foto © Lorenzo Gorini
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Claudio Monteverdi, Il ritorno d’Ulisse in patria
Cremona, Teatro Ponchielli, 13 giugno 2025
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Cremona, Teatro Ponchielli, 13 giugno 2025
La terra trema a Itaca
Il ritorno di Ulisse in patria, capolavoro estremo del compositore cremonese, a Cremona ha la firma di Davide Livermore che ambienta l’opera in un dopoguerra neorealista di struggente attesa. Eccellenti Borgioni e Sala, diretti da Michele Pasotti con rigore e creatività, alla guida de La Fonte Musica. Esecuzione filologica e intensa, accolta con entusiasmo dal pubblico del Festival.
Il Monteverdi Festival inaugura la sua 42esima edizione col capolavoro del vecchio Monteverdi, che all’età di 73 anni mette in musica il libretto del nobile Giacomo Badoaro Il ritorno di Ulisse in patria, tratto dai canti XIII-XXIV del secondo poema omerico.
Nel 1640 da tre anni a Venezia ero attivo il primo teatro pubblico, il San Cassiano, con cui veniva rivoluzionata la fruizione dell’opera in musica, non più riservata a una corte principesca, ma aperta a un pubblico pagante. Mentre il nuovo teatro di San Moisé si apriva con la ripresa della sua Arianna, in quello di San Giovanni e Paolo, inaugurato un anno prima, si dava la nuova opera del venerato Maestro di cappella di San Marco. Dopo il successo iniziale Il ritorno di Ulisse in patria fu rappresentato a Bologna prima di tornare a Venezia al San Cassiano l’anno successivo, dopodiché, ad eccezione di una possibile rappresentazione alla corte imperiale di Vienna alla fine del XVII secolo, non ci furono altre riprese fino in epoca moderna grazie alla scoperta di una partitura manoscritta incompleta nel 1922 la cui autenticità al tempo fu però messa in dubbio, ma in seguito generalmente accettata come autentica di Monteverdi.
Dopo le riprese di Vienna (1971, Nikolaus Harnoncourt) e Glyndebourne (1972, Raymond Leppard) basate sulla prassi esecutiva storicamente informata, si ebbe la produzione salisburghese del 1985 con la trascrizione per orchestra moderna di Hans Werner Henze. Col tempoIl ritorno di Ulisse in patria è diventata sempre più popolare con pregevoli esecuzioni come quelle recentissime di Ottavio Dantone (Firenze, 2021, con la regia di Carsen) e Fabio Biondi (Ginevra, 2023). Delle tre opere del compositore cremonese rimaste è quella più struggente ed è considerata la prima opera moderna, per il suo utilizzo di stili musicali diversi – ariosi, duetti, pezzi di assieme oltre ovviamente ai recitativi – con cui Monteverdi esprime, attraverso la musica, i sentimenti e le emozioni di una vasta gamma di personaggi divini e umani.
La sua modernità è esaltata dal regista Davide Livermore che ambienta la vicenda mitologica su un’isola del Mediterraneo del secondo dopoguerra, «un’Itaca sospesa nel dopoguerra, intrisa del profumo del mare e del ricordo di un mondo antico. Una realtà livida e polverosa che sembra uscita dal cinema neorealista di Rossellini e Visconti» scrive nelle note di regia Livermore. Ed è infatti a Stromboli o a La terra trema, ma anche a Mediterraneo di Salvatores, che si pensa vedendo la scenografia di Eleonora Peronetti e i costumi di Anna Verde che costruiscono un mondo in cui «il tempo si fa attesa ritmata dalla risacca del mare e dal vento e scandisce la ripetizione di gesti, lo scorrere lento della quotidianità» e dove «l’isola è una crasi geografica di memorie mediterranee». Le luci di Antonio Castro e soprattutto le proiezioni della D-WOK, quanto mai giuste ed essenziali in questo spettacolo, forniscono il supporto visivo alla definizione di un lembo di terra in attesa di un futuro che si spera migliore. Cinematografico non è solo il taglio visivo, cinematografica è anche la sciolta recitazione dei cantanti/attori, tale da rendere moderna sceneggiatura l’austero testo del Badoaro. Il tutto grazie a un cast di eccellenze che vede nei due protagonisti principali le memorabili interpretazioni di Mauro Borgioni e Margherita Maria Sala. Il primo, esperto indiscusso di questo repertorio, delinea un Ulisse di grande autorità vocale, splendida dizione e fraseggio scultoreo, unitamente a elegante presenza scenica. La seconda, Penelope, è una meraviglia di intenzioni espressive, sontuosità vocale, timbro risonante e caldo. Con il braccio al collo per un infortunio durante la prova generale, ha stoicamente portato a termine la sua performance senza che neanche un momento denunciasse l’accaduto. Una encomiabile prova di professionalità. Uno dei pochi cantanti non di lingua italiana è Jacob Lawrence, che oltre alla perfetta pronuncia ha esibito sicurezza ed efficace presenza scenica nel suo Telemaco in pantaloni corti e ricci fulvi. Pieno di tenerezza il bellissimo duetto col padre, una pagina memorabile che qui chiude la prima delle due parti in cui sono stati divisi i cinque atti del libretto.
Bene i due innamorati Eurimaco e Melanto, affidati ad Alberto Allegrezza e al soprano bulgaro Alena Dantcheva, mentre l’affascinante Chiara Brunello qui diventa con grande bravura la vecchia Ericlea. Completano i personaggi umani il convincente Eumete di Francisco Fernández-Rueda, Pisandro (Arnaud Gluck, controtenore dalla voce non molto sonora), Anfinomo (il tenore Roberto Rilievi) e Antinoo (l’ottimo basso Matteo Bellotto), i tre Proci che Livermore fa diventare guappi arroganti. Tra le dèe abbiamo le lussuose presenze di Giulia Bolcato (Amore e Giunone), Cristina Fanelli (Fortuna) e soprattutto la Minerva trasformista di Arianna Vendittelli a cui Monteverdi affida la parte vocalmente più impegnativa. Gli dèi maschili hanno la voce eccezionalmente ampia e variegata di Luigi De Donato, sarcastico Tempo ed elegantissimo Nettuno, e di Valentino Buzza, come al solito vocalmente manierato ma qui più accettabile trattandosi del nume dei numi, Giove. Ancora due gli interpreti da citare: nel prologo Monteverdi e Badoaro ci mostrano la Humana Fragilità che il regista vede nella nudità violata di una donna, qui la brava Chiara Osella, mentre come sodale e parassita dei Proci introduce il personaggio dell’ingordo e materiale Iro che Livermore ha tenuto per sé. Ricordandosi infatti del suo passato di tenore e del suo debutto proprio qui a Cremona nel 1992, dopo 33 anni ritorna come regista e come cantante caricando il suo grottesco personaggio di tutta l’intelligenza teatrale accumulata in questi anni e vantando una solida prestanza vocale. Una partecipazione la sua con cui ha voluto dimostrare riconoscenza ai suoi maestri di allora, in primis a Carlo Maier che presiedeva la giuria del concorso per vocalità monteverdiana, e un tributo all’amata figura del Divino Claudio. (1)
Abbiamo tenuto per ultima l’esecuzione musicale, ma solo perché è l’elemento più rilevante: l’esecuzione musicale di Monteverdi, e di quest’opera in particolare, è molto di più che una semplice lettura, è la ricreazione di una partitura di cui ci rimane poco più che una traccia stenografica da interpretare, completare e realizzare negli strumenti e nel basso continuo. Michele Pasotti è un liutista di grande esperienza – insegna al Conservatorio Reale di Bruxelles e al Maderna di Cesena – e ha fondato nel 2006 La Fonte Musica, un ensemble di musica antica specializzato nell’esecuzione di musiche dal 14° al 17° secolo e vincitore del premio Abbiati della critica musicale italiana come miglior ensemble nel 2022. Pasotti è nella buca dell’orchestra del Teatro Ponchielli per ridare vita a questo capolavoro di quasi quattro secoli fa con rigore filologico ma anche con qualche opportuna libertà. È una sua scelta infatti l’aver fatto finire l’opera, dopo il duetto dei coniugi finalmente riuniti, con un coro presente solo nel libretto, dove gli abitanti di Itaca cantano la morale della vicenda, la lotta tra il destino e l’uomo armato di virtù, saggezza e forza. La parte musicale non è presente nei manoscritti e la necessità di dare coerenza all’intento celebrativo della città di Venezia, elemento chiaramente presente ne Il ritorno di Ulisse in patria, ha portato il direttore a utilizzare la musica del mottetto “Exultent cæli” dalla Quarta raccolta de’ sacri canti pubblicata da Monteverdi nel 1629. Un altro inserimento è il “Ballo greco” della sesta scena del II atto composto da Pasotti stesso utilizzando musiche di Monteverdi (un’“Entrata” dall’VIII Libro dei madrigali) e un ballo del coevo cittadino cremonese Tarquinio Merula. Libertà più che accettabili nel caso di lavori di quest’epoca e quando avvengono da un esperto come il Maestro Pasotti e dal suo ensemble dal suono ricco e pieno malgrado il limitato numero di strumenti.
Il risultato è l’entusiasmo del pubblico che non ha esaurito tutti i posti del teatro, ma non ha lesinato sugli applausi accomunando artefici della parte visiva e di quella musicale nel suo gradimento. Oggi, ahimè, la seconda e ultima replica di uno spettacolo che si vorrebbe poter vedere altrove.
(1) Così è definito da Gabriele D’Annunzio nel suo romanzo Il fuoco:
— Bisogna glorificare il più grande degli innovatori, che la passione e la morte consacrarono veneziano, colui che ha il sepolcro nella chiesa dei Frari, degno d’un pellegrinaggio: il divino Claudio Monteverde [sic].
— Ecco un’anima eroica, di pura essenza italiana! — assentì Daniele Glàuro con reverenza.
— Egli compì l’opera sua nella tempesta, amando, soffrendo, combattendo, solo con la sua fede, con la sua passione e col suo genio — disse la Foscarina lentamente, come assorta nella visione di quella vita dolorosa e coraggiosa che aveva nutrito del più caldo suo sangue le creature della sua arte. — Parlateci di lui, Èffrena.
Diciamo comunque che qui il Vate è prodigo nell’utilizzo dell’attributo: «il mio amore ti farà divino […] la custodia di un divino dono […] un mistero era sopravvenuto, quasi divino […] la Ca’ d’Oro, divino gioco della pietra e dell’aria […] una celebrazione di ciò che è divino […] latte divino […] cielo divino […] quel che v’è di divino in un gran fiume […] compenso divino […] testo divino […] segreto divino […] brivido fulmineo e divino […] divino privilegio […] divino autunno d’arte […] il divino bestiame zodiacale […] Coro divino […] divino dolore di Arianna […] divino pianto della Minoide […] divino delirio…»!
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