
foto © Luigi de Palma
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Arthur Miller, Il crogiuolo
Regia di Filippo Dini
Torino, Teatro Carignano, 13 ottobre 2022
La stagione dello Stabile di Torino si apre con uno spettacolo coinvolgente
Prodotto dal Teatro di Napoli, dal Teatro Stabile di Bolzano e dal Teatro Stabile di Torino di cui apre la nuova stagione, Il crogiuolo (in originale The Crucible: A Play in Four Acts) è uno dei testi teatrali più significativi del prolifico drammaturgo, saggista e sceneggiatore americano Arthur Miller.
Il titolo originale designa sì il recipiente per la fusione dei metalli, ma per traslato significa anche una situazione di sperimentazione in cui diversi elementi interagiscono per formare qualcosa di nuovo. In maniera simile alla locuzione melting pot definisce il multiculturalismo della società negli Stati Uniti: «America is God’s Crucible, the Great Melting-Pot where alle the races of Europe are melting and re-forming!» (L’America è il crogiolo di Dio, il grande crogiolo in cui tutte le razze d’Europa si fondono e si riformano) veniva entusiasticamente dichiarato nella commedia del 1908 di Israel Zangwill The Melting Pot.
Arthur Miller qui lo usa in termini sarcastici per denunciare le forme di intransigenza e intolleranza a cui è arrivata la società americana del suo tempo durante la fase più acuta del maccartismo, gli anni ’50 del secolo scorso, in cui gruppi e singoli vennero accusati e processati per atteggiamenti ritenuti anti-americani, filo-comunisti e quindi sovversivi. Come molti membri del mondo del cinema, dello spettacolo e dell’arte, anche Miller fu vittima di quello stato di persecuzione e isteria collettiva che fu l’attività della commissione presieduta dal senatore Joseph McCarthy. Una vera “caccia alle streghe”, come venne battezzata per le evidenti analogie con una vicenda del 1692 quando il comportamento disinibito di un gruppo di ragazzine adolescenti del villaggio di Salem nel Massachussets venne visto come possessione demoniaca e scatenò una serie di denunce e processi che condussero al patibolo decine di persone e altre centinaia in prigione con l’accusa di stregoneria. Venivano in tal modo regolate col sangue faide, gelosie e rancori tra vicini in un contesto chiuso, bigotto e dominato dal terrore.
È quindi una metafora di scabrosa attualità quella della pièce che debutta nel gennaio 1953 al Martin Beck Theater di New York con alcune recensioni ostili che però non impediscono a The Crucible di vincere il Tony Award for Best Play pochi mesi dopo. La ripresa l’anno successivo segna il successo duraturo del lavoro che avrà poi due versioni cinematografiche (1957, 1966) e anche una versione operistica (1961). Nel 1955 arriva in italia nella messa in scena e traduzione di Luchino Visconti e nel 1971 è sul piccolo schermo, adattato e diretto da Sandro Bolchi.
Ma anche ai giorni nostri il tema non perde di sconvolgente contemporaneità: vittime sono ancora e sempre le donne nei regimi teocratici, dove dominano l’ottusa intolleranza e la repressione del libero pensiero, mentre nei regimi totalitari gli oppositori vengono ingiustamente denunciati e processati o più semplicemente eliminati, se non con l’impiccagione o il rogo, veleno e “suicidi” dalle finestre sono i metodi più utilizzati. Anche calunnie e delazioni oggi hanno assunto nuova forma: la gogna sui social. Un inquietante risvolto della nostra libertà di espressione.
Il regista Filippo Dini utilizza il testo tradotto da Masolino d’Amico per una drammaturgia di grande impatto nello spettacolo ora al Teatro Carignano e arrivato dopo una lunga gestazione da parte del regista, quasi 17 anni dice lo stesso Dini. Dopo la prima scena in cui viene rappresentato l’ingenuo “sabba” delle ragazze, entra su una carrozzella il vecchio vice governatore Danforth che racconta la vicenda, rivissuta come un flashback da parte del maggior responsabile di quella assurda carneficina. Come in una nuova Spoon River Anthology vengono elencati i nomi e riassunti i ruoli dei personaggi, ora verosimilmente tutti morti. I quattro atti hanno un ritmo teso e incalzante che le musiche esaltano in due momenti di grande impatto quando le note dell’inno americano diventano il grido lancinante della chitarra di Jimi Hendricks o nel finale quando tutti intonano la struggente The House of the Rising Sun, tema folk riscoperto e portato al successo dal gruppo The Animals nel ’64.
Ma non sono gli unici momenti di forte teatralità di uno spettacolo estremamente coinvolgente – una vicina di posto, tutta presa dalla vicenda, “suggeriva” a voce alta le risposte agli attori! – in cui il perverso congegno messo in moto dalla gelosia assassina di Abigail Williams, ragazza sedotta e abbandonata, procede con ritmo implacabile a colpi di calunnie e vendette in un crescendo inarrestabile. Le scene di Nicolas Bovey ricreano l’atmosfera oppressiva e claustrofobica del villaggio: alte strutture dalla superficie scabra ruotano per creare i vari ambienti, pochi ed essenziali sono gli oggetti di scena, di grande impatto visivo è una gigantesca bandiera americana sbiadita. Molto efficace il gioco luci di Pasquale Mari, mentre Alessio Rosati declina in tutte le sfumature di grigio i severi costumi dei personaggi.
Lo spettacolo è magistralmente recitato dallo stesso Filippo Dini che delinea con entusiastica adesione la parte di John Proctor, l’«uomo buono», che invischiato nella vicenda preferisce salire al patibolo piuttosto che rinunciare a quel briciolo di onesta umanità che lo ha fatto vivere fino a quel momento. Ma tutto il resto del cast è da citare, ogni parte essendo realizzata con appassionata partecipazione. E allora, come indicato sulla locandina e sul programma di sala, eccone l’elenco in ordine alfabetico e senza i ruoli assegnati: Virginia Campolucci, Gloria Carovana, Pierluigi Corallo, Gennaro Di Biase, Andrea Di Casa, Didì Garbaccio Bogin, Paolo Giangrasso, Fatou Malsert, Manuela Mandracchia, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Valentina Spaletta Tavella, Caterina Tieghi, Aleph Viola, quest’ultimo anche autore delle musiche suonate dal vivo.
Il pubblico ha risposto con lunghi ed entusiastici applausi e con una standing ovation piuttosto inusuale per i torinesi. Migliore avvio di una stagione che si prospetta di grande interesse non si poteva dare. Uno spettacolo che ci pone molte domande. Non è da perdere: c’è tempo fino al 23 ottobre.
⸪