I Puritani

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Vincenzo Bellini, I puritani

★★★☆☆

Vienna, 20 marzo 2015

(streaming TV)

«Sala d’arme con logge vaste, ove l’architettura gotica mostra la intera sua pompa.»

Nell’attesa che approdi ad aprile a Torino con la stessa protagonista, vediamo la produzione andata in scena a Vienna.

Tre sedili, alcune teste di statue mozzate per terra e sul fondo i guerrieri di terracotta dell’esercito cinese di Xi’an decapitati: ecco l’enigmatico e minimalista impianto scenografico di Heinz Balthes per il primo atto. Ancora più spoglio il secondo, mentre nel terzo una foresta di lampade pendono dall’alto fino a mezzo metro da terra. Tutti uguali i costumi di José Manuel Vazquez a sottolineare i seriosi puritani.

Nella regia di John Dew non succedono grandi cose (a parte la libertà che si prende, assieme al direttore Armiliato, suppongo, di tagliare la seconda scena e la decima del primo atto, far uccidere Arturo da Riccardo, così che il duetto previsto dal libretto sia cantato solo da Elvira, e far sparire anche il coro finale).

I Puritani non è certo un dramma storico, è piuttosto lo scontro di due concezioni diverse dell’amore e del dovere viste al maschile e al femminile. Gli uomini hanno dalla loro il testosterone che li porta a scannarsi l’un l’altro preferibilmente per motivi religiosi, ma qualunque altra ragione va bene. Anche Riccardo e Arturo se le danno di santa ragione in un duello alla presenza della regina come se questa neanche ci fosse.

Per Elvira l’amore è totalizzante e la prima delusione la porta tout court alla pazzia. Per Arturo prima di tutto viene invece il dovere, quello di mettere in salvo la regina Enrichetta. La reazione esagerata di Elvira si spiega col fatto che lei vive la vicenda non dal punto di visto storico o politico, come fanno invece tutti gli uomini dell’opera, ma da un punto di vista puramente emozionale. Per convincere il pubblico di questo eccesso ci vuole una musica come quella di Bellini e un’interprete a quell’altezza. E qui in Olga Peretjaťko l’abbiamo. Sicura in ogni passaggio, anche il più arduo della sua parte, alla straordinaria presenza scenica unisce colori sempre cangianti vuoi nelle agilità di «Son vergin vezzosa» (ah, il libretto del Pepoli…) vuoi nella scena della pazzia. Una vera lezione di bel canto.

Nel ruolo ingrato di Arturo – che arriva in scena mezz’ora dopo l’inizio, canta la sua temibile aria “A te o cara” e poi sparisce per un’altra ora per rifarsi vivo solo all’ultimo atto e sparare un’altra serie di acuti – c’è il tenore canadese John Tessier, timbro di voce leggera, ma un po’ monotono e di scarsa presenza scenica. Però gli si deve dare atto di aver tentato l’ascesa al fa sopracuto andandoci molto vicino, mentre la maggior parte dei suoi colleghi stanno ben al di sotto – con le lodevoli eccezioni di Gregory Kunde, Lawrence Brownlee, John Osborn (tutti americani…) e Celso Albelo.

Carlos Álvarez è un odioso Riccardo Forth di grande sicurezza vocale e scenica. Sicuro anche se inespressivo il Sir Giorgio di Jongmin Park che scurisce in modo innaturale la voce .

Marco Armiliato dirige con vigore la bella orchestra (magnifici gli ottoni) e accompagna con partecipazione i cantanti.

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