Johann Gottlieb Stephanie

Die Entführung aus dem Serail

foto © Mattia Gaido

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio)

Torino, Teatro Regio, 8 novembre 2025

★★★☆☆

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Un harem senza scintille, salvo in buca

Mozart’s Die Entführung aus dem Serail reveals his “elusive” nature, mixing wit, drama, virtuosity, and psychological nuance within dazzling orchestration and exotic “Turkish” color. Blonde’s proto-feminist rebellion contrasts with the comic cruelty of Osmin. The work’s history, past Turin productions, and Versailles staging frame a mixed revival: uneven singing and staging, redeemed by Gianluca Capuano’s exceptional, vibrant conducting.

La produzione del Ratto dal serraglio al Regio risulta esteticamente curata ma teatral­mente debole: lo spettacolo di Michel Fau, nato per Versailles, appare estraneo alla sala torinese e la regia manca di un’idea forte. Cast diseguale, con Leonor Bonilla e Manuel Günther eccellenti ma protagonisti deludenti. Trionfa invece la direzione luminosa, teatrale e magistrale di Gianluca Capuano.

“Inafferrabile” è definito Mozart da Alberto Bosco nel suo intervento sul programma di sala, soprattutto il Mozart de Il ratto dal serraglio, secondo titolo della stagione del Regio di Torino. La sua inafferrabilità sta nell’ambiguità e nella natura sfuggente della musica in questo Singspiel, che è allo stesso tempo leggero e profondo, comico e drammatico, unisce virtuosismo canoro e caratterizzazione psicologica, orchestrazione brillante e raffinatezza.

Femminista ante litteram, Blonde minaccia la rivoluzione delle donne dell’harem come risposta alle avances del pascià che l’ha rapita assieme alla padrona. È su questo argomento di Gottlieb Stephanie il Giovane che nel 1782 Mozart compone Il ratto dal serraglio, appena arrivato a Vienna dopo aver lasciato Salisburgo per essere più libero, finalmente emancipato dal giogo dell’arcivescovo Colloredo. Libero anche dall’opera seria italiana, scrive con questa commedia musicale il suo primo Singspiel in lingua tedesca. La moda del tempo è quella delle turcherie, e Wolfgang se la gode appieno: fanfare di giannizzeri, strumenti esotici e percussioni a profusione. Lo stesso imperatore si lascerà convincere, ma a modo suo: «Troppo bello per le nostre orecchie e troppe note». «Giusto quanto basta!», la risposta del compositore.

Il libretto è divertentissimo: esilaranti le rime con cui Osmin risponde a Belmonte nel primo duetto, per poi minacciare Pedrillo di venire «prima decapitato, poi impiccato, quindi impalato su picche roventi, quindi abbruciato e poi legato e fatto affogare, e finalmente scuoiato». Esattamente in quest’ordine. Chissà le risate che si sarà fatto il ventiseienne Mozart!

Negli anni successivi l’opera venne rappresentata spesso in Italia – a una rappresentazione del 1807 assistette anche Stendhal, che ne riferisce nella sua Vie de Rossini – per poi quasi sparire: la mentalità romantica poco apprezzava questo gioco disinvolto di sentimenti e, come per il Così fan tutte, bisognerà aspettare tempi più moderni. In Italia Il ratto dal serraglio verrà eseguito in forma di concerto, e in lingua italiana, all’EIAR solo nel 1934, mentre l’anno successivo si avrà un allestimento scenico alla Pergola di Firenze, questa volta in lingua originale. A Torino si ricorda la produzione del 1970 al Teatro Nuovo con il Belmonte di Luigi Alva e, al nuovo Regio, quella del 1983 con il Pedrillo di lusso di William Matteuzzi. L’ultima apparizione torinese fu nel 2006, con la regia di Davide Livermore.

Questo nuovo Ratto dal serraglio arriva dall’Opéra Royal di Versailles: uno spettacolo, in lingua francese e con il regista che interpretava anche la parte di Selim, registrato sia su CD sia su DVD e visibile anche su YouTube. L’autore della messa in scena è Michel Fau, popolare attore comico francese che nei suoi spettacoli combina recitazione, maschere, travestimenti e invenzioni visive, unendo teatro classico e contemporaneo. Nel campo della regia lirica, come aveva già fatto con il Dardanus di Rameau a Bordeaux dieci anni fa, Fau mette in scena una rappresentazione che riprende i cliché dell’opera barocca, reinventando lo spettacolo come si sarebbe potuto realizzarlo nel XVIII secolo: ecco quindi l’impianto scenografico di Antoine Fontaine ricreare l’architettura moresca con colori sgargianti e utilizzando la falsa prospettiva del teatro barocco, mentre il sofisticato gioco luci di Joël Fabing ricrea l’atmosfera dei teatri settecenteschi grazie ai fari bassi – così che il quartetto del secondo atto diventa una sorta di teatro delle ombre, con le sagome dei personaggi proiettate sullo sfondo della scenografia. I costumi sgargianti di David Belugou completano il look di questo spettacolo originariamente destinato a una sala di 750 posti costruita nell’ala nord del castello di Versailles, una sala per la cui costruzione Luigi XV aveva affidato l’incarico all’architetto Jacques Ange Gabriel, che utilizzò il legno per imitare il marmo e contenere in tal modo i costi dell’impresa.

Tutt’altro ambiente ora quello del Regio: diverse le dimensioni, diversi i materiali, diverso lo stile architettonico. Quello che a Versailles era un progetto perfettamente coerente col contenitore, nella sala molliniana denuncia una certa estraneità e sa di ricostruzione museale, piacevole ma poco più. La scena è praticamente unica: un praticabile mobile, delle quinte e un soffitto che si abbassa definiscono i diversi ambienti. Non c’è traccia delle prodigiose macchine sceniche barocche ancora in funzione nella sala di Versailles. A questo si aggiunge una regia – ripresa da Tristan Gouaillier – che è eufemistico definire sobria, e senza un’idea forte. Anche un’opera apparentemente semplice come questa poteva suggerirla – per lo meno l’aveva suggerito a Christof Loy nella sua rivelatrice lettura al Liceu di Barcellona nel 2010 o a McVicar a Glyndebourne cinque anni dopo. Dopo una prima parte piuttosto piatta dal punto di vista registico – i tre atti qui sono divisi un po’ incongruamente in due – la seconda offre qualche elemento in più, fino al finale con la “beatificazione” del magnanimo Selim, che s’invola su un tappeto volante. Per il resto la recitazione risente del problema del Singspiel: lunghe parti recitate in tedesco (a Versailles erano in francese) da interpreti che non sembrano dimostrare grandi capacità attoriali e dove neanche l’unico attore, Sebastian Wendelin, riesce a delineare un Selim memorabile.

Parzialmente deludenti i cantanti. Alasdair Kent era stato molto ammirato nel suo registro di haute-contre come Achille nell’Iphigénie en Aulide di Gluck ad Aix-en-Provence e come Toante nell’Ifigenia in Tauride di Traetta a Innsbruck. Anche a Torino, nel Matrimonio segreto, era stato un Paolino di grande stile, ma qui il ruolo di Belmonte si è rivelato impegnativo per i suoi mezzi: l’aria di ingresso «Hier soll ich dich denn sehen» è stata affrontata con troppe incertezze e le successive, nonostante un delicato uso di piani e pianissimi, sono risultate poco convincenti, con una voce poco proiettata e agilità non fluide. Olga Pudova è stata Regina della Notte in più occasioni, una scoppiettante Zerbinetta, ma anche un’Olympia un po’ troppo meccanica. La sua Konstanze ha limiti di volume, ma soprattutto di espressività: le pagine più elegiache, come «Traurigkeit ward mir zum Lose» e «Ach, ich liebte», non lasciano il segno, e quelle più pirotecniche, come «Martern aller Arten», sembrano eseguite con una prudente perizia. La tessitura di Osmin comprende note estremamente basse che Wilhelm Schwinghammer riesce a realizzare a scapito della sonorità e la caratterizzazione buffa del personaggio non è tra le più riuscite. I migliori cantanti in campo si rivelano gli interpreti dei servitori: la Blonde di Leonor Bonilla è un miracolo di freschezza, allegria e tecnica vocale; lo stesso si può dire per il Pedrillo di Manuel Günther.

La componente migliore della serata si è dimostrata la direzione di Gianluca Capuano, massimo interprete di questo repertorio e debuttante in questo teatro. Fin dalle prime note dell’ouverture nel solare do maggiore – con i colpi dei Deutsche Trommel (tamburo a due pelli con corde di risonanza), dei Türkische Trommel (una specie di grancassa) e dei campanelli su un bastone sormontato da una mezza luna (il çevgen turco o Schellenbaum in tedesco), strumenti “speciali” inseriti nell’organico usuale dell’orchestra del teatro – il particolare colore orchestrale è immediatamente stabilito. Nella sua forma di sonata abbreviata, senza un vero e proprio sviluppo centrale, il pezzo afferma la straordinaria teatralità della musica: il carattere marziale del primo tema, in fortissimo, con le “chiamate militari” di corni e oboi, dipinge lo scenario orientale; il secondo tema, più lirico e galante e affidato agli archi, ha una dolcezza “occidentale” che prefigura gli affetti dei personaggi di Belmonte e Konstanze. Le percussioni “turche” ritorneranno a più riprese nel corso dell’opera non come riempitivo coloristico, ma quale motore ritmico propulsivo, elemento perfettamente individuabile nella direzione di Capuano, estremamente varia nelle dinamiche, illuminante ed espressiva. Una delizia di concertazione con un Mozart ricreato nella bellezza del suono, teatrale e fluido.

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Prima la musica poi le parole / Der Schauspieldirektor

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bozzetti delle scenografie

Antonio Salieri, Prima la musica poi le parole

Wolfgang Amadeus Mozart, Der Schauspieldirektor (L’impresario teatrale)

★★★☆☆

Venezia, Teatro Malibran, 9 ottobre 2020

(video streaming)

Primedonne al Malibran

Un’opera buffa italiana e un Singspiel tedesco che prendono in giro il mondo del teatro settecentescosono i due atti unici che nacquero su richiesta dell’Imperatore Joseph II per una rappresentazione privata nel giardino d’inverno del castello di Schönbrunn. Scopo dell’Imperatore era di mettere in competizione i due compositori, uno italiano e l’altro austriaco, per rendere più frizzante la serata la cui occasione era il passaggio a Vienna della sorella dell’imperatore, l’arciduchessa Maria Cristina moglie del principe Alberto di Sassonia governatore dei Paesi Bassi. Se allora a Vienna era spettato a Salieri, il compositore di corte, chiudere le serata, qui a Venezia l’onore tocca a Mozart, ovviamente.

Su libretto di Giovanni Battista Casti, Prima la musica poi le parole ebbe come interpreti femminili Nancy Storace, la prima Susanna de Le nozze di Figaro , e Celeste Coltellini, futura acclamata Nina pazza per amore.

La scena si apre nella casa del Maestro di Cappella, intento a discutere aspramente col poeta poiché il loro signore (il conte Opizio) ha commissionato loro la stesura di un’opera lirica in soli quattro giorni. Il furbo maestro (vedendo l’impossibilità di comporre un’opera lirica in quattro giorni) rivela al poeta che ha intenzione di riciclare la partitura di una sua vecchia opera poco conosciuta, il vate però si lamenta del fatto che fare prima la musica delle parole è come «far l’abito, e poi far l’uomo a cui s’adatti». Il Maestro allora lo deride sostenendo che è chi scrive la musica a fare tutta la fatica, sprona poi il poeta a muoversi a scrivere qualche verso per un’aria poiché a breve sarebbe giunta una cantante virtuosa dell’opera seria, Donna Eleonora. Successivamente alla scena si aggiunge Tonina, una cantante dell’opera buffa che contribuirà con le sue lamentele (insieme a quelle di Donna Eleonora) a creare scompiglio, ma alla fine tutto si risolverà per il meglio: le cantanti si metteranno d’accordo e il poeta si appacificherà col maestro.

Opera “aperta” è invece Der Schauspieldirektor di Mozart, che la sera del 7 febbraio 1786 aveva preceduto il divertimento di Salieri. Il lavoro, la cui trama innocente fu suggerita dall’Imperatore stesso, è preceduta da un’ouverture la cui scala e carattere sono affini a quelli dell’ouverture de Le nozze di Figaro,  scritta e rappresentata nello stesso anno. Nella prima parte un impresario di teatro sceglie attori e cantantanti per formare una compagnia per uno spettacolo. I dialoghi appartengono all’attualità dell’epoca e in tempi moderni il testo è usualmente riscritto. Nella seconda parte si assiste alla rivalità tra i due soprani che si sesibiscono in un’aria e un rondò cui seguono un terzetto e un vaudeville finale. Si contano quindi solamente quattro brani vocali nella partitura.

Con i guanti e distanziati i personaggi messi in scena da Italo Nunziata in questo spettacolo al Teatro Malibran di Venezia appartengono agli anni’30-’40 per il lavoro di Salieri, agli anni ’50-’60 per quello di Mozart, dove il regista si ispira a Pirandello e si diverte a prendere in giro il birignao e la recitazione sopra le righe degli attori. Qui i dialoghi sono recitati in italiano e le arie sono cantate nell’originale tedesco. Le essenziali scenografie sono distinte per stile: più realistiche quelle della prima parte, più astratte quelle della seconda, entrambe di allieve della Scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti veneziana come pure i costumi. L’ambientazione “moderna” è più riuscita per il lavoro di Mozart, essendo quello di Salieri molto legato all’ambiente teatrale coevo zeppo di citazioni di opere dell’epoca. Ne viene fuori uno spettacolo ben congegnato ma un po’ freddo, che non sembra rendere attuale lo spirito per cui erano nati i due lavori.

Alla testa dell’orchestra del Teatro La Fenice a ranghi ridotti, Francesco Maria Sardelli si dimostra come al solito abile concertatore in questo repertorio: pulizia di suono e attenzione al colore strumentale i pregi maggiori. In scena giovani interpreti: Szymon Chojnacki (il compositore), Francesco Vultaggio (il poeta), Francesca Boncompagni (Donna Eleonora, virtuosa seria), Rocío Pérez (Tonina, buffa).

Particolarmente virtuosistica l’aria «Là tu vedrai chi sono» di Donna Eleonora, che sembra anticipare quella della Regina della Notte del Flauto magico, cosa che viene maliziosamente sottolineata dal regista che fa scendere dietro alla cantante il fondale stellato dipinto da Schinkel per la produzione berlinese del 1815.

Più numerosi i personaggi dell’Impresario teatrale, sei attori e quattro cantanti. Ai tre già sentiti nella prima parte – Szymon Chojnacki (Herr Buff), Rocío Pérez (Frau Herz) e Francesca Boncompagni (Fräulein Silberklang) – si aggiunge Valentino Buzza (Herr Vogelsang). La parte del leone la fanno ovviamente le due dame con due arie virtuosistiche che mettono in luce le qualità della Boncompagni dalle sicure agilità e dagli acuti fulminanti e della Pérez, cantante di temperamento.

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Die Entführung aus dem Serail

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Entführung aus dem Serail

★★★★☆

Glyndebourne, Opera House, 19 luglio 2015

(registrazione video)

La Turchia chic di Sir David

Opera crepuscolare quant’altre mai, Il ratto dal serraglio non è la solita chiassosa turcheria buffa, ma un dramma umano di sentimenti e doveri.

L’aveva capito bene Christof Loy, che ne aveva fatto una pièce teatrale di grande tensione emotiva, ed è sulla stessa strada David McVicar, che però è insuperabile per la cura della messa in scena con un mirabile gioco attoriale (e qui il regista capisce che occorre un Selim che sconvolga i sensi di Konstanze, e non solo lei…), gustose controparti, una grande eleganza nella scenografia fatta di pannelli scorrevoli e schermi traforati e nei costumi (tutto affidato a Vicki Mortimer), luci calde e solari da pittura orientalista di Paule Constable e vivaci movimenti quasi coreografici di Andrew George.

Tanto in Loy era teatro puro e rigoroso, quanto qui la concessione verso un certo gusto del pubblico è evidente, come il duetto tra Blondchen e Osmin animato da stoviglie rotte e lanci di uova, un tono da slapstick comedy non così necessario. Meglio allora il duetto di Blondchen con Pedrillo dove le parole “Wonne” e “Lust” cantate dalla ragazza sembrano veramente dettate dall’urgenza erotica. Tocchi di raffinatezza si hanno quando ci viene presentato il bel pascià, nobile illuminato e generoso, attorniato da mogli e figli amorevoli sulle sublimi note della Serenata per fiati in Si♭ dello stesso Mozart («diese bezaubernde Musik» dice nel libretto). La stessa atmosfera ritorna nello struggente finale con quell’ultimo sguardo di Konstanze verso un oggetto che probabilmente rimpiangerà. McVicar mantiene i lunghi dialoghi quasi nella loro interezza (ma elimina alcune scene di sola recitazione) così da restituire il giusto equilibrio tra musica e parlato e porre molta attenzione sul personaggio non cantato di Selim.

La direzione di Robin Ticciati punta alla vivacità piuttosto che alla introspezione e i momenti migliori sono quelli della frastornante banda turca che ha in scena un irresistibile corrispettivo visivo. Ma non manca comunque di sottolineare le finezze strumentali di questo giovanile lavoro mozartiano messe in luce dalla valida Orchestra of the Age of Enlightenment.

Sally Matthew è una Konstanze dalla dizione un po’ impastata, un tono apprensivo e un registro acuto un po’ esile che tolgono purezza alla linea del canto e corpo alle agilità. Il personaggio è comunque ben delineato. Edgaras Montvidas è un Belmonte vocalmente maschio, non il solito damerino azzimato, anche se talora autocompiaciuto, ma questo fa parte del personaggio. Nei duetti con Konstanze le due voci però stentano a fondersi. Dell’altra coppia in gioco è meglio il Pedrillo di lusso di Brenden Gunnell piuttosto che la Blondchen un po’ acida e dalla incerta intonazione negli acuti di Mari Eriksmonen. Pienamente convincente nonostante l’età l’Osmin di Tobias Kehrer, un giovane basso (e sono stati corretti i recitativi in cui viene apostrofato come vecchio) il cui Do profondo è spettacolare. L’attore Frank Saurel fa di Selim il personaggio più intrigante – e fascinoso – della produzione. Si capiscono pienamente i dubbi di Konstanze tra il promesso Belmonte e l’attraente pascià. Aiuta poi il fatto che si tratti di un attore francese così da dare al suo tedesco un seducente accento esotico (oltre a ricordarci che si tratta di uno spagnolo convertito all’Islam). Ecco un’altra delle geniali trovate di Sir David.

Der Schauspieldirektor (L’impresario teatrale)

Wolfgang Amadeus Mozart, Der Schauspieldirektor (L’impresario teatrale)

direzione di Peter Hirsch

regia di Hans Hollmann

1983 Teatro di Baden-Baden

Dopo il libello di Benedetto Marcello su Il teatro alla moda, la satira del mondo musicale era diventata il soggetto di innumerevoli lavori: dal metastasiano L’impresario delle Canarie intonato dal Sarro (1724) fino a L’opera seria del Gassmann (1769).

Con il numero d’opus K480, la commedia con musica Der Schauspieldirektor (L’impresario teatrale) di Johann Gottlieb Stephanie junior (già librettista del Ratto dal serraglio) è contemporanea delle Nozze di Figaro: venne infatti messa in scena nel carnevale 1786. Fu commissionata a Mozart dall’imperatore Giuseppe II e presentata assieme all’atto unico di Antonio Salieri Prima la musica e poi le parole con l’intento esplicito di mettere a confronto i due compositori, il tedesco e l’italiano. Le due opere furono infatti eseguite l’una dopo l’altra la sera del 7 febbraio 1786 nella tenuta imperiale di Schönbrunn. Le due prime donne del pezzo di Mozart furono Aloysia Weber e Caterina Cavalieri, il ruolo da attore dell’impresario fu recitato dallo stesso Stephanie.

Ecco la cronaca della serata fornita dalla “Wiener Zeitung”: «Il ricevimento si è tenuto all’Orangerie che è stata addobbata in moto sontuossimo e attraente per la colazione offerta gli invitati. Il tavolo, sistemato sotto gli aranci, era decorato in modo graziosissimo con fiori, boccioli, frutti locali e anche esotici. […] Dopo il banchetto, è stata rappresentata una nuova commedia con arie, dal titolo Der Schauspieldirektor che vedeva impegnati gli attori del Teatro Nazionale su un palcoscenico montato a un’estremità dell’Orangerie. Quando questa è terminata, la Compagnia dell’Opera di Corte ha dato un’opera buffa, anch’essa composta per questa circostanza, intitolata Prima la musica poi le parole sul palcoscenico innalzato all’altra estremità. Dopo le nove l’intera compagnia è ritornata in città nello stesso ordine».

Quattro giorni dopo il doppio spettacolo veniva presentato al pubblico del Kärtnertor Theater ma qui usciva favorito il lavoro di Salieri che aveva uno sviluppo drammatico che mancava all’opera d’occasione di Stephanie/Mozart. Il compositore vi ritornò in seguito con varie revisioni e famosa è rimasta la versione di Goethe allestita a Weimar nel 1791 col titolo Teatralische Abendteuer (Avventura teatrale).

Un impresario teatrale deve formare una compagnia per uno spettacolo a Salisburgo, ma la scelta di attori e cantanti si rivela più difficile del previsto. In particolare sorge una accesa rivalità tra i due soprani Frau Herz (madama Cuore) e Fräulein Silberklang (signorina Timbro argentino), che pretendono entrambe il ruolo di primadonna, mentre il tenore Vogelsang (canto d’uccello) tenta invano di conciliarle. Sarà l’impresario Frank a riportare l’armonia sul palcoscenico.

Dopo l’ouverture quattro numeri musicali punteggiano la seconda parte della commedia, quella delle audizioni: un’arietta di Frau Hertz che dall’iniziale carattere patetico e sentimentale passa a una conclusione brillante e ricca di virtuosismi; un rondò di Fräulein Silberklang altrettanto ricco di agilità; un terzetto cui si unisce il tenore Vogelsang, un brano con notevoli difficoltà quando le due interpreti si rincorrono nel registro acuto cercando di avere l’ultima parola e infine un vaudeville conclusivo in cui viene presentata la morale: gli artisti devono mirare all’eccellenza, senza però rendersi meschini con le proprie ambizioni.

«Le due “arie di parata” delle cantanti, nel consueto stile virtuosistico dell’opera seria, sono finemente differenziate per struttura inventiva: un affettuoso larghetto la prima, velato di lieve sentimentalità; più scorrevole la seconda, nello stile delle gavotte di origine francese. Il delizioso terzetto caratterizza con vivacità veramente mozartiana i singoli personaggi pur senza scostarsi dal tono del concertato consueto». (Bernhard Paumgartner)

L’unica edizione in DVD esistente è quella, fuori catalogo, della collezione Unitel del 2006 delle opere complete del Festival di Salisburgo. Qui abbiamo la produzione televisiva svizzero-tedesca girata nel vecchio teatro di Baden-Baden in cui la commedia è condensata in poco più di venticinque minuti. Dorothea Wirtz e Dagmar Lindenberg sono le due cantanti rivali.

Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio)

  1. Mehta/Gramss 2002
  2. Bolton/Loy 2010

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★★★★☆

1. Tradizionale vivace messa in scena del Singspiel mozartiano

Nel 1683 i Turchi assediano Vienna per la seconda volta – la prima volta era stata nel 1529. Cent’anni dopo, un ventiseienne Mozart appena arrivato a Vienna come “libero professionista”, essendosi liberato del giogo dell’arcivescovo salisburghese, mette in musica una vicenda ispirata alle molte varianti del tema del Turco generoso. Il libretto è di Johann Gottlieb Stephanie e il Singspiel tedesco, formato cioè di parti cantate e dialoghi parlati, viene rappresentato nel 1782 con Caterina Cavalieri come Konstanze, ruolo scritto per lei da Mozart.

Atto primo. Il nobile spagnolo Belmonte ha scoperto, dopo molte ricerche, che l’amata Konstanze è prigioniera nell’harem del pascià Selim. Il giovane, che ne aveva perso le tracce da quando la ragazza era stata rapita insieme alla cameriera Blonde e al servitore Pedrillo, attende con impazienza il momento di rivedere la fidanzata. Mentre s’interroga sul modo in cui penetrare nel palazzo, incontra il guardiano turco Osmin, intento a cogliere fichi da una pianta. Belmonte cerca invano di interrogarlo ma, per tutta risposta, viene scacciato in malo modo. Partito Belmonte, sopraggiunge Pedrillo, cui Osmin trova il tempo di manifestare tutto l’odio che nutre per lui. La partenza del guardiano permette al servitore, ora impiegato in qualità di giardiniere presso il pascià, di incontrare Belmonte, suo antico padrone. Pedrillo lo aggiorna sull’accaduto: la notizia più preoccupante è che Konstanze è diventata «l’amante favorita» del pascià; ma per fortuna quest’ultimo è un uomo estremamente gentile, non uso a costringere le donne ad amarlo. Per mettere in atto il piano di fuga che Belmonte ha in mente (ha già predisposto una nave), Pedrillo consiglia al suo padrone di presentarsi al pascià in veste di architetto. In quel mentre giungono su una barca il pascià e Konstanze, accompagnati dal loro seguito; mentre Belmonte si nasconde, Konstanze rievoca di fronte al pascià la figura dell’amato, lamentando la sua nuova condizione. Il pascià insiste nell’esigere dalla ragazza una decisione in suo favore, ma ella gli chiede una dilazione di un giorno, per riflettere sulla terribile questione e si congeda. Allora Pedrillo presenta Belmonte al pascià, che accetta di metterne alla prova l’abilità di architetto; mentre i due amici stanno per introdursi nel palazzo, Osmin cerca invano di opporsi alla sgradita presenza di questi intrusi .
Atto secondo. Nel giardino del palazzo, la cameriera Blonde lamenta il rozzo corteggiamento dei turchi, ai quali si sente in grado di dettare alcune norme di galateo amoroso. Davanti alle proteste di Osmin, Blonde si dichiara inglese e perciò «nata per la libertà»; il turco, geloso, le consiglia di evitare Pedrillo, ma la ragazza lo affronta con minacciosa determinazione, provocando la rapida fuga dell’uomo. Sopraggiunge Konstanze, oppressa senza tregua dall’angoscia per la perdita dell’amato; mentre Blonde cerca invano di consolarla, il pascià torna alla carica con le sue pressanti profferte amorose. All’ennesimo diniego della donna, il tiranno minaccia i supplizi più atroci. La risposta di Konstanze è sprezzante: sopporterà senza batter ciglio ogni tortura; se il pascià non vorrà desistere dai suoi intenti persecutori, allora sarà la morte una gradita liberazione. Mentre il pascià medita sullo straordinario coraggio della donna, Blonde incontra Pedrillo, che la aggiorna sull’arrivo di Belmonte e le annuncia che la fuga è stata predisposta per quella notte stessa, quando Osmin verrà addormentato da Blonde con un sonnifero. La ragazza gioisce per le inaspettate buone notizie e si avvia a comunicarle all’infelice Konstanze; Pedrillo, intanto, dapprima si prepara al rischioso evento, quindi riesce con molta arte a convincere Osmin a bere il vino drogato, infrangendo il divieto islamico al riguardo. Mentre Osmin, barcollante e assonnato, esce di scena, giunge Belmonte per mettere in atto il piano di fuga: finalmente i due amanti, commossi, si possono ricongiungere; fugati i dubbi dei due uomini sulla fedeltà delle loro amate, entrambe le coppie si preparano alla fuga.
Atto terzo. Pedrillo sta ultimando, nella piazza antistante il palazzo del pascià, i preparativi per la fuga; per simulare la più completa normalità, invita Belmonte a cantare, come Pedrillo stesso è solito fare tutte le sere: nella sua canzone Belmonte invoca il potere invincibile dell’amore. Con una serenata ‘autobiografica’, accompagnandosi al mandolino, Pedrillo dà il segnale convenuto alle ragazze, che si trovano nelle loro stanze. Quando Konstanze si affaccia, i due uomini appoggiano una scala al muro e Belmonte può così introdursi nel suo appartamento attraverso la finestra; mentre la coppia, uscita dal palazzo, si dirige verso la nave, Pedrillo entra a sua volta nella camera di Blonde. In quel mentre, però, esce Osmin, che si accorge della scala: Pedrillo e Blonde vengono così catturati da una guardia; anche l’altra coppia è stata intanto catturata e Osmin, fuori di sé dalla gioia per l’imminente fine dei seccatori, ordina che siano condotti tutti davanti al pascià. Nel dichiarare la propria identità, Belmonte rivela di essere figlio del comandante di Orano, il «peggior nemico» del pascià, colui che ne ha annientato ogni gioia; di fronte a questa terribile sorpresa, Konstanze e Belmonte si preparano alla morte atroce che certo sta per toccare loro, piangendo ciascuno per l’amato, ma felici che un unico destino li accomuni. Mentre anche Pedrillo e Blonde fanno i conti con la loro sorte, il pascià sorprende tutti con una sentenza inattesa: decide di liberare i prigionieri, perché testimonino al padre di Belmonte che «è un piacere ben superiore ricambiare con opere di bene un’ingiustizia subita, piuttosto che rendere male per male». Nonostante le proteste di Osmin, anche Blonde e Pedrillo vengono rilasciati, nel tripudio generale – Osmin a parte.

Secondo il giudizio entusiastico di Henri Ghéon «questa squisita partitura, così come è, con una serie di arie leggere pittoresche, belle (…) ha il valore di una testimonianza, di un’esplosione musicale di giovinezza, da parte di un artista perfetto. (…) In questo senso è unica al mondo». Più critico invece il Dent, autore di un saggio sulle opere di Mozart, secondo il quale «il risultato fu un’opera che appare come una successione di brani dall’originalità magistrale, ma priva, nel suo insieme, di unità di stile. (…) Non potremmo, forse, ritenere Mozart un grande compositore solo per aver scritto Die Entführung».

Comunque sia, l’opera ha avuto fin dall’inizio un grande successo e ancor oggi è tra le più eseguite di quelle del compositore austriaco – 127 rappresentazioni nel mondo nell’ultima stagione secondo operabase.com.

La produzione del bellissimo teatro fiorentino della Pergola si avvale della pimpante conduzione musicale di Zubin Mehta e della regia di Elke Gramss.

Protagonista assoluto della serata è l’Osmino di gran lusso di Kurt Rydl, comico ma umano, e soprattutto sempre “cantato”. Nel duettino «Vivat Bacchus! Bacchus lebe!» in quanto a stile e presenza vocale il sessantatreenne basso austriaco schiaccia il giovane ma debole Pedrillo di Mehrzad Montazeri. Neanche il Belmonte di Rainer Trost entusiasma a causa di una certa monotonia di espressione, mentre Markus John è un Selim nobile e incerto tra l’amore non corrisposto e la vendetta.

Meglio le parti femminili, anche se la voce della Mei è un po’ acidula, ma a suo agio nelle agilità richieste dalla parte, mentre la Ciofi dovrebbe controllare di più l’emissione degli acuti che risultano gridati.

Regia, scenografie e costumi molto tradizionali, ma funzionali e vivaci che non esagerano gli aspetti comici della vicenda.

Lunghi i dialoghi parlati, in cui i cantanti di lingua non tedesca fanno comunque del loro meglio.

Regia video che appena può inquadra il maestro Mehta abbandonando i cantanti in scena e ripresa del suono talora precaria.

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★★★★★

2. Un serraglio da cui nessuno sembra abbia voglia di fuggire

La sindrome di Stoccolma è quel particolare attaccamento che un prigioniero ha nei confronti del suo carceriere: è quello che sembrano provare le due donne in questo Ratto dal serraglio nella messa in scena di Christof Loy al Liceu di Barcellona nel 2010. Konstanze e Blonde pare che siano affascinate più dai rispettivi carcerieri che dai legittimi fidanzati, gelosi e noiosi. Un po’ come succederà nel Così fan tutte, dove saranno gli incogniti ufficiali albanesi con i loro mustacchi a risvegliare i sopiti sensi erotici di Fiordiligi e Dorabella.

Nella lettura di Loy il Singspiel riacquista il suo carattere di Spiel: non è solo una serie di belle arie musicali interrotte da fastidiosi dialoghi (ampiamente tagliati soprattutto nei paesi non di lingua tedesca), ma una vera pièce teatrale, un dramma psicologico con la sua attenta recitazione, gli sguardi intensi, i ritmi e i silenzi espressivi che inevitabilmente allungano l’esecuzione di una buona mezz’ora rispetto al consueto. I recitativi sono in buona parte mantenuti e sono magistralmente interpretati ed è in questi numeri parlati che si sviluppa la vera azione drammatica, essendo il testo di quelli musicali piuttosto vacuo. L’attenzione data ai recitativi da regista e direttore è pari a quella delle arie, come non sempre avviene. Primario diventa qui il ruolo parlato dell’interprete che impersona Selim, affidato a un rinomato attore cinematografico tedesco, Cristoph Quest, che utilizza voce, espressioni del viso e linguaggio del corpo per comunicare una vasta gamma di sentimenti e costruire così un personaggio di notevole spessore, non la solita maschera. Lo sbandamento di Konstanze per lui al confronto dell’esangue Belmonte diventa così non inverosimile. Lo stesso avviene per Osmin, qui un burocrate che prende molto sul serio il suo ruolo, un po’ trucido ma sanguigno e con una sua sensibilità, tanto che non si fa fatica a comprendere l’incertezza di Blonde al confronto col banale Pedrillo. Questa è la prima volta, credo, che si provi una sincera pietà per un personaggio come Osmino!

A chi si scandalizzasse per l’idea del regista, consiglio di leggere attentamente il libretto, che in molti punti lascia più di un motivo di sospetto sulle relazioni tra i personaggi e che qui è solo messo allo scoperto. L’ambiguità della vicenda è quella che dà significato a questo dramma giocoso che altrimenti si riduce a una stolida buffoneria sulla moda delle turcherie in voga nella Vienna del tempo. Qui tutto è soffuso di una malinconia indicibile e la musica acquista un tono drammatico mai ascoltato finora, come quella che introduce la scena settima del terzo atto.

Il gioco registico non avrebbe raggiunto il risultato sperato se in scena non ci fossero degli interpreti dalle doti attoriali impeccabili. E questo succede qui dove abbiamo due interpreti femminili che gareggiano per bellezza, eccellenza vocale e presenza scenica. Diana Damrau è una Konstanze che dipana con perfezione le agilità richieste e interpreta in maniera impareggiabile i numeri musicali che le sono affidati. Delle sue qualità attoriali non si aveva dubbio e qui sono esplicitate al massimo. La Blonde della Peretjat’ko non è la solita soubrettina cui ci hanno abituato molte passate edizioni, ma una forte personalità con una voce d’acciaio. Efficace il Pedrillo di Norbert Ernst, mentre Franz-Joseph Selig, Osmin, esibisce anche lui notevoli doti attoriali assieme a una bella vocalità che passa dalle corpose note basse a quelle acute attraverso un registro medio di grande piacevolezza. Christof Strehl, sia come cantante che come attore, è invece un Belmonte con cui nessuno vorrebbe fuggire. In questo caso è se non altro congruo alla lettura del regista: basta vedere le smorfie di noia e di scoramento nella faccia di Konstanze quando lui le porge l’interminabile «Wenn der Freude Tränen fließen» per capire la voglia che la ragazza ha di lasciare un fascinoso pascià per uno spasimante appiccicoso. Ma non c’è pericolo che la morale sia offuscata: il senso del dovere prevarrà, seppure a malincuore. E mai le parole di Selim a Konstanze sono state più sofferte: «Mi auguro che non abbiate mai a pentirvi di avere respinto il mio amore».

In tutto questo la direzione impareggiabile di Ivor Bolton tocca tutte le corde dell’arco espressivo, dal dramma che precede l’addio al pizzicato che accompagna Pedrillo alla chiassosa marcia dell’arrivo di Selim nel primo atto e che viene ripresa alla fine per chiudere l’opera.

Forse non sarà la migliore versione dell’opera di Mozart, ma certo pone un’ipoteca su tutte le altre, che dovranno per forza confrontarsi con questa.