Louis de Cahusac

Samson

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Jean-Philippe Rameau, Samson

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, 12 luglio 2024

★★★★☆

(diretta streaming)

Sansone scansionato e la musica riciclata di Rameau

È al Théâtre de l’Archevêché che, dopo più di due secoli, sono state (ri)eseguite alcune delle opere più importanti di Jean-Philippe Rameau: Platée nel 1956; Les Boréades, mai eseguite prima sul palcoscenico, nel 1982; l’anno successivo Hippolyte et Aricie. Per la loro sesta collaborazione con il Festival, l’ensemble Pygmalion e Raphaël Pichon propongono questo progetto Samson. Liberamente ispirata a un’opera perduta di Rameau, su libretto di Voltaire, questa produzione è uno dei principali eventi del 76° Festival d’Aix-en-Provence, che coglie l’occasione per rinnovare la conoscenza di uno dei suoi compositori più emblematici.

Voltaire era molto critico nei confronti delle tragédies lyriques, colpevoli, a suo avviso, di un uso eccessivo della danza e di arie di bravura. Famoso all’epoca come drammaturgo e commediografo, il filosofo cercava di far rivivere l’ideale di edificazione morale propugnato dai capolavori di Corneille e Racine, sognando di portare sul palcoscenico lirico un’opera capace di difendere una visione ideologica radicale e un pensiero critico. Anche a costo di suscitare polemiche, come avevano fatto nello stesso periodo le sue Lettres philosophiques. La collaborazione di Voltaire con Rameau iniziò, tuttavia, con un malinteso. Dopo la prima di Hippolyte et Aricie aveva dichiarato: «La musica è di un certo Rameau, un uomo che ha la sfortuna di saperne più di Lully. È un pedante della musica. È esatto e noioso». Pochi mesi dopo però faceva una completa inversione di rotta, rivolgendosi al compositore in termini ditirambici per proporgli un libretto su un soggetto biblico di sua scelta. Nacque così il Samson. 

Il progetto subì un rallentamento, in parte per la riluttanza di Rameau a eliminare il Prologo e un certo numero di divertissements, ma soprattutto a causa della censura, che intervenne a più riprese, in particolare per sostituire Sansone con il personaggio mitologico di Ercole, la cui espressione di forza fisica era meno soggetta a controversie teologiche. Tutto fu invano, perché l’accusa di aver mescolato il sacro con il profano portò alla definitiva messa al bando dell’opera con il pretesto che il testo biblico era presentato sotto forma di favola. L’opera fu ascoltata da un ristretto numero di persone, tra cui Voltaire, ma la partitura non fu mai pubblicata poiché Rameau preferì riutilizzare la musica che aveva originariamente composto in altre opere. Voltaire pubblicò il suo Samson alla fine della sua vita, per l’edizione delle sue opere complete, ma in una versione presumibilmente edulcorata.

Prologo. La Volupté (Piacere sensuale) celebra il suo lungo regno sul popolo di Parigi. Ercole e Bacco ammettono che l’amore ha fatto loro dimenticare le famose vittorie militari e offrono la loro obbedienza al Piacere. Improvvisamente, la Virtù arriva in una luce accecante. Rassicura Piacere che non è venuto a scacciarla, ma a servirsi del suo aiuto per convincere i mortali a seguire le lezioni della verità. Dice che ora presenterà al pubblico un Ercole vero, non mitico (cioè Sansone) e mostrerà come l’amore abbia causato la sua caduta.
Atto primo. Sulle rive del fiume Adone, i prigionieri israeliti deplorano il loro destino sotto la dominazione filistea. I Filistei intendono costringere gli israeliti ad adorare i loro idoli. Arriva Sansone, vestito con una pelle di leone, e distrugge gli altari pagani. Esorta gli israeliti indifesi a riporre la loro fede in Dio, che gli ha dato la forza di sconfiggere i Filistei.
Atto secondo. Nel suo palazzo reale il re dei Filistei apprende della liberazione dei prigionieri da parte di Sansone e della sconfitta dell’esercito filisteo. Entra Sansone, con una clava in una mano e un ramo d’ulivo nell’altra. Offre la pace se il re libererà gli israeliti. Quando il re rifiuta, Sansone dimostra che Dio è dalla sua parte facendo sgorgare spontaneamente l’acqua dalle pareti di marmo del palazzo. Il re rifiuta ancora di sottomettersi, così Dio manda un fuoco dal cielo che distrugge i raccolti dei Filistei. Infine, il re accetta di liberare gli israeliti e i prigionieri si rallegrano.
Atto terzo. I Filistei, compresi il re, il sommo sacerdote e Dalila, pregano i loro dèi Marte e Venere di salvarli da Sansone. Un oracolo dichiara che solo la forza dell’amore può sconfiggere Sansone. Fresco delle sue vittorie, Sansone arriva e viene cullato dal mormorio di un ruscello e dalla musica delle sacerdotesse di Venere, che celebrano la festa di Adone. Dalila prega la dea di aiutarla a sedurre Sansone. Sansone cade nel suo fascino nonostante gli avvertimenti di un coro di israeliti. A malincuore parte di nuovo per la battaglia, dopo aver giurato il suo amore a Dalila.
Atto quarto. Il Sommo Sacerdote esorta Dalila a scoprire il segreto della straordinaria forza di Sansone. Entra Sansone, pronto a fare pace con i Filistei in cambio della mano di Dalila e supera la sua iniziale riluttanza a che il matrimonio abbia luogo nel Tempio di Venere. Dalila dice che lo sposerà solo se le rivelerà la fonte della sua forza e Sansone le dice che sta nei suoi lunghi capelli. Si sente un tuono e il Tempio di Venere scompare nell’oscurità; Sansone capisce di aver tradito Dio. I Filistei accorrono e lo fanno prigioniero, lasciando Dalila disperata e pentita del suo tradimento.
Atto quinto. Sansone si trova nel tempio filisteo, accecato e in catene. Si lamenta della sua sorte con un coro di israeliti prigionieri, che gli portano la notizia che Dalila si è uccisa. Il re tormenta ulteriormente Sansone facendolo assistere ai festeggiamenti per la vittoria filistea. Sansone chiede a Dio di punire la bestemmia del re. Sansone promette di rivelare i segreti degli israeliti a patto che questi ultimi vengano allontanati dal tempio. Il re acconsente e, una volta che gli israeliti se ne sono andati, Sansone afferra le colonne del tempio facendo crollare l’intero edificio su di sé e sui Filistei.

Quasi tre secoli dopo, Raphaël Pichon si occupa del “caso Sansone” da autentico detective, guidato da un’intuizione nata dalla scoperta, in una lettera di Voltaire, di un’allusione all’opera censurata, in cui quest’ultimo esaltava al suo corrispondente i meriti del celebre coro «Que tout gémisse», che apre il II atto di Castor et Pollux: «Che peccato, se penso che è con questo lamento degli israeliti che si apriva il nostro Samson!». L’indagine è andata avanti e ha rivelato che Rameau ha riutilizzato pagine in diverse opere successive, come Les Indes galantes, Les Fêtes d’Hébé e Zoroastre. Il Samson presentato ad Aix-en-Provence non è una ricostruzione del Samson perduto, ma “una libera creazione”, un pasticcio, un assemblaggio di brani di Rameau con un testo in gran parte nuovo ispirato alla storia biblica di Sansone e una drammaturgia ideata dal regista Claus Guth e da Yvonne Gebauer.

Abbandonando un’impossibile ricostruzione filologica, Pichon e Guth si spingono più indietro nella storia biblica rispetto al libretto di Voltaire o ad altri adattamenti come l’oratorio di Handel o il Samson et Dalila di Saint-Saëns. Le parole originali sono modificate per raccontare una nuova storia, che poco ha a che fare con la trama su riportata. Un paesaggio sonoro elettronico cupamente rimbombante e lamentoso, progettato da Mathis Nitschke, punteggia in modo inquietante alcune scene, un dialogo tra la musica di Rameau e suoni più contemporanei. Quello che vediamo svolgersi sul palcoscenico è la ricostruzione retrospettiva dell’azione basata sui ricordi dell’anziana madre di Sansone tornata sul “luogo del delitto”: una stanza rovinata da un cataclisma, che potrebbe essere una stanza del Palazzo Arcivescovile passata ai raggi X e perquisita da uomini in giacca e cravatta che appartengono al nostro tempo. È qui che Sansone si è tolto la vita abbattendo queste mura e portando con sé tutti i Filistei che lo avevano imprigionato. La madre si chiede allora come abbia fatto il figlio a trovarsi lì, in un bel gioco di analogie tra lo spazio demolito, il corpo ormai annientato del figlio e la sua memoria in frantumi. Il resto dello spettacolo diventa l’indagine sulla morte del figlio della madre di Sansone, l’attrice Andréa Ferréol che recita brani da Il testamento di Maria (2012), il romanzo dello scrittore irlandese Colm Tóibín narrato dalla prospettiva della madre di Gesù. A fare da collegamento tra i diversi numeri musicali sono le citazioni bibliche dal “Libro dei Giudici” (capitoli 13-16) dell’Antico Testamento proiettate su una parete del ricco ambiente in rovina (scenografia di Etienne Pluss) illuminato dal bel gioco luci di Bertrand Couderc in cui il raggio di luce rossa rappresenta la forza sovrumana di Sansone, ma anche la sua violenza, mentre a tratti l’azione si arresta e un raggio verde percorre la scena come per farne una scansione. I sobri costumi disegnati da Ursula Kudrna puntano sul bianco per gli Ebrei e il nero per i Filistei. Gli innumerevoli balletti sono qui realizzati con movimenti semicoreografati dei coristi e di mimi durante i numeri strumentali.

«Ciò che risalta maggiormente nel lavoro congiunto di Pichon e Guth è la complessità del ritratto di Sansone, a sua volta eroe e antieroe, santo e demone, torturatore e martire. La storia di Sansone non è altro che una ripetizione infinita di violenza e vendetta, giustificata dall’elezione divina del nazir. Questo Sansone è un’illustrazione profondamente toccante delle peggiori giustificazioni che gli uomini danno alla violenza che perpetrano, che riecheggia la denuncia di Voltaire del fanatismo religioso, ma che si tinge di una malinconia che è molto del nostro tempo. Come non pensare agli eventi che stanno attualmente lacerando i territori palestinesi e israeliani quando rivisitiamo questa storia biblica, che ritrae scontri inestricabili nella terra di Gaza?», scrive Clément Mariage su Forum Opéra.

A fare da collante a tutto ciò è la concertazione di Raphaël Pichon, alla testa dell’ensemble Pygmalion, che esalta l’arditezza strumentale di Rameau e la forza della sua musica che passa indenne da un testo all’altro. Il magnifico coro Pygmalion è di volta in volta Filisteo o israelita o commenta l’azione portata avanti da interpreti quali il baritono americano Jarrett Ott, un Sansone scenicamente intenso e vocalmente solido che supera la barriera della lingua con un fraseggio incisivo o il basso argentino Nahuel di Pierro, il perfido Achisch. Ma le eccellenze qui sono femminili: la Dalila di Jacquelyne Stucker, sontuosa e sensuale; Timna, la moglie di Sansone non nominata dalla Bibbia, l’incantevole Lea Desandre. Personaggio totalmente inventato è quello di Elon, un amico di Sansone colpito dalla violenza delle sue azioni che passa dalla parte dei Filistei, affidato alla smagliante vocalità di Laurence Kilsby. 

Les Boréades

Jean-Philippe Rameau, Les Boréades

★★★★☆

Digione, Grand Théâtre, 22 marzo 2019

(video streaming)

L’amore che sfida gli dèi

Un ottantenne Rameau nel 1763 portava a termine la sua carriera di compositore con questo strano lavoro che concludeva anche il periodo dell’estetica barocca nell’opera: l’ultimo intervento di Abaris, l'”air gracieux” con le sue fioriture vocali e la metafora dell’amore come un ruscello che scorre in mezzo ai fiori, sembrava condensare le migliaia di analoghe metafore delle arie barocche.

La storia è quella di Alphise regina di Battria, che per decreto divino deve unirsi in matrimonio con un discendente di Borée, dio del vento del nord, che ha due figli, Calisis e Borilée. Il cuore di Alphise però batte per Abaris, figlio incognito di Apollo stesso, e per amore la regina rinuncia al trono destando l’ira di Borée che scatena gli elementi atmosferici e rapisce Alphise. Abaris però sconfigge il dio con una freccia magica ricevuta da Amore ed è allora che Apollo rivela di essergli padre. Essendo la madre una discendente di Borée, Abaris può sposare Alphise.

L’esilità della vicenda e la mancanza di una vera e propria azione portano Rameau a concentrare l’attenzione sulla caratterizzazione dei personaggi, insolita per l’epoca e prefigurante già Berlioz e Debussy secondo Emmanuelle Haïm che dirige l’opera. Con il suo Concert d’Astrée, orchestra e coro, e la scelta di un diapason a 400 Hz, la fulva direttrice restituisce all’opera i suoi colori e la sua tensione emotiva. Per non parlare del brio delle danze.

In scena ci sono ottimi interpreti tutti specialisti in questo repertorio. Hélène Guilmette è la contesa Alphise, vocalmente sicura e sensibile. A Mathias Vidal tocca la parte più drammatica, che il tenore francese, nel ruolo di haute-contre, disimpegna con grande emozione e proprietà stilistica. Emmanuelle de Negri qui copre ben quattro parti diverse con brio e presenza scenica. Edwin Crossley-Mercer presta con efficacia il suo registro basso ai personaggi di Adamas e di Apollo. Qualche difficoltà vocale non impedisce a Christopher Purves di delineare il malvagio Borée. Non proprio indimenticabili gli interpreti dei due figli Borilée e Calisis.

Dopo i tableaux vivants di Jean-Louis Martinoty a Aix-en-Provence della riscoperta nel 1982 dopo più di due secoli, nel 1999 a Salisburgo ne Les Boréades si erano cimentati i coniugi Herrmann e a Lione Laurent Pelly nel 2004. L’anno prima Robert Carsen aveva portato la sua produzione sul palcoscenico di Palais Garnier, un’edizione memorabile e fortunatamente registrata su disco.

La tenue storia è punteggiata da innumerevoli balletti. Se a Parigi questi erano stati affidati ai La La La Human Steps, qui a Digione in quella che è stata definita dalla critica la miglior co-produzione europea dell’anno, abbiamo gli altrettanto ironici passi di Otto Pichler, abituale collaboratore coreografico del direttore del Komische Theater.

Kosky sceglie una lettura estremamente minimalista assieme alla scenografa Katrin Lea Tag che si occupa anche dei costumi, abiti moderni di tutti i giorni: uno schermo bianco si rivela essere una enorme scatola quando Amour ne alza il coperchio con un dito e rimane una piattaforma, campo d’azione principale dove i personaggi sono risvegliati e mossi dal soffio degli dèi (Apollo, Amore e Borée) che fanno degli umani i loro burattini e sembra che diano loro vita solo per osservarne le reazioni. Anche la rappresentazione era iniziata con il soffio vivificatore di Borée verso la buca dell’orchestra e far partire così la musica. Pochi altri elementi si aggiungono a questa messa in scena estremamente depurata: fiori giganti che pendono a testa in giù per la festa di Aphise, mucchi di terra bruciata dopo le devastazioni degli elementi, una pioggia di stelle dorate per l’apparizione del deus ex machina – qui un lugubre personaggio con testa di corvo e sostenuto lui stesso da corvi neri, proprio il contrario della luminosità che penseremmo abbinata ad Apollo. Spiazzante è anche il finale, quando i due amanti, dopo le peripezie che li hanno finalmente riuniti, vengono privati della freccia da Amore e si separano per poi perdersi nel buio. Il coperchio si abbassa per l’ultima volta e ci troviamo davanti al cubo bianco iniziale. Tutto è ritornato com’era prima, come se non fosse successo nulla.

Tende al minimalismo anche il numero degli interpreti: uno solo per Adamas e Apollon (il sacerdote qui è l’incarnazione del dio) e uno solo per Sémire, Amour, Ninfa e Polymnie, che quindi è quasi sempre in scena.

Digione, patria di Rameau, è la città che ha rivelato Kosky ai francesi, fin dal Castor et Pollux del 2014. Anche allora il regista aveva puntato all’essenziale: una scena unica e spoglia per concentrare l’attenzione sui corpi, dove dai solisti ai coristi tutti si muovono e danzano con convinzione, qui prendendo a prestito i codici della commedia musicale tanto cara al regista.

Les Boréades

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★★★★★

Il trionfo dell’amore

Ultima opera di Rameau, che morirà un anno dopo nel 1764, non ne vedrà mai la rappre­sentazione. L’autore del libretto non è certo, ma si fa il nome di Louis de Cahusac, librettista di molte opere di Rameau, scomparso cinque anni prima.

Atto I. Senza prologo, l’ouverture in stile italiano in tre movimenti introduce direttamente all’azione principale. Una fanfara di corni e ottoni ci dice che la corte è a caccia. Mentre l’ultimo accordo si estingue, Alphise, regina di Bactria, la sua stanchezza alla sua confidente Semire. Le festività sono organizzate per il suo intrattenimento e viene esortata a scegliere un marito ma ha deciso di non sposare nessuno dei due pretendenti, i principi Boreadi Calisis e Borilée, e confessa il suo amore per Abaris, uno straniero. Semire la supplica di riconsiderare la sua scelta, mettendola in guardia dalla certa rabbia di Borée. Borilée, piena di adulazione ossequiosa, poi Calisis incalzano Alphise. La regina procrastina, si sottometterà alla decisione di Apollo il cui arrivo è impazientemente atteso. Calisis introduce diverse danze alternate a piccole arie. Nell’aria di Sémire si confronta il piacere di una giornata tranquilla sull’oceano con le delizie dell’amore e del matrimonio, e i pericoli di una tempesta improvvisa con i tormenti della passione. Una contraddanza circolare conclude l’atto.
Atto II. Abaris è solo nel tempio di Apollo, ma dio non sembra aver ascoltato la sua richiesta di aiuto. Il sommo sacerdote Adamas ripensa al tempo in cui Abaris gli fu affidato da bambino da Apollo nella promessa che il segreto della sua nascita non gli sarebbe stato rivelato fino a quando non si fosse dimostrato degno del sangue degli dèi. Abaris confessa il suo amore per Alphise e Adamas ripone tutta la sua speranza nel suo valore. Adamas ordinò ai suoi sacerdoti di obbedire ad Abaris come sé stesso fino alla nomina del nuovo re. La regina arriva in grande angoscia, chiede al sacerdote di intercedere con il dio per suo conto. Abaris, lasciato solo con lei, la ascolta raccontare in modo molto agitato un sogno in cui Borée minaccia di distruggere il suo palazzo e il suo regno. Abaris le proclama la sua simpatia chiamando Apollo per proteggerla e, dimenticando il suo status di prete, le dichiara il suo amore. Anche Alphise ammette i suoi sentimenti per lui. Sentendo avvicinarsi i suoi seguaci, cerca di moderare le sue esclamazioni di gioia che trasforma in un inno di gloria ad Apollo in cui i sacerdoti e i cortigiani si uniscono a lui. Una ninfa canta un inno alla libertà dell’amore lontano dalle passioni. Un balletto figurato viene ballato imitando la leggenda di Borée e Orithye. Un ingresso processionale di Orithye e dei suoi seguaci che trasportano le sacre navi conduce a un rigaudon, la danza di Orithye in onore di Atena. Questa danza viene improvvisamente interrotta dall’arrivo di Borée. Calisis insiste che la regina ascolti le ingiunzioni dell’amore quando è il momento giusto e Borilée prevede che anche il cuore più orgoglioso deve un giorno arrendersi all’amore. Seguono una gavotte per i seguaci di Borée e  una per Orithye. Durante queste celebrazioni, una luce riempie il tempio e armoniosi accordi annunciano l’arrivo non di Apollo, ma di Amore. Scendendo dal suo carro, dà ad Alphise una freccia con queste parole ambigue: «spera tutto con questa freccia incantata, Amore stesso te lo dà. Approvo la tua inclinazione, sono stato io a dettarlo; ma il sangue di Borée otterrà la corona». L’atto si conclude con un coro della gloria dell’Amore.
Atto III. Alphise, sola. I suoi pensieri vanno dall’orrore del suo sogno e dalle conseguenze del dispiacere di Borée al suo amore e alle speranze di futura felicità. Abaris si avvicina, si preoccupa di essere sacrificato al trono e di perdere Alphise a beneficio dei suoi rivali. La assicura ancora una volta del suo amore, il coro rivolge una canzone a Hymen e fa il suo ingresso una solenne processione, un ultimo tentativo di influenzare la scelta della regina. Adamas la esorta a scegliere suo marito, Alphise dichiara all’assemblea che, per sfuggire al dispiacere di Dio e per sposare l’uomo che ama, deve smettere di essere la loro regina. Chiede ai suoi sudditi di sollevarla dai suoi obblighi reali e di scegliere un re al suo posto. Molto scossa dalla loro delusione, si gira verso Abaris e gli offre la freccia magica. Calisis e Borilée, umiliati in pubblico, reclamano il trono: indignati nel vederli così presuntuosi, Abaris balza in difesa della regina, Alphise lo calma; ora regna su un cuore nobile e sincero e troverà la sua gloria accontentandola e la felicità amandola sempre. Tutti sostengono la regina e il marito che ha scelto. Calisis e Borilée fanno appello a Borée per vendicarli e una terribile tempesta scoppia con lampi, tuoni e terremoti. gli elementi si scatenano, Alphise viene trascinata da un turbine. Abaris e il coro cantano un lamento che pone fine all’atto.
Atto IV. La tempesta continua a imperversare nell’interludio. Gli abitanti terrorizzati cercano di calmare Borée. Appare Borilée e, in mezzo alla folla che piange, giura che si vendicherà di Alphise e tutti si rivolgono di nuovo al dio implacabile. Improvvisamente la tempesta si interrompe e Abaris ritorna triste e deluso. Adamas arriva a implorare il suo aiuto. Per salvare il paese e la stessa regina, Abaris deve rinunciare al suo amore. Abaris cerca di colpire sé stesso con la freccia, Adamas lo ferma ricordandogli che questa freccia ha poteri segreti che possono portarlo alla vittoria sui suoi avversari. Ancora una volta, Abaris fa appello ad Apollo. La musa Polymnia risponde alla sua chiamata. Un coro e due arie incoraggiano Abaris a volare su terra e mare fino alla dimora di Tuono.
Atto V. Nel suo dominio Borée comanda ai Venti di rinnovare la loro devastazione sulla terra. Rispondono debolmente alla sua richiesta e, di fronte alle minacce di Borée, indicano che è la voce di un mortale che li costringe a riposare. Entra Alphise, inseguita da Calisis e Borilée. Borée, furioso per la sua incapacità di sollevare i venti, avvisa Alphise per l’ultima volta che deve prendere uno dei principi per il marito o vivere una vita da schiava. Borée sollecita i suoi servi a inventare nuove torture per farla vivere in preda al tormento. Mentre viene portata via in catene, appare Abaris. Alphise lo esorta a fuggire e i Boreadi lo minacciano di morte. Abaris lancia la freccia che li costringe al silenzio. Mentre soccombono al fascino della freccia magica, arriva il dio del Giorno e dichiara che Abaris è suo figlio, che aveva avuto da una giovane Ninfa discendente di Borée. Borée deve riconoscere la sua sconfitta e unire gli innamorati. Abaris, sopraffatto dalla gioia e dalla gratitudine, tocca di nuovo la sua freccia per spezzare l’incantesimo. È la fine della giornata, Apollo deve partire, stabilisce una luce eterna sulle oscure dimore di Borea. Amore, piacere e gioia sono stabiliti su richiesta di Apollo; la compagnia inizia a ballare e gli innamorati festeggiano il loro trionfo.

Abaris ou Les Boréades non vide mai la scena fino alla riesumazione nel 1982 al Festival di Aix-en-Provence. Questa edizione del 2003 è affidata alle esperti mani di William Chri­stie a capo dei musicisti de Les Arts Florissants all’Opéra Garnier di Pari­gi.

La storia della regina Alphise (la bravissima Barbara Bon­ney) corteggiata dai figli di Borée, ma innamorata del giovane Abaris (un superlativo Paul Agnew) dà l’occasione al regista Ro­bert Carsen di creare una delle sue visualizzazioni più ispirate. Ecco come ne parla Elvio Giudici: «La scena concepita dall’abituale e insostituibile collaboratore di Carsen, Michael Levine, è vuota, priva di qualunque dei consueti paludamenti o ricciolerie rococò che si ritenevano obbligatori per questo periodo. I mondi contrapposti di Apollon e Borée sono esemplificati l’uno dalla luce dorata che accende distese di fiori variopinti (all’inizio Alphise se ne sta al centro e i due figli di Borée arrivano dai lati a falciarli tutti) e l’altro dal buio in cui volteggiano foglie morte coperte poi da una neve simile a grandine. Ma vengono altresì riflessi in una sorta di doppia lotta continua. Impermeabili neri tutti uguali (che pertanto rendono chi li indossa indistinguibile l’uno dall’altro) per i malvagi dalle chiome serrate in rigidi chignon, che brandiscono grandi ombrelli lucidi di pioggia; di contro ai seguaci della regina Alphise, invece, tutti bianchi di biancheria intima, fatta sempre più emergere e trionfare nell’affermazione della morbida sensualità contro con la rigida costrizione. In perfetta simbiosi, da una parte la gestualità tutta a scatti marionettisti dei Neri che cercano di coprire i colori dei fiori sotto l’uniforme grigiore di foglie morte: e quella invece fluida e naturale dei Bianchi che non rinunciano a far l’amore solo perché non c’è più un morbido letto floreale».

Tutti molto bravi gli altri interpreti (Lau­rent Naouri, Toby Spen­ce, Stéphane Degout, Nicolas Rivenq, Anna Maria Panza­rella e Jaël Azzaretti) aiutati da una regia che sa trarre da un libretto im­possibile momenti di splendida teatralità.

I balletti così importanti nell’opera francese di questo pe­riodo trovano nei passi nervosi e geometrici dei La La La Hu­man Steps uno stimo­lante contrappunto alla meravigliosa musi­ca di Rameau, come dice anche Christie nel video di un’ora con­tenuto nel secondo disco. Il cofanetto contiene – cosa rara! – il libretto dell’o­pera e i due dischi quasi un’ora di contenuti speciali.

Zoroastre

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★★★☆☆

No, non è il Flauto Magico

Vicenda di ambiente massonico su libretto di  Louis de Cahusac in cui le forze delle luce combatto­no contro quelle delle tenebre, ma alla fine queste ulti­me soccombono e Zoroa­stre/Sarastro riprende il suo legittimo potere. No, non si tratta del Flauto magico, anche perché l’opera di Rameau viene rappresentata, nella sua ver­sione definitiva, nel 1756, l’anno della nascita di Mozart! Si può dire che in musica Rameau, con le sue frequentazioni di Voltaire e Diderot, stia al fiorire dello spirito illuminista come Mozart, con la sua morte a pochi anni dalla Rivolu­zione Francese, al suo epilogo. È lo Zeitgeist, baby.

Per la registrazione nel luglio 2006 di questo DVD abbando­niamo i vel­luti e gli ori del Palais Garnier per trasferirci nell’inti­mità legnosa e un po’ freddina del teatrino di Drottningholm a Stoccolma. Alla testa dei Talens Lyriques Christophe Rousset fa rim­piangere la verve e lo smalto delle direzioni di William Christie, che ha registrato l’opera su CD per Erato. Gli strumenti hanno un suono soffocato e un’into­nazione precaria. Zoroastre è comunque una tragédie lyrique e non lascia troppo spa­zio al divertimento: la musica qui è solenne, il canto declamato, i cori mae­stosi. La prima aria vera e propria, l’air gra­cieux «Non, non une flamme vola­ge», la sentiamo cantare solo dopo una ventina di minuti dall’inizio dell’opera.

Non eccelsi i cantanti, soprattutto nel reparto maschile. As­senza di mu­sicalità, dizione e intonazione inaccettabili nella voce dell’Abramane di Ev­gueniy Alexiev: è una pena per le orecchie tutte le volte che entra in scena e, ahimè, in scena ci sta molto. Bella presenza, ma voce acerba quella dello sve­dese Anders J. Dahlin, nel ruolo del titolo. Brava invece Anna Maria Panza­rella che nella parte di Erinice, la Regina della Notte della si­tuazione, mostra senso del teatro e musicalità soprattutto nell’intensa sce­na che apre il quin­to atto. Sine Bundgaard, come Amélite, dipa­na le sue volate virtuosistiche con precisione, ma senza troppa convinzione.

La scelta registica di Pierre Audi è molto semplicista: bian­chi i buoni, neri i cattivi, distinzione manichea che non lascia spazio a un parti­colare approfondi­mento psicologico dei personaggi. Affascinato dalle macchine sceniche del meravi­gliosamente conservato teatrino settecentesco, Audi adatta la sua messa in scena alle loro possibilità, ma niente più. Senza fondali, il palcoscenico è nudo, c’è solo il gioco delle luci, una botola nel pavimento e nuvole di car­tapesta. Grandgui­gnolesca e da Thriller (quello di Michael Jackson) la visualizzazione della “messe noire” del quarto atto.

Ricchi i serici costumi d’epoca, mentre i movimenti coreo­grafici firmati da Amir Hosseinpur sono un ibrido tra pop e clas­sico rivisitato.

Il regista video non ci risparmia riprese dal fondo della sce­na, da die­tro le quinte, dall’alto dei praticabili, dalle postazioni dei macchinisti, ralenti e altri effetti spesso gratuiti e importuni.

Non molto informativi gli extra nel secondo disco, ma fanno luce sulle scelte del coreografo che definisce la musica di Ra­meau il rock-and-roll del XVIII secolo. Due tracce audio e sottotitoli in cinque lin­gue.