★★★★☆
Domingoya
«Un’opera bellissima, se fosse stata scritta nel 1886». Questo uno dei commenti più benevoli della critica quando nel 1986 ebbe il suo debutto a Washington questa che è la terz’ultima delle 26 opere di Giancarlo Menotti, un cospicuo opus che va da Amelia al ballo del 1937 a The Singing Child del 1993.
Cantata in inglese, per la rappresentazione nel 1991 al Festival dei Due Mondi di Spoleto il libretto, dello stesso compositore, fu tradotto in italiano. Ai suoi tempi inattuale quanto mai, con Goya Menotti suggellò il suo gusto personale per un lavoro fatto di grandi melodie, una ricca orchestrazione e un impellente senso drammatico.
Durante una cena con Domingo nel 1977, il compositore racconta che il cantante gli avesse detto: «Giancarlo, perché non scrivi un’opera per me?». Sembra sia stato lo stesso Domingo a suggerirgli il personaggio di Goya. E Menotti accettò: «Era la prima volta che approvavo l’idea di qualcun altro!».
Atto I. Scena prima. Una folla di zingari, mendicanti, prostitute e toreri canta e balla in una taverna nei dintorni di Madrid. Tra quelli che fanno bisboccia, c’è anche il giovane pittore Francisco Goya, appena arrivato dalla campagna nella capitale. Improvvisamente fa il suo ingresso una misteriosa dama velata. Goya, attratto dalla donna, si presenta sfrontatamente come il più grande pittore di Spagna e le chiede di posare per lui. Divertita dall’arroganza giovanile di Goya, la dama accetta. Si presenta come una cameriera del palazzo di Alba e lo invita a dipingere per il pomeriggio successivo. Fuori dalla porta della taverna, Goya contempla con orrore un gruppo di monaci dell’Inquisizione che conduce a processo alcuni accusati di eresia. Scena seconda. Goya viene condotto in un salone del palazzo di Alba, dove attende l’arrivo della sua modella. Le porte della stanza si aprono improvvisamente e fa il suo ingresso quella che il pittore credeva una cameriera, ma che in realtà è la duchessa d’Alba. Doña Cayetana e il suo seguito ridono di gusto per lo scherzo che hanno preparato a Goya che, dopo aver ripreso la sua fiducia in sé stesso, comincia a dipingere dopo essere stato lasciato solo con la dama. Per quanto affascinata dal suo protetto, Doña Cayetana si stanca ben presto di posare e sfida Goya a dipingere esattamente la pelle del suo volto. Un po’ per scherzo e un po’ sul serio, Goya le si avvicina e comincia a carezzare i suoi lineamenti con i pennelli. Quando raggiunge la sua bocca, li fa cadere e la bacia con passione.
Atto II. La regina Maria Luisa è infuriata perché le avventure notturne della duchessa, le sue maniere insolenti e il suo nuovo amante hanno creato scandalo a corte, così chiede al primo ministro Godoy di sbarazzarsi della donna, anche perché vorrebbe Goya tutto per sé. Godoy, che è l’amante della regina, e il futile re Carlo IV cercano di calmarla, avvertendola che Goya le sarà presentato nel ricevimento del giorno. Il pittore, la duchessa e altri ospiti arrivano per l’udienza. Dopo un breve inchino alla regina, la duchessa annuncia l’ingresso delle sue dame di compagnia, che indossano delle copie dell’abito della sovrana appena arrivato da Parigi. Maria Luisa, incapace di trattenere la sua rabbia, deve essere condotta via dai suoi cortigiani, scandalizzati ma anche divertiti. Cayetana esulta, ma Godoy la rimprovera. Anche Goya la prende da parte e la sgrida, ma la duchessa contrattacca, accusando il pittore di essere un opportunista e un codardo, poi gli dice che la loro storia è finita. Goya, solo e costernato, viene avvicinato da Carlo IV, che intende promuoverlo a pittore di corte ma lo avverte che deve troncare la sua relazione con la duchessa. Man mano che il re continua a parlare, Goya comincia a perdere l’udito e poco per volta la stanza diventa silenziosa. Una singola nota, acuta e sonora, perfora le orecchie del pittore che, in preda all’angoscia, grida: «Cayetana, Cayetana, anche la tua voce mi viene tolta!» e crolla in preda alla disperazione.
Atto III. Scena prima. Cayetana, colpita da una malattia misteriosa, sta per morire. Seduta in poltrona con ancora addosso i suoi famosi gioielli, chiede a Martin Zapater di andare a chiamare Goya perché lei gli possa dare il suo anello preferito. La regina viene a visitarla, dicendole che quanto le capita non è altro che una giusta punizione. La duchessa le risponde che sa chi l’ha avvelenata e dichiara che tutta la sua fortuna sarà lasciata ai servitori e al figlio adottivo. Poi muore. La regina sfila dal cadavere la collana di diamanti e l’anello, chiama il suo seguito e dichiara che la defunta glieli ha gentilmente donati. Goya si precipita nella stanza e si accorge che la regina indossa i gioielli di Cayetana. Rimasto solo, non si dà pace per non essere riuscito a salvare la duchessa. Scena seconda. Molti anni dopo, nel suo studio, Goya, cieco e sordo, è alle sue ultime ore. Addormentato malamente su una poltrona, è ossessionato da terribili visioni. Si tormenta per la sua mancanza di coraggio durante la guerra e per il senso di colpa per aver abbandonato la moglie Pepa. Chiede aiuto e Cayetana gli appare. La duchessa gli dice che non deve sentirsi colpevole, perché con i suoi pennelli ha combattuto più valorosamente di un soldato e ha amato più profondamente di ogni altro uomo. È stato più compassionevole di qualunque sacerdote. Perciò merita la pace celeste che la morte ora gli porterà.
Nel 2004 il Theater an der Wien mette in scena l’opera con mezzi di tutto rispetto. Oltre al protagonista destinatario della parte titolare, un Domingo in forma smagliante ma con una dizione estremamente fantasiosa, in scena ci sono interpreti di grande valore: Michelle Breedt è un’intensa Doña Cayetana, Christian Gerhaher è un Martin di lusso, Andrea Conrad e Íride Martinez gli spietati regnanti, Maurizio Muraro l’intrigante Godoy. Emmanuel Villaume dirige la Radio-Symphonieorchester esaltando gli slanci melodici e la ricchezza della partitura che ha richiami ai colori ispanici nei temi e nella strumentazione. L’opera inizia proprio con un flamenco affidato a una cantante e a una chitarra. La messa in scena di Kasper Holten ha momenti di grande efficacia, come la fine del secondo atto con la sordità di Goya nel mel mezzo della festa a corte o quando nel terzo atto si animano i dipinti de “la quinta del sordo”.
Se nel 1986 Goya aveva fatto storcere il naso alle vestali della dodecafonia e dell’atonalità, ora avrebbe vita molto più facile. Un’idea per svecchiare i cartelloni dei teatri lirici italiani.
⸪