va a dormire. Rance dichiara che Minnie lo sposerà, e Sonora, ingelosito, si scaglia contro di lui. Si spara, ma in quell’istante entra Minnie, che fa cessare la lite e zittisce i litiganti. Tutti, uno dopo l’altro, le offrono doni. Anche Ashby si sveglia e brinda con lei. Minnie quindi fa la consueta lettura di un capitolo della Bibbia ai presenti. Finita la lezione, ella rimprovera l’indiano Billy, che ha fatto un figlio con l’indiana Wowkle, sua cameriera, e gl’ingiunge di sposarla. Poi arriva la posta, per tutti. C’è fra l’altro la lettera per Ashby di una donna equivoca, Nina Micheltorena, che offre la cattura di Ramerrez per vendetta. Ashby dice che andrà all’appuntamento. La sala si svuota, tutti vanno nella sala da ballo mentre Minnie e Rance restano soli. Nick avvisa la donna che fuori è arrivato un forestiero, che ha chiesto whisky e acqua; Minnie ride, e assicura che poi lo metterà a posto. Lo sceriffo dichiara il suo amore a Minnie, offre addirittura mille dollari per un suo bacio, ma Minnie lo respinge duramente: solo chi avrà il suo amore la potrà baciare. In quella entra il misterioso forestiero; Minnie cambia di colpo espressione e dice a Nick di servire il nuovo venuto. Dal breve colloquio fra Minnie e il nuovo venuto si apprende che i due s’erano già incontrati per caso sulla strada per Monterrey qualche giorno avanti; nessuno dei due era rimasto indifferente all’altro. Rance allora s’infuria, e pretende spiegazioni. Il nuovo venuto dichiara di chiamarsi Dick Johnson, ma non aggiunge molto. Rance allora richiama i minatori per farlo parlare, ma Minnie dice di conoscerlo: tutti diventano allora gentili, anzi invitano Johnson a ballare, mentre lui invita Minnie. Lo sceriffo è umiliato e scontroso. Mentre si balla arrivano dei minatori con un bandito prigioniero, José Castro, che dice di essere scappato dalla banda di Ramerrez e di esser pronto a guidarli al bandito, per vendetta. Rance, Ashby e gli altri decidono allora di tentare il colpo. Non visto, il bandito si avvicina a Johnson, che in realtà è Ramerrez travestito, e gli dice d’essersi fatto catturare per sviarli; gli altri verranno fra poco; ci sarà un fischio, se c’è il bottino basterà rispondere con un altro fischio. La spedizione parte. Minnie e Johnson rimangono soli. È evidente che si sono innamorati. Minnie narra della dura vita dei minatori, e dell’oro custodito proprio qui, nel saloon, a cui lei ora fa la guardia. Si ode il fischio; ma Johnson non risponde, non volendo tradire Minnie e poiché ha una certa istruzione, il suo modo di parlare finisce di conquistare la ragazza. Johnson dice di dover andar via, e Minnie l’invita più tardi a visitarla nella sua capanna, quando avrà il cambio nella guardia all’oro e rincaserà. Johnson verrà.
Atto secondo. Interno della capanna di Minnie. Billy parla con la serva indiana Wowkle, ha fissato le nozze per domani. Arriva Minnie che si compiace e lo manda via, si accerta con Wowkle che il matrimonio si farà e poi dà al bambino dei doni avuti da Sonora e Trin. Poi le dice di preparare la tavola per due. E Johnson arriva. Nel dialogo fra i due la reciproca attrazione si cambia in amore: lui vorrebbe baciarla, Minnie allora fa uscire Wowkle, e poi si ha un lungo bacio appassionato. Poi Johnson dice che deve andare, ma aprendo la porta si vede che è scoppiata una tormenta, il sentiero è scomparso. Allora Minnie offre ospitalità a Johnson. Come i due stanno per addormentarsi si odono delle voci. Minnie nasconde Johnson, poi entrano Rance, Sonora, Ashby e Nick. Rance trionfante dice a Minnie che non solo lo sconosciuto straniero era Ramerrez, ma anche che l’equivoca Nina Micheltorena è la sua amante, ed è questa che lo ha denunciato per vendetta offrendo pure una sua foto. Minnie incassa il colpo, poi dice che non ha bisogno di aiuto e congeda i quattro. Poi, indignata e disperata, affronta Johnson. Questo si difende, e narra che non voleva essere bandito, lo costrinse il padre di cui ignorava la doppia vita, che morendo gli lasciò la banda in eredità. E afferma che da tempo voleva redimersi, e vedendo Minnie credeva di aver trovato la via della redenzione. Minnie gli crede, ma sconvolta per il bacio dato lo caccia via. Ma sull’uscio Johnson viene abbattuto da un colpo di pistola, sparato a bruciapelo dallo sceriffo, il quale, insospettito dal contegno di Minnie, si era appostato nei pressi. Minnie allora soccorre Johnson e lo nasconde con grande sforzo nel solaio. Rance entra, cerca dappertutto, non trova nessuno, poi cerca di baciare Minnie a forza. Lei si divincola e lo respinge, lui tende la mano in gesto di minaccia e vede cadere dal soffitto delle gocce di sangue proprio sulle sue dita. Johnson è così scoperto, Minnie deve riportarlo giù. La ragazza, furiosa, propone a Rance una partita a poker: se vincerà, Johnson sarà suo, e Rance dovrà dimenticare quanto è successo, se perderà, lo sceriffo potrà arrestare e portare via il bandito. La tremenda partita ha luogo; sembra che Rance stia vincendo, ma Minnie abilmente bara e vince lei. Rance sconfitto esce furioso.
Atto terzo. In una radura della grande selva californiana.
Sorge l’alba, nel bivacco Rance parla con Nick, e gli svela come due settimane prima ferì Johnson/Ramerrez, ma Minnie lo obbligò a tacere. Ramerrez poi venne curato da lei ed ora guarito sta tentando la fuga. Infatti i minatori guidati da Ashby stanno setacciando la foresta. La caccia riprende con il sorgere del sole, e poco dopo grida di esultanza annunciano la cattura del bandito, che viene portato al cospetto di Rance ed è subito circondato da una turba di uomini minacciosi, pronti, su incitamento dello sceriffo, ad impiccarlo; a nulla vale il suo canto d’amore nel quale chiede di non dire a Minnie la verità sulla sua morte. La sua sorte sarebbe segnata se, d’improvviso, avvertita nel frattempo da Nick, in sella ad un cavallo ed impugnando una pistola, non intervenisse in suo soccorso Minnie. Sarà lei, con una paziente opera di persuasione, e con l’aiuto di Sonora ormai dalla sua parte, a convincere i minatori a lasciare libero il suo uomo: si rivolge ad ognuno, ricordando i giorni trascorsi insieme, le ore della tristezza e della speranza, e riesce così a commuovere quegli animi induriti dalla fatica e dalle sofferenze. Johnson è finalmente libero e Minnie s’allontana, felice con colui che nessuno potrà più toglierle, fra il pianto dei minatori.

Questa è l’edizione cent’anni dopo della Nederlandse Opera di Amsterdam con la messa in scena di Nikolaus Lehnhoff e la scenografia di Raimund Bauer la cui idea è che i cercatori d’oro del west altro non sono che l’origine di quella corsa alla speculazione finanziaria e borsistica le cui immagini vediamo proiettate durante il breve preludio. Il saloon Polka è una specie di leather bar sottoterra e da uno squarcio nel soffitto si vedono i grattacieli della metropoli. Come nella scenografia della finlandese Die tote Stadt anche qui abbiamo una città in prospettiva, ma mentre là la città di Bruges era “protagonista” a tutti gli effetti, qui le torri di New York rimangono puramente decorative e l’idea di critica neocapitalista di Lehnhoff non trova sviluppo nella vicenda, che rimane un classico triangolo amoroso. Gli anacronismi qui tra la vicenda e Wall Street rimangono tali e quali: i personaggi vestono come in una convention di gay sadomaso, ma hanno l’ingenuità dei caratteri degli spaghetti western.

La direzione di Carlo Rizzi non evidenzia nulla di nuovo della partitura. Eva-Maria Westbroek conferma che il ruolo di Minnie necessita di un’interprete nel pieno della sue capacità, e lei lo è. Lucio Gallo e Zoran Todorovich le tengono degnamente testa.