Pagliacci

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

★★☆☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 18 gennaio 2011

(registrazione video)

Rompere l’equilibrio tra realtà e finzione

Abbinata tradizionalmente a Cavalleria rusticana, questa produzione scaligera di Pagliacci aveva l’interesse principale nella direzione orchestrale di Daniel Harding, un interprete apprezzato soprattutto nel repertorio sinfonico o al più nel teatro mozartiano. «A differenza della maggior parte degli italiani» scrive il direttore inglese «non sono cresciuto con l’opera. Mi riferisco a quella straordinaria condizione per cui anche persone che non hanno nulla a che fare con il mondo dell’opera, conoscono comunque le parole e le melodie di lavori come Pagliacci. Non facendo parte dell’universo in cui mi sono formato, sono venuto in contatto con la tradizione italiana piuttosto tardi. […] Grazie al cinema mi sono accostato all’opera italiana e al verismo in particolare. Pagliacci è un’opera la cui caratterizzazione è molto chiara e la cui musica è molto affascinante. È un’opera con la quale si entra in sintonia facilmente fin dal primo ascolto. La si comprende all’istante, perché le motivazioni e le emozioni dei protagonisti sono manifestate palesemente grazie alla musica, una musica ricca di humour e di pathos allo stesso tempo, una musica forse, non particolarmente innovativa, che non ha aperto nuove frontiere, ma che è piacevolmente scritta e molto onesta, ed è questo che conta». Della partitura di Leoncavallo Harding fa apprezzare la concitata violenza, molto meno il tono sognante. Manca il tono nostalgico della ballata di Nedda, la quale sembra quasi infastidita dal «volo d’augelli, e quante strida!» e i tempi sono incalzanti mentre lampi di luce illuminano certi interventi strumentali oppure incupiscono il corno che precede «Vesti la giubba». In conclusione, la lettura di Harding non ha aperto spiragli particolari su quello che già si sapeva e non fatto apprezzare maggiormente questo lavoro.

Molto discusso il cast vocale, soprattutto i due interpreti principali. Sulla vocalità del Canio di Josè Cura non sono stati risparmiati i giudizi: «tono becero, volgare, grossolano, lutulento, berciante, disomogeneo, ingolfato, fuori di misura, voce consunta, prestazione imbarazzante, timbro ingolato, intubato, acuti ululati, sforzati, fibrosi, a corto di fiato, fraseggio buttato alle ortiche, dizione arruffata, singhiozzo onnipresente, declamato stentoreo, truculento, prestazione imbarazzante»… Quella che che viene salvata è l’indubbia presenza scenica, ma non basta a salvarlo dai bu del pubblico. Un po’ meno peggio è giudicata la performance di Oksana Dyka, Nedda donna libera e orgogliosa nella lettura del regista, ma di fronte al bel timbro e alla sicura proiezione della voce, gli acuti sono gridati e l’espressione monocorde. Vocalità sicura nella pienezza del timbro e nella sicurezza deli acuti è quella di Ambrogio Maestri, un Tonio che nel corso della rappresentazione diventa però sempre più truce. Elegiaco il Silvio di Mario Cassi ma con qualche sbandata di intonazione e di lusso il Peppe di Celso Albelo, il migliore della serata.

Nella regia di Martone la realtà trabocca oltre il sipario e quasi si annulla la distanza tra la scena e gli spettatori. Il palcoscenico viene stirato fino in platea da dove arrivano i contadini, Canio finisce il suo monologo quasi dentro un palco, Silvio trepida in prima fila e il pubblico della pantomima in scena è un’estensione di quello in platea, con gli stessi abiti eleganti. La scenografia di Sergio Tramonti ambienta la vicenda in una squallida periferia degradata con un lurido camper e un viadotto sotto cui delle prostitute attendono i clienti in macchina. Congrui i costumi di Ursula Patzak, con Canio in doppio petto e gioielli d’oro addosso che gli danno un’aria da pappone mentre Nedda nel teatrino ha un abito bianco il cui strascico ha raccolto il fango e lo sporco dei posti visitati.

Il pubblico reagisce come s’è detto, ma che il loggione abbia a fischiare una regia così tradizionale come questa di Martone sfugge alla umana comprensione.

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