L’anima del filosofo

Frederic Leighton, Orfeo ed Euridice, 1864

Franz Joseph Haydn, L’anima del filosofo ossia Orfeo ed Euridice

direzione di Nikolaus Harnoncourt

regia di Jürgen Flimm

Vienna 1995, Theater an der Wien

Nel 1951 alla Pergola di Firenze veniva rappresentata per la prima volta un’opera di Haydn il cui debutto era previsto a Londra 160 anni prima, il 31 maggio 1791, cinque mesi prima della morte di Mozart. Erich Kleiber sul podio e Maria Callas in scena facevano rivivere questo lavoro con cui doveva essere inaugurato il King’s Theatre che però non ottenne la licenza d’apertura per beghe tra il principe di Galles e il re Giorgio III. Il lavoro fu quindi sospeso e dimenticato non essendo stati pubblicati né libretto né partitura.

Haydn aveva avuto a disposizione un testo di Carlo Francesco Badini dal titolo L’anima del filosofo, riscrittura della storia di Orfeo ed Euridice la cui versione gluckiana (1762) Haydn ben conosceva avendola diretta più volte. Il testo ha poco a che vedere col mito originario e nulla con la versione del Calzabigi: il significato del titolo non si ritrova nel libretto e pone il dubbio che esistesse un quinto atto perduto che gli desse una svolta filosofica. Solo pochi versi sembrano giustificare il titolo, ossia quelli del Genio che suggerisce all’afflitto Orfeo «I gemiti ed i pianti | Non ti ponno giovar. Se trovar brami | Efficace conforto al cor dolente, | Della filosofia cerca il Nepente»: la speculazione concettuale è rimedio al dolore dei sentimenti.

Atto primo. Euridice è promessa sposa ad Arideo per volere del padre, ma ama, ricambiata, il cantore tracio Orfeo. Per sottrarsi alle nozze, fugge nella selva dove incontra alcuni mostri. Orfeo riesce a incantarli con la propria musica e a salvare Euridice e Creonte è così costretto ad accettare l’amore dei due giovani.
Atto secondo. Un guerriero di Arideo tenta di rapire Euridice, che fuggendo viene morsa da un serpente e muore invocando Orfeo. Orfeo intona un lamento, mentre Arideo e Creonte manifestano i loro propositi di vendetta.
Atto terzo. Tutto l’atto è dominato da arie e cori di contenuto morale; un genio inviato dalla Sibilla promette a Orfeo di accompagnarlo negli inferi.
Atto quarto. Negli inferi. Un coro di ombre infelici e di Furie accoglie Orfeo, che chiede a Plutone di oltrepassare la soglia infernale. Appare allora Euridice, ma il coro raccomanda a Orfeo di non voltarsi a guardarla. Questi non riesce a trattenersi e la perde per la seconda volta. Il genio abbandona il suo protetto, che cade nella disperazione. Tornato nel mondo dei vivi, Orfeo incontra un coro di baccanti e, ormai indifferente all’amore e ai piaceri, accetta da loro una coppa di veleno. L’opera si conclude su un coro delle baccanti, che, volendo far vela per l’isola dei piaceri, rischiano di soccombere alla furia di una tempesta.

«Questa curiosa rivisitazione del soggetto di Orfeo ed Euridice mostra molte incongruenze: le più vistose sono l’introduzione dei caratteri secondari di Creonte e Arideo, che non hanno nulla a che vedere con il mito originale, narrato nelle Georgiche di Virgilio e nelle Metamorfosi di Ovidio. Enigmatico è il titolo stesso: L’anima del filosofo. Chi è il filosofo? Orfeo che esercita il dominio sulla natura tramite la forza incantatrice della musica, oppure l’anima del filosofo è Euridice, o, ancora lo stesso Genio che lo conduce agli inferi, come Hermes psicopompo o il Virgilio dantesco? Il senso di queste innovazioni vanno ricondotte sia all’esigenza di introdurre elementi nuovi in un soggetto troppo sfruttato, sia al desiderio di trovare occasioni per arie dottrinarie e sentenziose, consone al gusto filosofico di Badini, il traduttore italiano delle Pensées di Pascal. Anche Haydn sembra evitare analogie con i celeberrimi esempi gluckiani: Orfeo non ha un’aria di fronte alle porte infernali, né Euridice, quando compare per l’ultima volta. I numerosi cori, più spesso a due e talvolta a quattro voci, sono di eccellente fattura (come è da aspettarsi da un consumato autore di musica sacra e dal futuro autore della Creazione e delle Stagioni) e l’aria di Euridice in punto di morte è molto toccante (“Del mio core”). Grande rilievo è dato alla scrittura orchestrale sia nei ritornelli delle arie e dei duetti sia nei recitativi accompagnati che precedono le arie principali, per lo più monostrofiche o bipartite. Inutile cercare tuttavia una coerenza drammaturgica o un piano musicale di grande respiro, paragonabile ai coevi esempi mozartiani; in ambito teatrale Haydn accettò e seguì le convenzioni del genere, ravvivandole talvolta con felici invenzioni e una ricca scrittura musicale con l’attenzione rivolta tuttavia al canto, piuttosto che al dramma». (Michela Garda)

L’ultima opera di Haydn è il suo più ispirato lavoro per il teatro, quello in cui il compositore imbocca una strada innovativa per la vocalità, i valori espressivi e l’efficacia drammaturgica: la scena della morte di Euridice ha una forza che manca nel lavoro di Gluck, così «i campi inferni», la pagina della tempesta al quarto atto e quelle corali ne sono fulgidi esempi.

Nel 1995 Cecilia Bartoli è la protagonista in una registrazione audio dell’Academy of Ancient Music diretta da Christopher Hogwood in cui ricopre anche il ruolo del Genio. Ma pochi mesi prima era stata l’Euridice di una messa in scena di Jürgen Flimm alle Wiener Festwoche con Nikolaus Harnoncourt a capo del Concentus Musicus e dell’Arnold Schönberg Chor. Roberto Saccà era Orfeo, Wolfgang Holzmair Creonte, Eva Mei il Genio e Robert Florianschutz Plutone.

Di quella rappresentazione è disponibile in rete una registrazione della ripresa televisiva che, nonostante la pessima qualità (trasferimento da un vecchio VHS), permette di apprezzare la direzione tesa di Harnoncourt, la geniale regia di Jürgen Flimm, ma soprattutto la performance di una memorabile Cecilia Bartoli su cui Elvio Giudici non lesina le lodi: «bellissimo timbro, emissione da manuale per quanto concerne appoggio, controllo e proiezione del suono, sì da risultarne una linea d’assoluta compattezza e scorrevolezza lungo i diversi registri; […] facilità nel dominare e svolgere la coloratura, che sfiora dappresso il fenomeno vocale. Ma ancora una volta, quanto davvero contraddistingue e rende unica la Bartoli è la capacità di bruciare in espressività ogni prodigio esecutivo, facendolo sparire nel momento stesso in cui ne viene esaltata al massimo la funzione. Il dominio della parola, innanzitutto, origina certo da dizione eccezionale: travalicata però dalla capacità di accentare, colorire, vivificare ogni singola parola in virtù di un’articolazione fonetica in grado di sprigionarne ogni possibilità musicale».

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