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Ludwig van Beethoven, Sinfonia n° 9 in re minore op. 125
I. Allegro non troppo, un poco maestoso
II. Molto vivace – Presto
III. Adagio molto cantabile – Andante moderato
IV. Finale presto – Allegro assai
Ion Marin direttore, Uliana Alexyuk soprano, Valentin Stadler mezzosoprano, Nicky Spence tenore, Tómas Tómasson basso
Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 23 dicembre 2022
Natale con Beethoven, ma senza Luisi
Con l’inno alla Dea Gioia, Friedrich Schiller conclude nel 1785 il suo periodo stürmeriano: «Nell’inno An die Freude gli elementi lirici conquistati al prezzo di sì lungo travaglio, ubbidirono finalmente alla fantasia e si disposero in una vasta ed ardita fuga, ordinata pur nel tumultuante incalzare di motivi sempre più ampi e vigorosi» (Ladislao Mittner). Espressione possente e compiuta della lirica schilleriana, in origine doveva avere come titolo An die Freiheit (Freude=gioia, Freiheit=libertà). L’ode venne scelta dal compositore di Bonn per il finale della sua nona e ultima sinfonia, la cui scrittura prese molto tempo: dall’originario progetto risalente al 1816 la composizione continuò fino alla prima esecuzione nel maggio 1824. Un lungo periodo caratterizzato da innumerevoli ripensamenti sulla volontà di dar voce all’ode schilleriana: Beethoven era conscio di trovarsi a un passo molto rischioso anche se l’utilizzo di un brano corale in una composizione strumentale non era una grande novità all’epoca e il compositore stesso ne aveva già fatto prova con la Fantasia Corale op. 80 per pianoforte, coro e orchestra, un singolare lavoro, formalmente un tema con variazioni, con un crescendo strumentale, dal pianoforte solo all’orchestra al coro, e armonico, dal do minore al Do maggiore, terminante con un testo di Kuffner su un motivo musicale che ricorda quello della futura Nona. Nell’ode di Schiller si può intravedere una forma musicale che poi Beethoven saprà genialmente esaltare: un vigoroso crescendo che dal pianissimo iniziale della prima strofa, «Freude schöner Götterfunken, | Tochter aus Elysium» (Gioia, bella scintilla divina, figlia dell’Elisio»), porta alle vertigini ondeggianti tra terra e cielo nelle risposte tra poeta e coro, con il Creatore che si manifesta con sempre più luminosa evidenza. In questa gioia illuministica l’abbraccio di fratellanza e il bacio cosmico cancellano ogni differenza rigidamente stabilita dalla “moda”, la convenzione sociale: «Seid umschlungen Millionen! | Diesen Kuß der ganzen Welt!» (Abbracciatevi moltitudini! Questo bacio al mondo intero!).
Oltre che con i contenuti, Beethoven sperimenta anche con la forma in questo suo lavoro sinfonico. Nel primo movimento un semplice accordo armonicamente incerto precede il tema che rappresenta la forza soprannaturale che porta ordine nel caos primordiale. Dopo un primo tempo vasto e complesso, contrariamente alla consuetudine che prevedeva un tempo lento, viene invece anticipato lo Scherzo, movimento dalla vivace forza ritmica. Solo con il terzo tempo inizia l’ascesa: un sublime adagio con variazioni, nella estatica contemplazione della bellezza. E infine il quarto movimento: dopo un riepilogo dei temi dei primi tre movimenti, un vigoroso recitativo degli archi gravi introduce la voce umana, prima il baritono, che interviene a chiedere ordine nel caos strumentale, e poi il coro che, sul famoso tema ascendente, intona l’ode schilleriana adattata da Bethoven per la sua sinfonia.
Forse non il programma più adatto per un “concerto di Natale”– da quanto tempo non si ascolta a Torino un oratorio händeliano o bachiano? – comunque grande era l’attesa per questo concerto offerto fuori abbonamento dalla Stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI e con la prevista direzione di Fabio Luisi, ma il suo direttore emerito, indisposto, non ha potuto essere presente. Grande riconoscenza va dunque al maestro che l’ha sostituito con così poco preavviso, ma è comprensibile anche che a causa del breve tempo a disposizione sia potuta venire a mancare quella sintonia tra direttore, orchestra, solisti e coro che richiede una pagina come questa. Ed è quello che è avvenuto appunto l’altra sera con il maestro Ion Marin, rumeno di elegante presenza: fin dalle prime note, dove gli attacchi strumentali non si sono distinti per particolare pulizia e dove il livello sonoro sembrava coprire un fraseggio poco curato, si è compreso che tra la nostra orchestra e il direttore arrivato pochi giorni prima non è scoccata la scintilla e i pur pregevoli interventi solistici degli strumentisti sono annegati in un denso strato sonoro a cui sembravano indirizzate la parole del basso «O Freunde, nicht diese Töne» (Amici, non questi suoni). La mancanza di trasparenza e leggerezza si è fatta evidente nel terzo movimento, mentre il vivace-presto del secondo movimento non si è particolarmente distinto per colore dal primo movimento. Neanche il finale si è riscattato da una lettura piuttosto pesante, con un coro, quello eccellente del Teatro Regio, eccessivamente fragoroso e con solisti che messi alla prova dalla impervia scrittura vocale di Beethoven non sembrano aver dato il meglio di loro stessi. Sono il soprano ucraino Uliana Alexyuk, il mezzosoprano tedesco Valentina Stadler, il tenore scozzese Nicky Spence (che ricordiamo quale splendido Laca nella Jenůfa del Covent Garden dello scorso anno) e il basso islandese Tómas Tómasson.
Auditorium gremito con molti giovani ai quali è da attribuire l’entusiasmo degli applausi. L’atmosfera non era però del tutto festosa e aggravata dalla totale mancanza di decorazione della sala già intristita dalla eliminazione di sei file di platea e dalla presenza di un palcoscenico aggiunto che aumenta la distanza dal pubblico. Essendo il concerto ripreso per la televisione, possibile che nessuno abbia chiesto a un fiorista della città di decorare in qualche maniera il palco? E non mi si dica trattarsi di costi, perché chiunque l’avrebbe fatto gratuitamente in cambio di una menzione sul programma.
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