Ranieri de’ Calzabigi

L’opera seria

foto © Brescia e Amisano

Florian Leopold Gassmann, L’opera seria

Milano, Teatro alla Scala, 6 aprile 2025

★★★★☆

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Non c’è nulla di serio nell’Opera Seria

Non è paradossale che per divertirsi lo spettatore debba aspettare il terzo atto, quello “serio”, in quest’opera di Florian Leopold Gassmann: all’Opera non c’è nulla di serio, meno che mai in quella Seria. Siamo nel regno dell’improbabile e dell’eccesso, dove la realtà è sospesa, la Storia si fa inverosimile, la razionalità lascia posto alla fantasia più sfrenata.

Maestro di Salieri, la cui Europa riconosciuta inaugurò il Teatro alla Scala nel 1778, Gassmann fu autore di una ventina d’opere. Nato in Boemia ma affermato a Venezia e poi a Vienna, dove nel 1769 venne rappresentata L’opera seria sul caustico libretto di Ranieri de’ Calzabigi, il librettista delle opere riformate di Gluck. Un metamelodramma, cioè una satira in cui l’opera si fa beffe di sé stessa, dei suoi personaggi, delle sue convenzioni, prendendo di mira la figura dell’impresario teatrale.

Assieme al pamphlet di Benedetto Marcello (Il teatro alla moda, 1720), quello del metateatro è un sottogenere del repertorio buffo che nel Settecento si definirà prima in intermezzi (La Dirindina, Scarlatti, 1715; L’impresario delle Canarie, Sarro, 1724: Il maestro di Cappella, Cimarosa, 1793), poi in dramma giocoso (La bella verità, Piccinni, 1762; L’Impresario burlato, Mosca, 1797) e in farsa in un atto (Che originali, Mayr, 1798). Anche Mozart con lo Schauspieldirektor (1786) dà il suo contributo al genere, così come Salieri, lo stesso anno, con Prima la musica poi le parole. Ma il capolavoro assoluto si ha in pieno Ottocento con Le convenienze ed inconvenienze teatrali di Donizetti (1827). Col tempo il genere finirà per essere relegato a contesti minori come La cantante, “operetta in prosa e musica per fanciulle” di Walter Carlo Graziani del 1899.

L’Opera seria di Gassmann è «un melodramma al quadrato», scrive Lorenzo Mattei sul programma di sala come sempre ricco di interessanti interventi, dove «si ride già dai nomi»: l’impresario si chiama Fallito, il poeta Delirio, il musicista Sospiro, il castrato Ritornello, il maestro di ballo Passagallo e i soprani Stonatrilla, Smorfiosa e Porporina fino alle rispettive madri Caverna, Befana e Bragherona. Nel primo atto c’è la presentazione dell’argomento e dei personaggi con i loro tic, le loro manie, le rivalità tra cantanti, compositore e librettista, le pretese del maestro di ballo. Nel secondo assistiamo alle prove dell’opera seria Oranzebe, dramma tragico la cui ambientazione orientaleggiante e la versificazione sono una chiara parodia del teatro metastasiano, anche se il titolo si rifà alla Aureng-Zebe, “Restoration drama” del 1675 di John Dryden. Qui il ruolo dell’impresario è devastante quando scorcia versi e ritornelli facendo indignare in egual misura poeta e musicista e indispettire i cantanti. Nel terzo vediamo finalmente la messa in scena dell’Oranzebe, presto interrotta però dalle intemperanze del pubblico e dalla fuga con la cassa dell’impresario.

Coprodotta con il Theater an der Wien, arriva al Piermarini la produzione affidata a Laurent Pelly, che a Lione de Le convenienze ed inconvenienze teatrali donizettiane aveva fatto uno spettacolo indimenticabile. Qui la musica è tutt’altra cosa e la drammaturgia piuttosto latitante, i battibecchi fra primedonne, compositore e poeta ripetitivi e il testo non particolarmente brillante. Soprattutto, manca la Mamm’Agata che irrompe con tutto il suo ingombro fin dal primo atto nell’opera di Gilardoni e Donizetti. Qui le madri delle cantanti sono ben tre, ma si presentano solo alla fine e con ruoli limitati.

Pelly risolve con grande eleganza la debole drammaturgia puntando a una regia di precisione cronometria e un raffinatissimo gioco visivo che richiama il bianco e nero di certi spettacoli di Ponnelle, sia nei costumi da Pelly stesso ideati sia nelle scenografie di Massimo Troncanetti illuminate dalle luci di Marco Giusti che danno sfumature pastello al grigio degli abiti. La scena è quasi nuda nei primi due atti, con porte sullo sfondo e sui lati e otto servi di scena che si muovono secondo un meccanismo di assoluta precisione per portare, o togliere, i pochi oggetti necessari al momento – una sedia, un tavolo, uno strumento musicalo, una lancia… Impeccabile la gestualità che sottolinea la personalità di ogni personaggio: la supponenza di Stonatrilla, le paturnie di Smorfiosa, la svagata boria di Ritornello, lo stress di Delirio, e poi le tre madri, un tenore e due controtenori en travesti esilaranti.

Ma è il terzo atto il vero coup-de-théatre con la scenografia dipinta quale una toile de jouy “indienne” nei toni del grigio: palme, arbusti e un gigantesco elefante, che crolleranno miseramente a terra come in A day at the Opera dei Fratelli Marx. È la trovata di Pelly per sostituire le intemperanze del pubblico previste invece dal libretto.

In crescendo è anche la musica, che dopo l’iniziale terzetto «Oh, che bell’opera! Che bella musica! Che stil drammatico! Che stil cromatico!» – la quiete prima della tempesta – già nel finale primo porta a galla astii e gelosie: «Che veleno mi bolle nel petto! Oh teatro! oh mestier maledetto! quanto fiele inghiottire ci fa». Nel secondo atto Ritornello si ostina a cambiare Scilla con Sicilia nella sua aria di gusto metastasiano «Quel nocchier che scioglie a’ venti», con disperazione del librettista e divertimento del pubblico. Nel terzo gli interpreti finalmente vestono i panni previsti dalla Oranzebe: Ritornello da Nasercano («Se con voi do in braccio al vento»), Smorfiosa da Saebe («Saprei costante e ardita | spezzar la tua catena»), Stonatrilla da Rossanara («No, se a te non toglie il fato | quel bell’occhio lusinghiero»), tre pompose arie con daccapo.

Compagnia di canto praticamente perfetta quella raccolta sulla scena della Scala: Pietro Spagnoli, Fallito, si muove con l’agilità vocale e l’elegante presenza scenica che ha sempre dimostrato; Mattia Olivieri dosa con bell’equilibrio le ambasce di Delirio; Giovanni Sala e un inappuntabile Sospiro, compositore piegato ai capricci di impresari e musici dalla parrucca stile colpo di vento mentre Josh Lovell, con cresta quasi punk, è un divertentissimo e vocalmente glorioso Ritornello. Da Julie Fuchs, Stonatrilla, non si poteva non aspettarsi che una performance impeccabile, come è infatti avvenuto; simpatia e vivacità strabordanti contraddistinguono la Smorfiosa di Andrea Carroll e la Porporina di Serena Gamberoni; il costernato maître de ballet Passagallo trova in Alessio Arduini un’efficace definizione. E infine le tre “mamme”, tre cammei di lusso per la Befana di Lawrence Zazzo, la Caverna di Filippo Mineccia e la Bragherona di Alberto Allegrezza. Dalla direzione di Christophe Rousset alla guida dell’orchestra del teatro rimpolpata con alcuni strumentisti dei suoi Talents Lyrique, ci saremmo aspettati un pochino più di verve oltre alla inappuntabile resa musicale di un esperto di questo repertorio.

Come sempre negli spettacoli di Pelly massima è la cura per le coreografie, affidate qui all’ironia di Lionel Hoche e all’esecuzione impeccabile dei suoi ballerini. Al termine grande successo e applausi copiosi di un teatro pieno in ogni ordine di posti in una delle pochissime pomeridiane che il teatro milanese si degna di offrire al suo pubblico.

Orfeo ed Euridice

foto © Michele Crosera

Christoph Willibald Gluck, Orfeo ed Euridice

Venezia, Teatro la Fenice, 28 aprile 2023

★★★★☆

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L’opera di Gluck ritorna alla Fenice dopo quasi trent’anni 

Rivoluzionare l’opera in 75 minuti di musica è quello che riesce a Christoph Willibald Gluck nel 1762 con l’ennesima riproposizione del mito di Orfeo ed Euridice, lo stesso con cui l’opera era nata all’inizio del Seicento con l’Euridice di Peri (1600), poi con quella di Caccini (1602) e quindi con L’Orfeo (1607) di Monteverdi. Un mito che vive nel tempo come tema dell’amore che vince la morte.

L’intento di Gluck e del suo librettista Ranieri de’ Calzabigi era quello di rinnovare completamente il modello operistico dell’opera seria fino allora in voga, ossia quello metastasiano, fondato sull’alternanza di recitativi e arie. Nel 1762 Vivaldi e Vinci erano morti da alcuni decenni, Händel da tre anni e Porpora sarebbe mancato quattro anni dopo: con loro il modello a numeri chiusi era arrivato al culmine delle sue possibilità espressive con arie che erano scrigni di prodezze vocali difficilmente superabili ma drammaturgicamente lontane dalla rappresentazione del vero. 

Con l’intelligibilità totale del testo e un continuum musicale che segua l’azione senza interromperla «o soffocarla sotto inutile superfluità di ornamenti», come scrivono nella prefazione all’Alceste, Gluck e Calzabigi cercarono di realizzare nella musica gli ideali illuministici della ragione, la naturalezza, la logica, la verità, concetti su cui si basava il movimento che si stava sviluppando in quel periodo quando il mecenatismo di corte iniziava a venir meno a favore di un pubblico colto ma non unicamente aristocratico. Di qui la semplificazione dell’azione drammatica e la supremazia del testo sulla musica ripulita degli artifici barocchi ed eccessi di virtuosismo che compromettevano la comprensione delle parole. L’Orfeo ed Euridice e il successivo Alceste realizzavano appunto questi intenti. La vicenda dell’Orfeo ed Euridice è talmente scarnificata e il numero di personaggi ridotto, da risultare una rivoluzione totale rispetto ai macchinosi e affollati spettacoli barocchi settecenteschi. Qui si inizia con un funerale, si procede con l’ingresso agli inferi, poi una sofferta uscita e un gioioso ricongiungimento finale. Tutto qui. Soltanto un’ora e quindici minuti di musica se, come avviene qui al Teatro la Fenice di Venezia, vengono tagliate quasi tutte le danze previste da questa “Azione teatrale per musica in tre atti”.

Una sintesi non solo sonora ma anche visiva, così come avviene nella depurata messa in scena di Pier Luigi Pizzi, il decano degli scenografi italiani che aggiunge questa ennesima esperienza alla sua frequentazione del teatro gluckiano. In scena vediamo delle pietre tombali che rimandano alle visioni cimiteriali della poesia pre-romantica di Thomas Gray (Elegy Written in a Country Churchyard), di Robert Blair (The Grave), di Edward Young (Night Thoughts) o del nostro Ugo Foscolo (Dei sepolcri). In una di queste tombe verrà calato il corpo esanime di Euridice. Lo sfondo della scena è un grande schermo su cui vengono proiettate figure di cipressi e di un albero scheletrico, un cielo cangiante di nubi tempestose o squarci di sereno, una superficie marina, le fiamme dell’Erebo. Nel finale appare la facciata della Fenice: anche lei rinata, più volte, dopo la morte (gli incendi) grazie all’amore per il teatro.

Due elementi scorrevoli neri formano la porta che sbarra l’ingresso agli inferi. Accompagnano il canto del semidio nei ritornelli sei mimi musicanti, un quartetto d’archi, un flauto e un’arpa, quest’ultima non troppo agevole da trasportare tanto da conseguire un effetto quasi comico. Il coro, il quarto personaggio, ai lati del proscenio in scuri costumi drappeggiati intona prima i lamenti funebri («Ah! se intorno a quest’urna funesta») poi lo sdegno delle furie («Chi mai dell’Erebo fra le caligini») raddolcite infine dal canto di Orfeo.

Un mezzosoprano e due soprani sono le voci impiegate da Gluck in questa prima versione di Orfeo ed Euridice – a Vienna nel 1762 la parte di Orfeo fu creata per un castrato mentre a Parigi, dodici anni dopo, la nuova versione in francese prevedeva invece un haute-contre – e tre voci femminili sono dunque presenti sulla scena. Cecilia Molinari è un Orfeo intenso e appassionato, di bel fraseggio, che esibisce eleganti variazioni alla ripresa la seconda volta del suo «che farò senza Euridice!», unica concessione “belcantistica” al rigore espressivo del compositore. Forse una recitazione ancora più trattenuta avrebbe fornito un effetto più sublimato e meno terreno al suo personaggio. Mary Bevan è una trepidante Euridice dalla bella linea vocale, mentre spigliato è l’intervento di Silvia Frigato, Amore. La concertazione di Ottavio Dantone, grande specialista di questo repertorio, è come sempre appropriata, con dinamiche precise, buoni colori strumentali, ma senza particolari guizzi interpretativi. Corretti si sono dimostrati l’orchestra e il coro del teatro. Sala come sempre piena di un pubblico attento e generoso negli applausi finali.

Tutto bene, ma… D’accordo che ai tempi di Gluck potevano essere stufi della «superfluità di ornamenti», ma io uscendo dal teatro e avventurandomi nelle calli veneziane invece di «Che puro ciel» canticchiavo tra me e me «Vo solcando un mar crudele»!

Orfeo ed Euridice

 

foto © Iko Freese/drama-berlin.de

Christoph Willibald Gluck, Orfeo ed Euridice

Berlin, Komische Oper, 7 juillet 2022

★★★★☆

 Qui la versione italiana

Orfeo ed Euridice, l’histoire d’un couple

«Les origines du mythe sont très lointaines. Ce qui est déterminant pour moi, c’est sa composante “vie réelle” ; je me demande ce qui relie ces mythes à nos vies d’aujourd’hui. Je pense que c’est la raison pour laquelle cette histoire a été écrite : elle a été écrite pour partager des expériences de vie», écrit Damiano Michieletto…

la suite sur premiereloge-opera.com

Orfeo ed Euridice

 

foto © Iko Freese/drama-berlin.de

Christoph Willibald Gluck, Orfeo ed Euridice

Berlino, Komische Oper, 7 luglio 2022

★★★★☆

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Orfeo ed Euridice, una storia di coppia

«Le origini del mito sono molto lontane. Ciò che è decisivo per me è la sua componente di vita reale; mi chiedo cosa colleghi questi miti alla nostra vita di oggi. Penso che questo sia il motivo per cui questa storia è stata scritta: è stata scritta per condividere esperienze di vita» scrive Damiano Michieletto, e continua: «al centro di quest’opera c’è una fedeltà d’amore, l’esperienza del viaggio di Orfeo. Nel corso del viaggio, i personaggi trovano l’amore e si ritrovano l’un l’altro. La crisi dell’inizio porta presto alla morte di Euridice e quando Orfeo la ritrova, è come se questa crisi continuasse e si risolvesse poco prima della fine. Cerco di sviluppare questa storia come la storia di una coppia, piuttosto che come le gesta di un singolo eroe».

Non c’è il mito nella intensa lettura di Orfeo ed Euridice del regista veneziano, ma una storia borghese, molto contemporanea. Se è il senso di colpa che spinge Orfeo a salvare Euridice, è però Amore il terzo personaggio, motore della vicenda anche se non è nel titolo: «Il trionfo dell’amore alla fine deriva dall’esperienza della finitezza della vita. Questo pensiero è difficile da sopportare. Il senso del motivo del viaggio e delle avventure di cui parlano numerosi miti è, a mio avviso, il tentativo di mostrare, con mezzi artistici, il vissuto di un’esperienza di vita veramente significativa. Si tratta della possibilità di cambiare, di incontrarsi di nuovo, di amare di nuovo e forse anche in modo diverso», dice ancora il regista.

Al levarsi del sipario, dopo l’ouverture, vediamo una coppia in crisi seduta a un tavolo in abiti degli anni ’50 (costumi di Klaus Bruns). Entrambi sono nervosi, lui con una valigia pronta, che poi afferra e se ne va. Rimasta sola, sconvolta, lei si taglia le vene dei polsi. Non è il morso di un serpente a distruggere l’armonia tra Orfeo ed Euridice, ma la mancanza di comunicazione, la constatazione di non aver più nulla da dirsi, la perdita dell’amore. Nella scena seguente il coro intona il mesto «Ah! se intorno a quest’urna funesta» non in un «solitario boschetto di allori e cipressi», ma in una corsia di ospedale: Euridice è su un lettino in pericolo di vita, Orfeo chiama il suo nome e intona poi la sua prima aria rivolgendosi agli altri degenti. Nel culmine della disperazione prende la pistola di una guardia e se la punta alle tempia, ma viene fermato da Amore, un prestigiatore in cilindro e marsina piuttosto male in arnese, che gli promette di fargli ritrovare l’amata a condizione che… beh, lo sappiamo. Nel frattempo un parallelepipedo è sceso dall’alto e ha inglobato il lettino di Euridice e tutti i degenti: ora Orfeo è solo e inizia il suo viaggio nell’aldilà tra tuoni e lampi (luci bellissime come sempre quelle di Alessandro Carletti). Lo scenografo Paolo Fantin prevede ora una camera a prospettiva forzata che avanza dal fondo e le cui linee conducono a una porticina che dà su un nulla nero. In scena un grumo di figure nere e senza volto si agita minaccioso: è la «turba infernale» che impedisce il passaggio ad Orfeo. Ci vorrà il suo canto per raddolcirli: le figure nere si liberano del tessuto nero e diventano gli spiriti celesti. Orfeo cerca inutilmente tra quegli stracci l’amata, finché sul fondo si vede una larva nera che si contorce e ne escono le membra della donna. I due coniugi finalmente si ritrovano, ma l’angoscia di non poterla vedere in faccia e l’insistenza di lei per uno sguardo porta alla tragedia: inutilmente Orfeo ha cercato di bendarsi gli occhi con quegli stracci, cede e perde un’altra volta Euridice, che viene fagocitata da quella massa nera. Cambio di scena, siamo di nuovo nell’ospedale, il lettino della donna è vuoto e sono ancora i degenti ad ascoltare il lamento di Orfeo, «Che farò senza Euridice». Si ripete la scena di prima: Orfeo prende la pistola della guardia, la punta alle tempia ed è nuovamente Amore, questa volta in un completo scintillante di paillettes, a fermare il gesto e annunciargli che gli viene resa la sposa. Ma non è finita per Orfeo: durante le danze del finale altre alter ego di Euridice sembrano voler mettere alla prova il suo amore. L’ultima scena è come la prima: un tavolo, i due coniugi, la valigia, ma questa volta è l’amore che vince e i due vivranno felici e contenti, «Trionfi Amore, | e il mondo intero | serva all’impero | della beltà».

Ho raccontato fedelmente lo spettacolo per un motivo: questa era l’ultima ripresa, dopo Berlino questa produzione giacerà nei magazzini fino all’estate del ’24, quando andrà in scena a Spoleto. Fino ad allora rimarrà solo nella memoria degli spettatori che hanno assistito alle recite di gennaio e alle due riprese di luglio.

La pulizia visiva ottenuta dal regista e dal suo scenografo non sembra abbia un corrispettivo nella direzione un po’ disordinata di David Bates che non rende la trasparenza dell’orchestrazione e sceglie tempi estremi, e negli strumentisti dell’orchestra del teatro, incerti tra esecuzione storicamente informata e slanci romantici. La versione scelta è quella viennese, in italiano, senza l’aria “spuria” del finale atto primo («Addio, o miei sospiri») e la scena seconda dell’atto secondo (Euridice e coro) ma con le danze dell’atto terzo, quei famosi nove lunghi minuti che Carsen aveva tagliato a Roma e che qui sono realizzati con i movimenti coreografici di Thomas Wilhelm.

Buono il coro ospite, il Vocalconsort Berlin, validamente impegnato anche scenicamente. Nadja Mchantaf è un’intensa Euridice dalla voce insolitamente drammatica per la parte, ma qui del tutto coerente con la lettura registica. Efficace nei suoi due interventi risolutori l’Amore di Susan Zarrabi, soprano dotato di voce sicura e valida presenza scenica.

E infine c’è l’Orfeo di Carlo Vistoli, il quale con questa performance non si conferma soltanto tra i migliori controtenori di oggi, ma tra i migliori interpreti della scena lirica tout court. Michieletto lo vuole sempre presente e lo sottopone a ogni forma di fatica: su e giù sul palcoscenico, tirato per i piedi, trascinato, portato in spalla, si rotola negli stracci e poi nelle “ceneri” di un’urna, viene investito da un secchio d’acqua… Con questa prova si rivela attore a tutto campo con una attorialità solidissima e una prestazione vocale di qualità superlativa. Dimentichiamoci i timbri sbiancati, le voci esili di certi controtenori: qui il suono è corposo, riempie il teatro, si piega a ogni possibilità espressiva pur mantenendo una linea di canto stilisticamente ineccepibile con abbellimenti, trilli, variazioni magistralmente eseguiti. La sua è una definizione del personaggio complementare a quella realizzata con Carsen, ma con un approccio di fondo che si rivela simile, ossia quello di svelare la verità di un personaggio che ha perso l’aurea eroica del mito e che si è fatto umano, molto umano. Il pubblico presente l’ha capito e ha tributato grandiose ovazioni nei suoi confronti.

Orphée et Euridice

Christoph Willibald Gluck, Orphée et Euridice

★★★★☆

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

Milan, Teatro alla Scala, 24 February 2018

Mourning becomes Orpheus: Gluck at La Scala

With Monteverdi’s L’Orfeo a new theatrical genre was born. With Gluck’s Orfeo, 150 years later, the same genre was put under discussion and renovated. This pivotal work is known in three main versions: Orfeo ed Euridice (Vienna 1762, in Italian and with the role of the protagonist for an alto castrato); Orphée et Euridice(Paris 1774, in French, for a haute-contre); Orphée et Eurydice (written with y, Paris 1859). Leaving out the latter that Berlioz adapted from the French version changing the orchestration and transposing the part of the protagonist for mezzo-soprano Pauline Viardot, the two versions of Gluck’s time differ so much that we can almost speak of them as two distinct works…

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Alceste


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Christoph Willibald Gluck, Alceste

★★★☆☆

Madrid, Teatro Real, 27 febbraio 2014

(registrazione video)

Alceste, una tragedia moderna

Che bello quando dietro la ripresa di un classico, della messa in scena di un’opera vista e rivista, c’è un’idea registica, che magari può non piacere, ma c’è, diversamente da certe rappresentazioni “classiche” tanto amate dal pubblico.

L’ultimo prodotto della gestione di Gérard Mortier – il consulente artistico ed ex direttore del Teatro Real di Madrid morirà infatti l’8 marzo 2014 poco dopo la prima – è questo Alceste affidato a quell’enfant terrible che ha nel nome apparentemente impronunciabile quasi solo consonanti, e le più ostiche: Krzysztof Warlikowski. Proveniente come formazione dal teatro drammatico (come Visconti, come Strehler…) il polacco ha un senso del teatro mostruoso (nel senso fantozziano del termine), che talora prende alcune sbandate (vedi il suo Don Giovanni di Bruxelles), ma spesso lascia invece il segno e fa pensare gli spettatori, cosa non sempre accettata da chi al teatro d’opera delega una funzione digestiva e propizia al sonno.

E una tisana di tiglio e camomilla questo spettacolo di Madrid proprio non lo è. Lo si capisce subito dalle prime note dell’ouverture. Nella nuda scena irrompe angosciata una figura moderna di donna: il marito sta morendo, lei si attacca nervosamente a una sigaretta, corre a un lavandino per liberarsi dei conati di vomito, perde le scarpe, subito raccolte dalla dama di corte assieme alla borsetta della bionda e malinconica principessa in tailleur blu elettrico. Frattanto in scena ha preso posto una corsia di ospedale e il coro che lamenta il triste destino della Tessaglia è formato da degenti e visitatori. Le parole che cantano «O dieux! qu’allons-nous devenir? | Non, jamais le courroux céleste, | Sur des mortels qu’il veut punir, | N’a frappé de coup plus funeste» in questo modo hanno un’intensità ancora maggiore. Riconosciamo in Alceste la reincarnazione di Lady Di che porta il suo conforto tra i letti del nosocomio. E per essere più chiari lo spettacolo era iniziato con una lunga intervista in cui Alceste/Diane dichiarava il suo amore per il marito, ma noi sappiamo che non è vero ed è il senso di colpa di lasciarlo mentre sta morendo che la spinge a giocare un ruolo che è puramente rappresentativo. L’amore che invoca è solo di facciata, un’immagine ipocrita della famiglia, come sarà messo in evidente dal regista nella scena conclusiva dell’opera con quel posticcio happy end.

Ma ritorniamo al primo atto. Nella scena seguente siamo al tempio, qui un moderno ambiente liturgico con sullo fondo una grande croce luminosa. Alceste veste il lutto in attesa del responso del gran sacerdote. Il rito continua, ma invece di sacerdotesse, fumi di incensi, vittime sacrificali e relativo scrutamento di interiora, qui c’è la lavanda dei piedi, rito auto-umiliante cui si sottopone Alceste prima di ingerire una bella dose di barbiturici.

Nel secondo atto siamo a corte e si festeggia il repentino ricupero della salute di Admeto cui si unisce un’Alceste in abito da sera rosso ciliegia, ma emotivamente assente. Qui il regista inserisce inopinatamente un numero di flamenco (strizzata d’occhio al pubblico madrileno?) che ha una sua giustificazione nel clima di straniamento della festa. Non sarà l’unico inserimento insolito voluto dal regista: vi saranno anche dei dialoghi parlati, in inglese! Admeto svela la sua vera natura quando apprende che la moglie si è sacrificata per lui: «Qui t’a donné le droit de disposer de toi? | Les serments de l’amour et ceux de l’hyménée | Ne te tiennent-ils pas à mes lois enchaînée? | Tes jours, tous tes moments ne sont-ils pas à moi?». Parole che in questo contesto mettono ancora più in evidenza il ruolo di subordinazione della donna alle leggi dell’uomo di potere. Nella conclusione dell’atto si raggiunge un momento di magica sospensione teatralmente efficacissimo e reso magnificamente sia dalla musica sia dalla regia.

Il terzo atto ha luogo in un obitorio con dei cadaveri che prenderanno vita in maniera piuttosto disturbante durante il lungo colloquio dei due sposi che precede il trapasso di Alceste e poi il suo riluttante ritorno fra i vivi. Alla fine la famiglia si riunisce, ma a spese della sanità mentale di Alceste, inerte su una sedia a rotelle. La sua ribellione ai falsi valori della famiglia è qui beffardamente punita imprigionandola in quella gabbia da cui lei voleva fuggire.

Questo per quanto riguarda la messa in scena, completata da immagini video in questa realizzazione visionaria e ipnotica forse più di Euripide che di Gluck. Ma chi avrebbe detto che la controversa regia di Warlikowski, qui al suo secondo Gluck dopo l’Iphigénie en Tauride di Parigi, sarebbe stata la parte più convincente di questo spettacolo?

Ivor Bolton, nuovo direttore musicale del teatro, sceglie la versione parigina del 1776 della tragédie-opéra, su libretto in francese quindi. Nonostante la sua direzione energica, scollamenti tra buca e cantanti o coro in scena non sono rari.

Angela Denoke, ammirata interprete di opere del secolo scorso (Janáček, Berg, Hindemith…), fa fatica qui a tenere una linea di canto esente da sbandamenti di intonazione, vibrati eccessivi e dizione ai limiti della comprensibilità. L’intensità della sua interpretazione non compensa i difetti della vocalità e senza voler tirare in ballo impietosi confronti, non dico con la solita Callas ma anche con altre interpreti più recenti, vocalmente questa non sembra proprio una parte per lei. Qui le qualità vocali sono sottomesse alle impegnative esigenze drammaturgiche. È una scelta fatta dallo stesso Warlikowski anche per la sua Médée di Cherubini con Nadja Michael modellata sulla figura di Amy Winehouse. Che piaccia o no, occorre tener conto di questa tendenza nella messa in scena delle opere oggi. Nessuna Jessie Norman avrebbe potuto interpretare la parte di Alceste in questo allestimento… Vocalmente le cose non vanno meglio neanche con l’Admeto/Prince Charles di Paul Groves, lo stesso dell’edizione parigina di Bob Wilson, ma qui gli acuti sono strozzati e la voce si è fatta nel frattempo più sottile e affaticata.

In una produzione madrilena Willard White non poteva mancare, e infatti non manca. Una dizione francese del tutto approssimativa e una voce quasi allo stremo caratterizzano il suo Gran Sacerdote, intimidatorio simbolo delle forze oppressive e colpevolizzanti della religione (tema caro al regista venuto dalla cattolicissima Polonia), e infine Divinità Infernale. L’Ercole, buffonesco istruttore di scherma dei principini, nella sua breve parte è un convincente Thomas Oliemans, così come Magnus Staveland, Evandro, qui amante neanche tanto segreto di Alceste.

Orpheus und Eurydike

Christof Willibald Gluck, Orpheus und Eurydike

★★★★★

Parigi, Opéra Garnier, 4 febbraio 2008

(registrazione video)

Pina Bausch e il suo intensissimo Orpheus

Se Bob Wilson aveva eliminato completamente i balletti nella sua stilizzatissima e minimalista interpretazione di Orphée et Eurydice (nella versione francese), qui, sempre a Parigi, abbiamo invece un’edizione in lingua tedesca che ha il suo punto di forza proprio nella coreografia di Pina Bausch. La sua lettura è più fedele alle origini dell’opera di Gluck che era nata come “azione teatrale” in quella Vienna del 1762 le cui scene erano dominate dal coreografo italiano Gasparo Angiolini con cui Gluck e Calzabigi avevano creato quello stesso anno il balletto pantomima Don Juan ou Le festin de pierre per l’onomastico dell’imperatore. A quel tempo balletto e opera erano una cosa sola.

Divisa in quattro quadri – Lutto, Violenza, Pace, Morte – la lettura della coreografa tedesca parte dalla versione originale di Vienna dell’opera per ricostruire la vicenda secondo i suoi temi prediletti: l’amore contrastato, la perdita, la violenza e la morte. Gluck aveva scritto la “danza delle furie” e la “danza degli spiriti beati”, ma la Bausch affianca ai tre cantanti in scena un doppio che danza la loro parte. Cantanti e ballerini sono spesso fisicamente vicini, ma sembrano abitare mondi paralleli che ogni tanto si sovrappongono. Solo in un punto prevale la vocalità, quando Orfeo affranto si rende conto di aver perduto per sempre l’amata e intona una delle arie più conosciute dell’opera seria, «Che farò senza Euridice», e il ballerino che lo doppia rimane accasciato in un angolo dello sterminato e vuoto palcoscenico senza muoversi e con le spalle al pubblico lasciando al canto l’espressione del dolore.

Sono i danzatori a esprimere i sentimenti dei personaggi, le cantanti nel loro abito nero hanno posizioni defilate in scena e il coro è sempre invisibile. Il teatro espressionista della Bausch si sovrappone in maniera magnifica sul trattamento neoclassicista della vicenda e anche se non si tratta ancora del Tanztheater con cui verrà in seguito conosciuta, la coreografia della sua dance-opera Orpheus und Eurydike, ideata a Wuppertal nel maggio 1975, contiene già molte caratteristiche del suo stile.

Dal 2005 il balletto dell’Opéra National di Parigi ha il privilegio di poter interpretare e mettere in scena, caso piuttosto raro, lo spettacolo della Bausch e quella che vediamo su DVD della Belair è la registrazione della ripresa del 2008 con le voci di Maria Riccarda Wesseling, Julia Kleiter e Sunhae Im (rispettivamente Orfeo, Euridice e Amore, quest’ultima la più convincente delle tre), ma sono i corpi dei danzatori Yann Bridard e Marie-Agnès Gillot a farsi ricordare per l’intensità della loro interpretazione. Il primo, in shorts color carne, dipinge il dolore della perdita e lo straniamento cui è soggetto sia in questo che nell’altro mondo e non sembra il cantore che può ammansire le belve con la lira, che infatti qui non ha. Del secondo non si può cancellare dalla mente la straordinaria prova di volontà della ballerina affetta fin da piccola da scoliosi che ha vinto la sua battaglia col corpo, ma che in ogni suo movimento ci fa partecipi di una sua sublimata sofferenza. Thomas Hengelbrock dal podio dà il giusto rilievo alla partitura con ritmi a tratti elettrizzanti.

Le ovazioni finali del pubblico vanno in buona parte all’esile figura della Bausch che sale sul palco assieme ai danzatori e ai cantanti a ricevere gli applausi. Morirà un anno dopo.

 

 

Orphée et Eurydice

Christof Willibald Gluck, Orphée et Eurydice

Monaco, Nationaltheater, 7 novembre 2003

(registrazione video)

Più Berlioz che Gluck

Nigel Lowery e Amir Hosseinpur avevano già lavorato insieme nel 1993 a Monaco alla produzione di Richard Jones del Giulio Cesare in Egitto. Qui condividono per la sesta volta la messa in scena – il primo si occupa delle scenografie e dei costumi e il secondo delle coreografie – dell’Orphée et Eurydice di Gluck nella versione di Berlioz.

Per una volta lascio la parola a Elvio Giudici, anche se non ne condivido del tutto l’entusiasmo e trovo che l’elemento grottesco faccia a pugni con la musica e con la concezione dell’opera, anche in questa esteriore versione di Berlioz. Sicuramente si tratta di uno spettacolo originale, anzi sono due spettacoli: quando alla fine il pubblico pensa sia terminato, entrano in scena i danzatori “veri” per un balletto, nello stile nervoso e disinvolto di Hosseinpur, in cui la vicenda è narrata una seconda volta con il mezzo della danza.

«Esemplare fusione di musica e scena in uno spettacolo che non ha intervalli e scorre veloce senza un attimo di cedimento: uno dei molti grandissimi spettacoli con i quali la Monaco di Peter Jonas cambiò faccia al repertorio barocco e post-barocco moderno. Sotto il profilo musicale, gran merito va al direttore inglese [Ivor Bolton] che, con un’orchestra morbida e ricca di colori, diversifica i vari momenti della vicenda e gli stati d’animo vissuti dei personaggi creando un articolatissimo caleidoscopio di atmosfere espressive. Ma merito ancor maggiore va a Vesselina Casarova, Orphée senz’altro tra i maggiori: sia per lo stile e la scioltezza – almeno apparente – con cui affronta le rocambolesche tessiture scritte espressamente per far brillare una fuoriclasse come Pauline Viardot, sia per le qualità d’attrice; sia infine per il convincentissimo physique du rôle. Molto affascinante anche Debora York nel ruolo di Amour cui la regia ha assegnato uno spazio assai più vasto del solito.  Stilisticamente inappuntabile, poi, l’Eurydice di Rosemary Joshua. Ottimo, infine, il coro istruito da Edouard Asimont, in  molte occasioni trasformato in vero e proprio personaggio e come tale chiamato a recitare. La qualità musicale e quella dello spettacolo si integrano e si compendiano come solo raramente avviene. L’idea base della regia e l’illusione: vita, amore, musica non sono altro che illusioni. La morte di Eurydice è la morte della musica: il coro iniziale – in scena, in lontananza, alcuni abeti su cui nevica – non è costituito da pastori, ma dei componenti di un’orchestra, tutti in frac e ognuno col proprio strumento, che piangono la loro ispiratrice. Anche Orphée, bellissimo, è in frac ma senza papillon: la sua cetra è il violino e lui canta il suo dolore alla custodia dello strumento, che però la morte d’Eurydice ha distrutto, sinché nel momento in cui la apre, scopre che contiene solo segatura. Quando, disperato, reclama il diritto a riavere l’amata, lo fa estraendo da una cartella spartiti della sua musica e spargendoli al vento. È a questo punto che arriva Amour, elegante pagliaccio con un bambolotto cui dà movenze umane facendogli assumere nella scena il fondamentale ruolo di simulacro della realtà: Orphée ci crede, si illude e si lancia, cantando – a sipario chiuso, sala illuminata e pubblico in giustificato tripudio – l’ariette (inteso alla francese come aria con vocalizzi) «Amour, viens rendre è mon âme», Rivisitazione di Berlioz del brano aggiunto da Gluck nella versione francese e che gli valse l’accusa di plagio nei confronti di Ferdinando Bertoni. Dal sipario ancora chiuso sbuca Amour che gli porge un nuovo violino con il quale si avvia alla porta degl’inferi, dove l’illusione continua. La scena, infuocata dalla luce rossa, è su due piani: in basso la platea di un teatro dove la musica, cioè l’orchestra-coro, è accasciata e vinta; in alto, il palcoscenico dominato da un grande camino e una schiera di crudeli cuochi-macellai (coristi anch’essi), Rivisitazione degli orchi delle fiabe che mangiano i bambini. Sono gli spiriti infernali che assaltano e mutilano gli orchestrali rendendo cattivi i sopravvissuti come accade con le vittime dei vampiri. Orphée li evita facendosi scudo del violino che brandisce come la testa di Medusa, e raggiunto un buio passaggio vicino al camino vi si inoltra. Il sipario del teatrino si chiude e, durante il cambio di scena, i coristi-orchestrali mimano di suonare l’introduzione ai Campi Elisi; quando si riapre, Orfeo emerge da un sarcofago rosa in un paesaggio di fiaba. Il coro, ora in tuniche allusive all’antica Grecia, partecipa alla restituzione di Eurydice, e in seguito in frac, all’esultanza finale quando Amour, anche lui in frac, la riporta definitivamente alla vita. L’avvenimento è festeggiato assistendo un balletto originale e spiritoso che ripercorre le tappe della vicenda».

Orphée et Eurydice

Christof Willibald Gluck, Orphée et Eurydice

Parigi, Opéra Comique, 10 ottobre 2018

★★★

(video streaming)

L’Orfeo di Gluck-Berlioz

Dove se non in Francia è possibile ascoltare la versione 1859 dell’Orphée et Eurydice, quella con l’y. Molte sono le differenze apportate da Berlioz per il Théâtre-Lyrique – un anno dopo la dissacrante parodia di Offenbach – e tutte nel gusto della sua epoca.

Il ruolo titolare è affidato al mezzosoprano Pauline Viardot che ha un trionfo personale come primo Orfeo al femminile, tale da avviare una vera e propria Gluck-renaissance in Francia e una bella rivincita per il compositore che nel 1827 al Prix de Rome si era visto rifiutare la cantata La morte d’Orphée perché giudicata ineseguibile. «È stato uno spettacolo eccezionale, una celebrazione come non l’ho mai vista a Parigi», scrive la Viardot dopo la prima, «Il ruolo di Orfeo è adatto a me, è come se fosse stato scritto per me». E Berlioz: «È divinamente bella. Ho già pianto più di 20 volte». Il compositore si era dunque completamente ricreduto dopo il malevolo giudizio che aveva dato vent’anni prima della sorellina della Malibran: «Mlle Pauline Garcia m’a beaucoup déplu, ce n’était pas la peine de faire de ce prétendu talent un tel tapage, c’est une diva manquée» (1). Diversi sono i recitativi e diversa l’orchestrazione (basti l’inizio del secondo atto o la danza delle furie per rendersene conto).

Coprodotto con vari teatri non solo francesi, all’Opéra Comique approda questo allestimento di Aurélien Bory, qui alla sua seconda regia lirica, che assieme a Pierre Dequivre disegna una scenografia minimalista consistente soltanto in uno specchio semiriflettente posto a 45° che, tra l’altro, riflette anche la voce e permette all’interprete di cantare con le spalle al pubblico. Vediamo quindi come un fondale il tappeto con l’Orphée ramenant Eurydice des enfers di Corot che copre il palcoscenico e che a un certo punto viene risucchiato nella tomba assieme al cadavere di Euridice. Lo specchio fa poi sembrare sospese per aria le contorsioni delle furie. Un momento molto teatrale è quando Orfeo è trasportato nell’Ade rotolando sui loro corpi o quando lo specchio ruota in avanti e diventa la porta basculante per l’aldilà o ancora quando Euridice viene inviluppata in un velo nero per la sua definitiva morte. Non mancano momenti un po’ ingenui come Amore in un cerchio acrobatico, ma nel complesso lo spettacolo è visivamente pregevole anche grazie al gioco luci di Arno Veyrat.

A capo dell’Ensemble Pygmalion Raphaël Pichon dà una sua particolare lettura della partitura eliminando la pomposa ouverture, sostituendola col Dom Juan dello stesso Gluck, e il lieto fine riprendendo il coro della morte di Euridice. Gli strumenti sono dell’epoca e manca il clavicembalo. Il tono è generalmente drammatico con le spettacolari caratteristiche foniche dell’orchestrazione in evidenza. I tempi sono giustamente contrastati ma il volume sonoro non copre mai le voci delle tre cantanti, tre interpreti a loro modo esemplari per stile, fraseggio e dizione. Marianne Crebassa è un Orfeo composto con giusti risvolti drammatici il cui vibrato aggiunge un tocco di intensità alla sua interpretazione ed è al contempo a suo agio nell’acrobatica aria che conclude il primo atto, quell’«Amour viens à mon âme» che con le sue travolgenti agilità sembra voler contraddire la riforma di semplicità e rigore intrapresa dall’autore. La Eurydice di Hélène Guilmette incanta per la grazia malinconica e la toccante umanità del personaggio, Léa Desandre è un impeccabile Amour. Negli applausi finali la soddisfazione del pubblico si manifesta anche per gli strumentisti e in particolare per la flautista del dolcissimo assolo dei campi elisi.

(1) La signorina Pauline Garcia mi ha molto deluso, non valeva la pena fare tante storie per questo presunto talento. È una diva mancata.

Orfeo ed Euridice

Christoph Willibald Gluck, Orfeo ed Euridice

★★★★☆

Roma, Teatro dell’Opera, 19 marzo 2019

(registrazione video)

La “bella semplicità” di Orfeo

Coprodotto col Théâtre des Champs-Élysées, Château de Versailles Spectacles e Canadian Opera Company, arriva a Roma lo spettacolo di Robert Carsen del 2011. La versione originale del lavoro di Gluck va in scena in un teatro dove, parecchi decenni fa, nella parte di Orfeo si alternavano mezzosoprani en travesti – dalla Besanzoni alla Stignani alla Barbieri – mentre nell’originale viennese del 1762 la voce fu quella del castrato Gaetano Guadagni, apprezzato per il suo caldo registro centrale, dicono le cronache dell’epoca.

Qui debutta nel ruolo Carlo Vistoli, un contraltista già ampiamente affermato che ha dimostrato ancora una volta la bellezza naturale e la morbidezza del suo timbro, la chiara dizione e l’eccezionale proiezione per un registro di voce così particolare. Le doti recitative gli permettono di reggere magnificamente la scena su cui è sempre presente nei tre atti eseguiti senza intervallo, così da concentrare la tensione della vicenda. Ne esce un Orfeo sinceramente segnato dalla sofferenza, ma che non perde mai di musicalità e proprietà di stile. Di Vistoli non si sa se ammirare di più le arie, tra cui la gemma melodica del «Che farò senza Euridice» qui eseguita con un da capo ricco di eleganti variazioni, o gli intensi recitativi.

Mariangela Sicilia è sensuale, umana ed espressiva nella breve ma intensa parte di Euridice. Emőke Baráth è l’unica interprete che ha portato Amore di questa produzione – quasi un alter ego di Orfeo in quanto vestito esattamente come lui – sulle tavole di Versailles e conferma la freschezza della sua linea di canto.

Robert Carsen allestisce la vicenda in una modernità senza tempo, uno spazio scenico quello di Tobias Hoheisel depurato di ogni orpello: una distesa di terra in cui si apre la buca per la salma di Euridice, una buca attraverso la quale si accede all’altro mondo, come già avveniva nel suo Zauberflöte. Il tutto è immerso nelle luci radenti dello stesso Carsen e di Peter van Praet. Unici elementi scenici sono delle tazze contenenti una fiamma che si trasforma in acqua nella scena dei Campi Elisi. Il rapporto tra Orfeo ed Euridice qui è più fisicamente stretto in quanto essi non si ignorano, ma solo quando i loro sguardi si incrociano avviene la trasgressione del divieto con conseguente seconda morte della donna.

È un Orfeo con lieto fine questo di Gluck. Il compositore ha affidato a questa “azione teatrale” il ruolo di manifesto del rinnovamento del teatro musicale e nella concezione sia drammatica che musicale il suo è un lavoro di rottura con l’opera seria del passato e la sua artificiosità per inaugurare una nuova “bella semplicità” in cui azione e musica si fondono in un insieme che porterà al Musikdrama wagneriano. La purezza della versione originale ha un riscontro non solo nel rarefatto allestimento di Robert Carsen, ma anche nelle scelte musicali del direttore Gianluca Capuano che depura il gesto del vibrato e lo consegna a un suono secco e a frasi nette, ma il maestro, esperto del barocco, avrebbe ottenuto esiti decisamente migliori con un’orchestra più attenta ed abituata a questo repertorio. Qui il risultato è appena apprezzabile. Anche dal coro ci si poteva aspettare un’esecuzione più attenta. Impietoso il confronto con I Barocchisti diretti da Diego Fasolis al Théâtre des Champs-Élysées (in rete ci sono i dieci minuti iniziali).

Purtroppo non ha migliorato le cose la deludente registrazione video, con due telecamere fisse e una captazione del suono che privilegia troppo l’orchestra.