★★★☆☆
Dodecafonia gay
Non so se è la prima volta che un’opera lirica prenda spunto da un film, ma esempi come questa, che ha debuttato a Madrid nel 2014 basandosi sul racconto di Annie Proulx del 1997 diventato il film premio Oscar 2005 di Ang Lee, non mi sembrano numerosi (1). I personaggi che nel film erano interpretati da Heath Ledger e Jake Gyllenhaal sono i protagonisti di questa versione in musica commissionata all’americano Charles Wuorinen da Gérard Mortier, scomparso esattamente un anno fa e allora consigliere artistico del Teatro Real dopo esserne stato direttore.
Purtroppo, dato anche il breve intervallo di tempo tra le due versioni, è difficile resistere al confronto col film. Fin dai primi momenti però si capiscono le differenze: qui la durezza del paesaggio, che non ha la maestosa bellezza del film, è centrale nella vicenda; la scena è dominata da una natura la cui scala immensa disumanizza i sentimenti dei personaggi persi in un ambiente che è ostile – anche se lo è molto meno di quello che troveranno tra gli umani una volta tornati a casa.
Assenti sono gli aspetti melodrammatici della vicenda, che qui ha un’asciuttezza molto maggiore della pellicola, e che quindi coinvolge meno gli spettatori. La musica di Wuorinen è poi all’opposto della “musica da film”: siamo in una cerebrale postserialità cui è approdato il prolifico compositore dopo la sua ininterrotta ricerca dodecafonica in cui ha avuto la sua parte anche la matematica dei frattali.
Le note gravi dei contrabbassi e i brontolii dei timpani dell’inizio, che evocano un paesaggio montano aspro e ostile, sono in parte reminiscenti di certi momenti della Alpensinfonie straussiana o del pedale introduttivo del Rheingold, ma presto con l’ingresso delle voci in un chiaro declamato e un’orchestrazione essenzialmente timbrica, l’opera si definisce meglio musicalmente.
Vicenda di isolamento assoluto è quella dei due cowboy Ennis del Mar, il baritono Daniel Okulitch (il tipo taciturno), e Jack Twist, il tenore Tom Randle (quello più estroverso), lassù tra le montagne del Wyoming a fare la guardia alle greggi di pecore negli anni ’60. Complice il freddo della notte e un whisky di troppo, i due entrano assieme nella tenda «to calm the ache of loneliness» (a placare il dolore della solitudine) e inizia così la loro storia d’amore, che terminerà tragicamente con la brutale uccisione di Jack da parte della comunità omofobica del suo paese.
Il libretto, della stessa Proulx, non ha la stringata economia del racconto, aggiunge spiegazioni e antefatti, addirittura intere scene, dilata molto il ruolo della moglie Alma e introduce nuovi inutili personaggi. Troppe parole per una partitura che ha la concisione dell’ultimo Stravinskij. Le parti vocali non sono particolarmente impegnative per i cantanti e i due protagonisti hanno così modo di delineare i loro personaggi in maniera convincente. L’orchestra è guidata con mano attenta da Titus Engel mentre la messa in scena di Ivo van Hove parte da una visione minimalista (un palcoscenico essenzialmente vuoto con gigantografie in bianco e nero o video dai colori sommessi del paesaggio) per approdare poi però al naturalismo degli ambienti al chiuso.
Il pubblico madrileno ha colto il messaggio universale dell’amore contrastato (quale soggetto più adatto all’opera lirica?) e salutato l’operazione con applausi educati. Chi si aspettava le rabbiose reazioni avvenute ad altri spettacoli promossi da Mortier nella sua lunga carriera è rimasto deluso.
La rappresentazione, lunga 130 minuti, è stata registrata in un blu-ray della BelAir intitolato alla memoria di Mortier e sottotitolato in tre lingue, ma non in italiano. Come extra le interviste agli artisti.
(1) In Italia abbiamo il caso di Marco Tutino con La ciociara (2015) e Miseria e nobiltà (2018), che è una commedia del 1887 di Edoardo Scarpetta portata alla notorietà dal film con Totò del 1954.
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