Claus H. Henneberg

Lear

Aribert Reimann, Lear

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 30 maggio 2021

(diretta streaming)

Lear ritorna Monaco e inizia con una risata

Torna a Monaco, dove era nato 43 anni fa il Lear di Aribert Reimann. Un’occasione per verificare se musicalmente è ancora valido. La direzione di Jukka-Pekka Sarastre tende a confermare l’impressione ricevuta allora: la partitura è di una violenza parossistica, scioccante come l’azione. Non si esce indenni da questa musica, che ti blocca come una camicia di forza. Nessuna distrazione è possibile per lo spettatore, che rimane soggiogato dall’opulenta orchestrazione che raggiunge il culmine nella scena della tempesta, dove le percussioni ricreano in buca e fuori scena lo scatenarsi degli elementi della natura e dei sentimenti dei personaggi.

Sotto la guida del direttore finlandese la Bayerische Staatsorchester supera a pieni voti la sfida e i solisti si confermano le eccellenze che conoscevamo. Christian Gerhaher, che debutta nella parte creata per Dietrich Fischer-Dieskau nel ’78, domina in assoluto, delineando la parabola del personaggio con grande intensità. Non sono lontani gli accenti del suo Wozzeck qui a Monaco nella sua lucida discesa nella follia: il canto diventa con naturalezza un quasi parlato e viceversa, a partire dall’ironico «To be or not to be» che Gerhaher profferisce a bassa voce appena arrivato in scena e che strappa una risatina a più di uno spettatore. Tutta la sua performance è giocata su un magistrale equilibrio tra i toni della tragedia e quelli di un nero umorismo, tra tensione e rilassatezza nella voce, fino al «Weint! Weint!» dello struggente finale. Non è da meno Andrew Watts, già presente nella produzione amburghese, che naviga abilmente tra le vocalità, tenorile e sopranista, per costruire il personaggio di Edgar. Brenden Gunnell fornisce empatica umanità al personaggio di Kent mentre Georg Nigl delinea con efficacia Gloster, l’altro padre cieco nei confronti dei figli e a sua volta accecato. Differenti le vocalità delle tre figlie di Lear: dolorosamente lirica la Cordelia di Hanna-Elisabeth Müller; Aušrinė Stundytė presta invece la sua tecnica magistrale per esprimere la gelida crudeltà di Regan; i mezzi vocali un po’ usurati di Angela Denoke sono al servizio di una Goneril perfidamente calcolatrice. Matthias Klink si contorce espressionisticamente come Edmund e nel breve intervento del re di Francia si spreca il talento di un Edwin Crossley-Mercer, irriconoscibile sotto il parrucchino. Spesso affacendato in scena è Dean Power, il servo qui inserviente del museo. I due inetti mariti delle figlie sono affidati a Ivan Ludlow (Albany) e Jamez McCorkle (Cornwall). Il personaggio del folle che commenta con distacco ironico gli avvenimenti ha la voce e la figura dell’attore Graham Valentine.

Christoph Marthaler decostruisce Lear riducendolo ai suoi elementi e rinunciando a seguire la musica: nelle note di regia dichiara programmaticamente di non voler “doppiare” la musica o il testo, ma di voler offrire al contrario una visione alternativa, un nuovo commento alla vicenda. Nella sua lettura il personaggio centrale è il Folle, Lear è privo delle sue insegne regali e la sua unica occupazione è quella della collezione di coleotteri custoditi in una teca di un moderno museo di scienze naturale dall’architettura ispirata a quello di Basilea. Nelle altre teche, oltre ad animali impagliati vi sono anche esemplari appartenenti alla specie umana: è «l’isolamento dell’uomo in una solitudine totale, esposto alla brutalità e al carattere discutibile della vita», afferma il regista, e come gli insetti sono infilzati sul loro spillo, così i personaggi sono confinati e imprigionati nelle teche di cristallo di una sala di esposizione museale che un inserviente fa visitare a dei turisti all’inizio dello spettacolo e alla sua conclusione. Nella scenografia di Anna Viebrock in fondo è la porta di ingresso, a sinistra un ascensore porta a un balcone al primo piano, il soffitto è a lucernari che spargono una luce diffusa. Come reperti inanimati i personaggi vengono spesso trasportati su carrelli mossi dall’inserviente, si immobilizzano in pose di statue di cera, vengono assicurati al muro da una cinghia di contenzione o prendono posto docilmente in casse di legno da trasloco opportunamente sagomate. Le metafore già presenti nel lavoro di Shakespeare vengono esplicitate con regolarità fino alla pietrificazione dei personaggi, corrispondente all’ecatombe finale in cui quasi tutti muoiono. Numerosi sono i tocchi di gelido umorismo, come quando sui carrelli prendono posto prima delle armature (i cavalieri al seguito del re) e poi un crescente numero di casse di birra (le libagioni lamentate da Goneril). I costumi di Dorotothée Curio rimandano agli anni ’60 con le loro esagerazioni: giacche sovradimensionate per gli uomini, tailleurs pastello per le donne. Altrettanto connotati sono acconciature e trucco.

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Tre sorelle

Péter Eötvös, Tre sorelle

direzione di Kent Nagano e Péter Eötvös

regia di Ushio Amagatsu

novembre 2001, Théâtre du Châtelet, Parigi

Con i suoi allestimenti in quasi trenta città europee da quando è stata presentata a Lione nel marzo del 1998, Tre sorelle (Три сестры, Tri sestry) di Péter Eötvös è una delle opere contemporanee più eseguite, tanto da far quasi parte del repertorio lirico. Certo non in Italia, dove non è mai stata messa in scena nessuna sua opera. (1)

I quattro atti della pièce di Anton Čechov sono alla base del libretto, inizialmente scritto in tedesco e poi in russo dal compositore stesso assieme a Claus H. Henneberg. Il testo è suddiviso in un prologo e tre “sequenze” in cui tre personaggi (Irina, Andrej, Maša) a turno rivedono le medesime vicende. Tre sorelle è la prima opera “lunga” di Eötvös, che prima aveva scritto per le scene solo due brevi opere da camera.

Prologo. Le tre sorelle, Ol’ga, Maša e Irina, cantano le loro sofferenze «che si trasformeranno in gioia per coloro che verranno dopo di noi».
Prima sequenza: Irina. Ol’ga incoraggia Irina a sposare il barone Tuzenbach. Nataša, che è sposata con il loro fratello Andrèj, attraverso la scena con una candela in mano. I soldati, che hanno appena spento un incendio in città, irrompono nella stanza e Čebutykin, ubriaco, distrugge l’orologio di famiglia. Maša e il comandante Veršinin scambiano alcune parole d’intesa. Un altro degli ufficiali, Solënyj, litiga prima con il dottore, poi con Andrei mentre Tuzenbach e Solënyj colmano Irina delle loro attenzioni. Nataša si impone su Irina per permettere al figlio di usare la sua stanza. I soldati annunciano la loro partenza per la Polonia e Irina accetta di sposare Tuzenbach e di andare a Mosca con lui appena prima di scoprire che è stato ucciso in duello da Solënyj.
Seconda sequenza: Andrèj. Ol’ga, Irina e Maša si rammaricano della mancanza di ambizione del loro fratello. Nataša attraversa la scena con una candela in mano. Andrèj difende la moglie contro le accuse delle sue sorelle. Nataša vuole liberarsi della loro vecchia domestica Anfisa e lo racconta a Ol’ga. Il dottore ubriaco rompe l’orologio della madre. Gli ufficiali arrivano per riferire sull’incendio e la conversazione si trasforma in chiacchiere inutili. Andrèj è rimasto solo con il medico, che gli consiglia di abbandonare tutto e partire. Andrèj deplora l’inerzia della sua vita presente, poi esce con il dottore, mentre Nataša sguscia via per unirsi al suo amante, Protopopov.
Terza sequenza: Maša. È l’onomastico di Irina, la famiglia prende il tè e Tuzenbach annuncia la visita del nuovo comandante della brigata, il tenente colonnello Veršinin. Veršinin ricorda il padre delle sorelle, il colonnello Prozorov, che conobbe a Mosca. Maša accetta riluttante di accompagnare suo marito Kulygin a cena quella sera con il direttore della scuola dove insegna. Maša e Veršinin si innamorano, ma ognuno di loro è già sposato e Maša ammette il suo colpevole amore a Ol’ga. Veršinin annuncia la partenza del reggimento e saluta Maša. Le sorelle e suo marito Kulygin tentano di consolarla.

Come direttore dell’Ensemble InterContemporain dal 1979 al 1991, Eötvös è stato esposto ai più differenti stili, come dimostra la varietà di timbri e mondi sonori della sua musica. Tecniche come gli sforzando sugli archi coesistono con melodiche canzoni folk e suoni sintetizzati. Lo stesso compositore fornisce istruzioni dettagliate su come mixare gli strumenti per la manipolazione elettronica o l’amplificazione. Le sue prime composizioni su larga scala furono per il cinema e ciò si ritrova nei momenti di atmosferica ariosità di certi suoi pezzi.

Nel novembre 2001 lo spettacolo di Lione approda allo Châtelet di Parigi con quasi tutti gli stessi interpreti, fa eccezione quello di Maša, qui Bejun Mehta. Le tre sorelle, infatti, hanno le voci di tre controtenori e anche gli altri personaggi femminili sono cantati da interpreti maschili, così come avviene nel teatro classico in Giappone da cui proviene il regista Ushio Amagatsu, con le studiate movenze prese dal teatro kabuki. Anche la vocalità, con i salti di registro, i tipici glissandi, l’uso del falsetto, ricorda la musica di quel lontano paese. Kent Nagano e lo stesso Péter Eötvös si occupano dei suoni di una doppia orchestra che, assieme alle immagini, creano uno spettacolo di eccezionale rilevanza e mirabilmente ripreso da Don Kent.

Ecco quello che scriveva nel 2002, sul Giornale della Musica, Gianluigi Mattietti a proposito della ripresa alla Monnaie: «Quando nel 1998 ho assistito alla prima di Tri sestry a Lione, ho subito avuto l’impressione di essere di fronte a un autentico capolavoro. […] La partitura si presenta come un grande madrigale a 13 voci, tutte maschili (con una trama vocale compatta che si estende su tutte le tessiture: dal basso profondo della balia Anfisa, altro ruolo en travesti, alle sorelle-controtenori, e della cognata) accompagnato da una doppia orchestra: un piccolo ensemble nella fossa e un vero e proprio organico orchestrale collocato dietro il fondale che aveva una doppia funzione: quella di diversificare i colori strumentali, e quella di ampliare lo spazio acustico creando spesso un secondo piano (associato ad esempio ai momenti nei quali l’azione passa dall’interno all’esterno) e una dimensione stereofonica (“è un po’ l’effetto del dolby surround trasportato nell’opera!”). Eötvös ha creato una perfetta geometria di emozioni, basata su sapienti alchimie timbriche, ricorrendo anche a strumenti come il pianoforte elettrico, il campionatore, la fisarmonica (i suoi clusters assomigliavano alle armonie di uno sho giapponese). Ma lo spettacolo non avrebbe avuto lo stesso impatto emotivo senza il tratto, insieme essenziale e sofisticato, della regia di Ushio Amagastu, delle scene di Natsuyuki Nakanishi, dei bei costumi di Sayoko Yamaguchi. Un Čechov alla giapponese (commistione non casuale, ma già immaginata dal compositore, che era stato molto suggestionato dalle coreografie di Amagatsu e dalla sua compagnia Sankaï Juku), in uno spazio scenico spoglio, minimalista, punteggiato da elementi simbolici, delimitato da grandi pannelli bianchi, simili a paraventi giapponesi, traforati da costellazioni di punti che parevano disegnare segreti percorsi, paesaggi immaginari. Cast impeccabile, nel quale si è ammirata la bravura del sopranista ucraino Oleg Riabets (Irina), dotato di una strabiliante duttilità vocale, la verve di Gary Boyce (Nataša) vera esplosione di energia vocale e teatrale, il fraseggio espressivo e dolente di Lawrence Zazzo (Maša [a Bruxelles]), il bel timbro e l’intenso lirismo di Albert Schagidullin (Andrèj). Alla fine interpreti e compositore sono stati sommersi dagli applausi. Quando sarà normale anche in Italia applaudire in un teatro d’opera un capolavoro come questo?». Parole totalmente condivisibili.

(1) Nel novembre 2016 all’Auditorium Parco della Musica di Roma è stata eseguita in forma concertistica Senza sangue, opera tratta dall’omonimo romanzo di Alessandro Baricco. È ancora più recente il suo Alle vittime senza nome, brano dedicato ai migranti morti, commissionato dalle quattro principali orchestre italiane tra cui l’OSN RAI che l’ha suonato l’8 marzo 2018 a Torino.

 

Lear

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★★★★☆

Il Lear espressionista di Reimann

Si capisce come il King Lear di Shakespeare affascinasse Giuseppe Verdi: non una, ma ben due vicende paterne! Due padri diversi che con i figli si dimostrano folli e ciechi: Lear con la follia e Gloucester con la cecità pagheranno cara la loro stoltezza.

Peppino non riuscì mai a concretizzare il suo progetto scespiriano e così per quattrocento anni il dramma del vecchio re non ha avuto altra voce che quella del bardo. C’è voluta forse l’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale per dare il coraggio a Reimann, classe 1936, per mettere in musica il lavoro. (1)

Sulla figura di Lear rileggiamo quanto aveva scritto Mario Praz: «In un mondo rappresentato a tinte fosche, in preda all’ambizione, all’egoismo, al tradimento, Lear ci appare dapprima uomo tra gli uomini, anch’egli egoista, autoritario e prepotente: egli si crede il centro dell’universo e progetta la divisione del regno come un esperimento per provare che, anche spogliato del potere e degli attributi regali, egli rimane quale è stato sempre. Ma appena gli cade dalle spalle il mantello regale, gli cadono pure le bende dagli occhi e per la prima volta in vita sua si rende conto della realtà. La sua concezione soggettiva della vita gli crolla intorno e la catastrofe interiore trova rispondenza nella tempesta. Per Lear la sventura è via a un’umanità più profonda: tradito da coloro che credeva più vicini al suo cuore, ridotto all’indigenza, Lear scorge infine che pietosa creatura sia l’uomo; e via via che il dolore porta luce nel suo animo e confusione nella sua mente, egli acquista la maestà che non possedeva quand’era circondato di tutte le prerogative reali. Tra la furia scatenata degli elementi, il desolato vecchio anziché diminuire di statura giganteggia come un titano martoriato».

Il ruolo titolare è stato scritto specificamente per Dietrich Fischer-Dieskau che aveva suggerito il soggetto ad Aribert Reimann fin dal 1968, ma solo la commissione da parte dell’Opera di Stato Bavarese aveva messo in moto il compositore. Il 9 luglio 1978 debuttava dunque a Monaco di Baviera questa sua terza opera – dopo Ein Traumspiel (1964, da Il sogno di Strindberg) e Melusine (1970, da Yvan Goll) – con Gerd Albrecht sul podio, la messa in scena di Pierre Ponnelle e ovviamente il grande baritono tedesco nel ruolo principale. Da allora il lavoro di Reimann è stato allestito altre 25 volte nel mondo e questa produzione del 2012 della Staatsoper di Amburgo, di cui viene qui registrata la ripresa due anni dopo, conferma la relativa popolarità di quest’opera contemporanea.

Il librettista Claus H. Henneberg si basa fedelmente sul testo della tragedia di Shakespeare condensata in due parti, di quattro e sette scene rispettivamente. Il testo in tedesco non ci fa mancare i momenti più truculenti della vicenda aggiungendone addirittura altri, come quando Regan cava il secondo occhio a Gloucester dopo che il primo gli era stato strappato da Edmund.

Parte prima. Re Lear vuole ritirarsi dagli affari del governo e dividere l’impero tra le sue figlie Goneril, Regan e Cordelia. Tuttavia, In un eccesso di vanità senile, il re propone che ogni figlia riceva territori in proporzione all’amore verso il padre dimostrato con le parole. Mentre le due figlie maggiori rispondono eloquentemente a questa richiesta, la figlia più giovane, Cordelia, si rifiuta di gareggiare con l’adulazione delle sorelle maggiori e Lear, offeso, divide la quota del regno che le spetterebbe fra le altre due sorelle e la manda in esilio. Cornelia lascia l’Inghilterra come moglie del re di Francia, il quale apprezza la sua sincerità e nello stesso tempo vede un possibile movente per una conquista dell’Inghilterra. L’eredità va dunque a Goneril e Regan. Il conte di Kent, che ha preso le difese di Cordelia è messo anche lui al bando. Edmund, il figlio illegittimo del conte Gloster, riesce a convincere il padre a cacciare il figlio legittimo Edgar con un intrigo epistolare. Edgar fugge nella brughiera. Invece di lasciare che Lear trascorra la sua pensione in pace, Goneril e Regan chiedono al padre di liberarsi dei suoi cavalieri. Lear rifiuta e viene cacciato. Accompagnato solo da Kent, ritornato travestito da servo per proteggere il re al quale è restato fedele, e dal folle, Lear vaga nella brughiera tempestosa in preda a una progressiva follia. Lì incontra Edgar, che si finge il “povero Tom” e che ha seguito Lear nella landa e lo porta a Dover.
Parte seconda. Poiché Gloster è ancora al fianco di Lear, Regan e suo marito Cornwall gli strappano gli occhi. Goneril fa di Edmund il suo comandante e amante. Nel frattempo, l’esercito francese è sbarcato a Dover per rimettere Lear e Cordelia al potere. Nell’accampamento dell’esercito francese, Cordelia piange il padre, di cui ha appreso la follia. Il cieco Gloster viene condotto sulla costa dal figlio Edgar, che non riconosce, per precipitarsi nel vuoto. Il figlio impedisce il suicidio del padre. Lear viene condotto al campo francese e incontra Cordelia, che si prende cura di lui. Edmund sconfigge l’esercito francese e cattura Lear e Cordelia. Ordina di uccidere Cordelia. Le sorelle combattono per il potere. Regan viene avvelenata da Goneril. Edgar sfida suo fratello a duello e lo uccide. Goneril, che crede tutto perduto, si pugnala. Edgar rivela la propria identità e nell’ultima scena appare Lear che piange il cadavere di Cordelia.

Nella messa in scena di Karoline Gruber Lear non muore alla fine, ma indossa l’abito di Cordelia e vaga stralunato mentre cala la tela. Anche prima il dramma aveva abbandonato toni realistici per una lettura che mette in scena ambienti ironicamente deformati, un prologo silenzioso, doppi mostruosi di Lear. Musicalmente troviamo un trattamento atonale iper-espressionistico dell’orchestra con i cluster sonori di grande violenza che contrappuntano il declamato di Lear o i timbri lancinanti che accompagnano la coloratura isterica di Regan, mentre solo verso la fine si possono percepire lacerti melodici nelle note tenute dagli archi nei registri bassi che contraddistinguono questa partitura dal colore scuro. Particolari le vocalità di alcuni personaggi: il fool di Lear si esprime in una sprechstimme che ben si adatta ai suoi bizzarri discorsi mentre Edgar, quando è travestito da Poor Tom, passa continuamente da tenore a controtenore trovando qui in Andrew Watts un convincente interprete. Come convincente nella sua sconvolta irrazionalità prima e dolente umanità poi è la prova mattatoriale di Bo Skovhus.

Sul podio Simone Young dipana con impegno le oltre due ore di questo poema atonale con narrazione, in cui l’intensità della musica è interamente al servizio del dramma di Shakespeare, di cui esprime con forza fragorosa gli effetti devastanti. Il suono martellante travolge l’ascoltatore senza scampo, amplificando le orribili visioni in scena. Utilizzando soprattutto le percussioni, la musica ha una violenza parossistica e lascia spazio a rari momenti lirici per Cordelia e per Re Lear quando questi esprime il suo tormento e la sua fragilità. Le linee di canto caratterizzano i personaggi, così che il canto delle due figlie di Lear esprime in modo grottesco le ambizioni ipertrofiche, l’insensibilità e le subdole manipolazioni di Goneril e Regan.

(1) Del 2000 è l’opera Kuningas Lear del quasi coetaneo Aulis Sallinen, compositore finlandese autore di Kullervo (1992, opera che ha lo stesso titolo della sinfonia corale di Jean Sibelius).

  • Lear, Saraste/Marthaler, Monaco, 30 maggio 2021