Jean Racine

Mitridate

Wolfgang Amadeus Mozart, Mitridate, re di Ponto

Madrid, Teatro Real, 4 aprile 2025

★★★★☆

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Un maggiordomo e una famiglia quanto mai disfunzionale

Coprodotta con Francoforte e Barcellona, arriverà anche al San Carlo di Napoli questa produzione del Mitridate, re di Ponto di un Mozart che a quattordici anni ha già assimilato, tra le altre cose, l’opera seria italiana con stupefacente padronanza, tanto da poter offrire il suo lavoro per l’inaugurazione della stagione di carnevale di un teatro come il Regio Ducale di Milano dove andrà in scena con grande successo il 26 dicembre 1770. Qui Mozart vedrà ancora rappresentati Ascanio in Alba (ottobre 1771) e Lucio Silla (maggio 1772).

Nel libretto del Mitridate di Vittorio Amedeo Cigna-Santi non è difficile vedere nel padre dispotico Mitridate e nel figlio alienato Sifare desideroso di emanciparsi senza rompere i legami familiari, una proiezione dei sentimenti che Mozart non poteva più reprimere a quell’epoca. Si appoggiava ancora al padre, da cui riceveva protezione e sicurezza essenziale per la sua crescita come artista, ma cominciava già a emergere una tensione, un bisogno di tagliare i ponti, che l’autorità paterna aveva tenuto repressa, alla maniera di quel Mitridate che torna in vita dopo una falsa morte proclamata da lui stesso per mettere alla prova la fedeltà della sua cerchia più intima. 

Ma c’è anche il personaggio di Aspasia, la quale non osa tradire Mitridate ma neanche a rinunciare a Sifare, per cui rimane combattuta tra i due sentimenti. Per lei Mozart compone una successione di arie e scene impressionante dal punto di vista vocale e drammatico. In questo, Mozart segue fedelmente la tragedia originale di Racine dove la parte di Monime del Mithridate era uno dei più grandi ruoli per un’attrice della Comédie Française ed è con esso che Adrienne Leucouvreur debuttò nell’istituzione nel 1717 con un tale successo da essere subito nominata sociétaire e far nascere intorno a lei una vera e propria leggenda, molti anni prima di Francesco Cilea.

La difficoltà della messa in scena del Mitridate mozartiano – sono molte infatti le esecuzioni in forma di concerto come quella che si ascolterà il mese prossimo alla Scala – sta nell’immaginare un manufatto teatrale in cui integrare le sue impressionanti arie, che sono di per sé piccole opere in miniatura: non consentono un approccio “realistico”, ma, in compenso, fanno appello a situazioni perfettamente reali, persino domestiche. Per questo Claus Guth ha scelto di creare con lo scenografo Christian Schmidt due spazi che coesistono da prospettive antagoniste. Da un lato, un mondo riconoscibile, con un’estetica iperrealista, che fa appello agli ambienti di una villa elegante nella sua modernità anni ‘60, con spazi per scene quotidiane e coniugali, domestiche, in cui è plausibile la storia di due figli rivali, sorpresi quando scoprono che il padre, che credevano morto, torna all’improvviso e scopre le loro slealtà. Accanto a questo, convive un altro spazio: un palcoscenico vuoto di fronte a una grande parete crivellata di buchi neri, uno spazio onirico, astratto, con regole totalmente diverse, in cui i personaggi riflettono e parlano con loro stessi. Da una parte c’è l’azione e dall’altra il suo lato oscuro e tormentato. Qui i personaggi sono raddoppiati o moltiplicati – Mitridate e Aspasia hanno ben sei alter-ego – assieme a minacciosi uomini in nero. Il direttore tedesco si dimostra spietato nella messa a nudo dei complessi, a dir poco, rapporti famigliari tra padre, figli e spose. Su tutti un ineffabile maggiordomo porge bevande, armi, veleni. Con le luci di Olaf Winter e i costumi di Ursula Kudrna Claus Guth costruisce una struttura visiva che oscilla tra realismo e onirico con straordinaria coerenza.

La direzione musicale di Ivor Bolton è di grande livello: il melodismo mozartiano e la tensione drammatica risultano perfettamente equilibrati e l’alternanza dei lunghi recitativi con le arie perfettamente realizzata. Esemplari gli interventi solistici degli strumentisti dell’orchestra del Real come il corno solo in scena durante l’aria di Sifare «Lungi da te, mio bene».

Il ruolo tenorile del titolo ha una tessitura estremamente acuta che sale costantemente fino al do con salti di quasi due ottave. L’interprete per il quale Mozart ha scritto la parte fu Guglielmo D’Ettore, rinomato tenore siciliano che fu anche il Mitridate nell’opera di Quirino Gasparini con lo stesso libretto del Cigna-Santi. Ora a Madrid c’è l’argentino Juan Francisco Gatell, tenore leggero dall’impeccabile fraseggio, bravo attore e convincente come personaggio. Dove la tessitura è accessibile, come nelle arie «Quel ribelle e quell’ingrato» o «Già di pietà mi spoglio», tutto va bene, ma in «Se di lauri il crine adorno», «Tu che fedel mi sei» o «Vado incontro al fato estremo» i molti do lo mettono un po’ in difficoltà e risultano forzati rispetto alla linea di canto altrimenti elegante. Franco Fagioli dimostra ancora una volta la flessibilità del suo strumento la cui estensione dal registro basso a quello più acuto – arriva con agio al la opzionale in «Venga pur, minacci e frema» – per delineare il complesso personaggio di Farnace che conclude l’opera, prima del quintetto finale, con la sua aria solistica piena di tristezza e malinconia. Come Marzio il tenore Juan Sancho ha un’unica aria, ma molto impegnativa, che però qui viene incomprensibilmente ridotta alla sola prima parte. Un’unica aria ha anche Arbate, che il controtenore Franko Klisović risolve con efficacia. 

Eccezionale il terzetto di voci femminili. Aspasia apre l’opera con «Al destin che la minaccia», la prima di quattro arie solistiche che Sara Blanch esegue con stupefacente sicurezza e temperamento, timbro rotondo e uniforme in tutto il registro, controllo dei fiati, acuti perfetti e belle variazioni nei da capo con un’elegante cadenza in «Al destin che mi minaccia». Dove l’aria non richiede colorature, sono i colori e le dinamiche a essere valorizzati, come nella gluckiana «Pallid’ombre, che scorgete». L’amato Sifare qui è Elsa Dreisig en travesti, voce lirica, bella e agile, timbro scuro ma dolce. Grande stilista, ha controllato saggiamente la voce nel duetto «Se viver non degg’io» con quella della Blanch. Anche Marina Monzó ha avuto il suo trionfo come Ismene. Nella sua seconda aria «So quanto a te dispiace» piena di coloratura e di lunghe linee di scale veloci ha cantato con una perfezione immacolata.

La non frequenza del titolo e l’intelligenza della messa in scena saranno motivi per rivedere una seconda volta questa produzione quando arriverà in Italia.

Iphigénie en Aulide / Iphigénie en Tauride

Christoph Willibald Gluck, Iphigénie en Aulide / Iphigénie en Tauride

Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence, 11 luglio 2024

★★★★☆

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Casa Atridi

Cinque anni dividono la composizione di Iphigénie en Aulide da quella di Iphigénie en Tauride: la prima fu creata il 19 aprile 1774 all’Académie royale de musique di Parigi su libretto di François-Louis Gand Le Bland Du Roullet, attaché all’ambasciata di Francia, tratto dall’Iphigénie di Racine di cento anni prima; la seconda nacque il 18 maggio 1779, sempre all’Académie, su testo del giovane poeta e per la prima volta librettista tragico Nicolas-François Guillard, tratto dall’omonima dramma di Claude Guimond de La Touche del 1757 a sua volta ricavata dalla tragedia di Euripide.

Nella prima siamo nella città di Aulide in Beozia dove la flotta greca pronta a partire per Troia è bloccata in porto da una bonaccia. Agamennone deve sacrificare la giovane figlia Ifigenia per placare la dea Diana ed affrontare così l’assedio alla città sull’Ellesponto. Oreste qui è bambino. Nella seconda sono passati 25 anni, siamo nel Chersoneso Taurico, l’odierna Crimea, Oreste ha vendicato su Clitennestra l’uccisione del padre Agamennone ed è Ifigenia ora che, diventata grande sacerdotessa, deve sacrificare a Diana il fratello in quanto straniero sbarcato in quel paese.

Iphigénie en Aulide inizialmente ebbe un successo modesto, ma nei successivi cinquant’anni le quattrocento riprese ne fecero l’opera di Gluck più eseguita, per poi passare in second’ordine rispetto all’Orfeo ed Euridice nella prima metà dell’Ottocento. Fu Richard Wagner a occuparsene nel 1847 con una la versione, Iphigenia in Aulis, per la Semper Oper di Dresda con Wilhelmine Schröder-Devrient nei panni di Clitennestra e Johanna Wagner in quelli della protagonista. La versione di Wagner ebbe grande successo nei teatri tedeschi dove venne rappresentata in luogo della versione originale francese fino ad anni recenti. La fortuna moderna dell’opera inizia nel 1950 al Maggio Musicale Fiorentino con Boris Christoff come Agamennone. Di un anno dopo è la registrazione radiofonica in tedesco con Dietrich Fischer-Dieskau e diretta da Artur Rother.

Iphigénie en Tauride è la penultima delle opere di Gluck, scritta nel pieno della polemica con Piccinni, autore anche lui dello stesso soggetto che venne però presentato quasi due anni dopo. Un’Ifigenia in Tauride era stata nel frattempo messa in musica da Tommaso Traetta nel 1763. L’opera di Gluck riscosse immediatamente un successo mantenutosi poi nel tempo. Una versione in tedesco fu approntata dallo stesso autore per Vienna in occasione della visita nella capitale asburgica del granduca Paolo di Russia e rappresentata nel 1781 al Nationalhoftheater, come l’imperatore Giuseppe II aveva voluto ridenominare il Burgtheater di Vienna dopo il licenziamento dei complessi e dei cantanti italiani e la loro sostituzione con artisti di lingua tedesca. Anche Richard Strauss si produsse in una completa revisione dell’opera andata in scena a Weimar nel 1900 con il titolo goethiano Iphigenie auf Tauris, una versione che si ascoltò a Martina Franca nel 2009. 

Nell’ Iphigénie en Tauride molti sono gli autoimprestiti ricavati da sue opere precedenti:

  • l’Introduzione è tratta dall’ouverture de L’île de Merlin, rappresentante una tempesta seguita dalla calma; nell’Iphigénie, l’ordine è però invertito, cosicché l’opera si apre con un momento di calma che si tramuta subitaneamente in tempesta.
  • l’aria Dieux qui me poursuivez è tratta dal Telemaco («Non dirmi ch’io»).
  • la musica per le Furie nel secondo atto è tratta dal balletto Sémiramis.
  • l’aria «O malheureuse Iphigénie» del secondo atto è tratta da La clemenza di Tito («Se mai senti spirarti sul volto»)
  • il coro sempre del secondo atto, «Contemplez ces tristes apprêts»,è tratto dalla sezione centrale della medesima aria.
  • l’aria «Je t’implore et je tremble» era già apparsa con l’incipit «Perché, se tanti siete» nell’Antigono, ma è ispirata alla giga della Partita n. 1 in si bemolle maggiore (BWV 825) di Bach.
  • una parte della musica della scena finale del quarto atto è tratta, di nuovo, dalla Sémiramis.
  • il coro finale «Les dieux, longtemps en courroux» proviene da Paride ed Elena («Vieni al mar»). 

Nonostante le differenze drammaturgiche e musicali, le due opere di Gluck vengono talora abbinate in un dittico, come succede ora con questa coproduzione con le Opere Nazionali di Atene e Parigi che inaugura il Festival di Aix-en-Provence 2024 diretto da Pierre Audi il quale nel 2011 ad Amsterdam aveva abbinato le due opere.

Alla sua quarta produzione al Festival, Dmitrij Černjakov unifica i due lavori con un’ambientazione moderna e minimalista che mostra uno spaccato della casa degli Atridi con pareti trasparenti e poche suppellettili nella prima parte. Nella seconda di quella casa e di quei mobili si vedono solo i fantasmatici contorni realizzati con tubi al neon. «Cette nuit… j’ai revu le palais de mon père», racconta Ifigenia, e una casa smaterializzata è quella nella scenografia dello stesso Černjakov che le luci di Gleb Filshtinsky rendono ancora più onirica. Con la drammaturga Tatiana Werestchagina, il regista russo imborghesisce la vicenda mitologica, anche Diana più che dea è una figura umana e fragile, sosia di Ifigenia, che offre il suo collo alla lama del carnefice per salvare la ragazza. Più che per placare l’offesa dea, il sacrificio è dettato dalla volontà di affermare il prestigio dei Greci in partenza per la guerra. E ‘GUERRA’ è la parola che campeggia nell’intervallo fra le due opere. E un ricovero per invalidi di guerra è diventata la Tauride, dove lo stesso Thoas si rivela fortemente traumatizzato, mentre Ifigenia, qui invecchiata più del dovuto, è una figura pessimisticamente rassegnata alla rovina della famiglia. Neanche il ritrovamento del fratello minore, che infatti fuggirà con Pilade lasciandola ancora una volta sola con i suoi soldatini giocattolo, riesce a smuoverne l’apatico atteggiamento.

Le numerose danze presenti in partitura vengono rese con movimenti in scena del coro e dei protagonisti principali, come il balletto-pantomima delle Eumenidi con l’apparizione di Clitennestra uccisa più volte da Oreste. Sempre molto attento alla psicologia dei personaggi si dimostra anche questa volta Černjakov. Ad esempio il rapporto bruscamente fisico tra Oreste e Pilade cela una relazione fortemente affettiva che però il regista, gay dichiarato, non rende sentimentalmente esplicita, anche se il libretto ne darebbe l’occasione. La seconda parte en Tauride risulta più convincente di quella en Aulide, ma l’aspetto borghese della vicenda mitologica sembra una soluzione un po’ troppo facile e un po’ scontato l’accento sul dramma di una famiglia così disfunzionale come quella di Agamennone – e qui Elettra è ancora una bambina mite e inoffensiva!

Per la parte musicale nessuna sorpresa con Emmanuelle Haïm a capo del Concert d’Astrée: la sua concertazione è precisa ma con gusto e diversificazione nelle due parti, con momenti particolarmente drammatici nell’Iphigénie en Tauride. Il flusso sonoro si avvale degli splendidi strumenti storicamente informati dell’ensemble fondato 24 anni fa dalla stessa Haïm dove il bel colore degli archi si unisce agli squillanti interventi dei fiati e alle trascinanti percussioni.

Prestazione magistrale è quella di Corinne Winters che si sobbarca il compito raramente realizzato di interpretare entrambe le Ifigenie, malgrado le due diverse tessiture: più lirica e luminosa quella della prima parte, più grave e introversa quella della seconda. Quasi sempre in scena, il soprano americano non dà cenni di affaticamento con momenti magici come quando intona «Ô malheureuse Iphigénie !» con accento sobrio ma proprio per questo più straziante. «Dieux, auteurs de mes crimes» canta invece Oreste, il personaggio più tormentato, che Florian Sempey interpreta con ampia gamma espressiva che talora nella veemenza del racconto va a scapito dell’intonazione, ma la sua è una presenza sonora e scenica di grande impatto. Stanislas de Barbeyrac è un Pilade stilisticamente impeccabile e nella sua aria «Unis dès la plus tendre enfance» molto commovente. Assieme i due cantanti portano in scena un indimenticabile rapporto di amicizia virile giustamente esaltato dal regista. Alexandre Duhamel è il Thoas distrutto dalla guerra di cui s’è già detto e la prova del baritono francese risulta del tutto convincente. Véronique Gens fu Iphigénie nella produzione Minkowski/Audi del 2011, ora è una Clitennestra magistralmente recitata e dalla massima attenzione alla parola, cantata con timbro sontuoso e perfezione stilistica. Russell Braun è un Agamennone di grande spessore drammatico mentre qualche stanchezza si coglie nel Calchas di Nicolas Cavallier. Vocalmente esuberante nel suo registro di haute-contre è il narcisistico Achille di Alasdair Kent, interpretato con ironia e cantato con sicurezza di acuti. Ottimo il coro del Concert d’Astrée istruito da Richard Wilberforce, quasi onnipresente nella partitura anche se in questa edizione è un personaggio spesso invisibile e relegato in buca.

Il video è disponibile gratuitamente su ArteTV.

Mitridate

Wolfgang Amadeus Mozart, Mitridate, re di Ponto

Berlino, Staatsoper unter den Linden, 11 dicembre 2022

★★★★☆

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Mitridate torna in Giappone

Delle diverse tappe dei suoi viaggi in Italia, Milano è la città in cui Mozart si è fermato più a lungo: nel primo viaggio dal 23 gennaio al 15 marzo e dal 18 ottobre 1770 al 12 gennaio e dal 31 gennaio al 4 febbraio 1771; nel secondo dal 18 agosto al 5 dicembre 1771; nel terzo dal 4 novembre 1772 al 4 marzo 1773. Ed è a Milano che il quattordicenne (!) Wolfgang il 26 dicembre 1770 vede mettere in scena per l’inaugurazione della stagione la sua prima opera seria, Mitridate, re di Ponto K 87, su libretto di Vittorio Amedeo Cigna-Santi tratto da Racine attraverso la traduzione dell’abate Parini. Un successo con venti repliche.

«Trovo che Wolfgang ha scritto l’Opera bene e con molto ingegno» scrive il padre Leopold in una lettera dopo la «prima piccola prova». E in effetti così è: il ragazzo ha assimilato perfettamente i codici dell’opera seria italiana e di suo ci ha messo il gusto per melodie non banali e un’orchestrazione quasi matura. Per di più dimostra di saper adattarsi all’ambiente del teatro tenendo conto delle richieste dei cantanti, col risultato di spostare il centro di attenzione musicale nei singoli episodi, gestiti dagli esigenti e capricciosi cantori e prime donne, così che Mitridate diventa una successione di meravigliose arie che però stentano a costruire una vera unità drammatica.

Trentuno anni dopo la storica produzione londinese di Graham Vick e alla sua lettura in stile teatro kabuki, un vero giapponese si ispira allo stesso mezzo espressivo per ambientare la vicenda. Satoshi Miyagi opta dunque per un Giappone medievale affogato nell’oro che riveste ogni centimetro quadro dell’impianto scenografico di Junpei Kiz ed Eri Fukazawa, così come dei fantasiosi e sontuosi costumi di Kayo Takahashi Deschene. Una struttura a gradoni praticabili con scalinate ai lati costituisce l’unico elemento architettonico presente. Alla profondità tridimensionale il regista e direttore artistico dello Staatsoper unter den Linden preferisce la mutevole decorazione di questo fondale: ruotando, i pannelli mostrano in successione la reggia di Mitridate, una foresta di bambù dorati, un paesaggio dipinto col monte Fuji. La recitazione è volutamente assente, i cantanti sono fermi frontalmente e con lo sguardo fisso, i pochi movimenti sono quelli previsti dalle coreografie di Yu Otagaki per le marce o le battaglie en ralenti,. Qualche cantante però sfugge a questa prescrizione registica e non riesce a non interpretare. Nella sua lettura ancora più scioccante è il finale: dopo tanto fasto dorato la guera presenta i suoi conti sui corpi martoriati, i costumi lacerati, i campi fumanti di cadaveri.

Particolare cura è dedicata dal regista all’aspetto visivo, quasi calligrafico, come quando il corno obbligato nell’aria di Sifare «Lungi da te, mio bene» sale sul palcoscenico e, assieme ad altri figuranti che formano un ariete alato, con il suo strumento riprende la curvatura delle corna dell’animale. Quella di Miyagi è una regia visualmente molto raffinata ma statica, memore della tradizione teatrale del suo paese. Fortunatamente i suoi ricercati tableaux vivant ricevono un incessante impulso ritmico dalla direzione di Marc Minkowski alla guida dei Musiciens du Louvre che mette vita alle eleganti figure in scena. Il direttore francese utilizza agogiche mutevoli e colori cangianti per ottenere un ritmo narrativo accettabile a scapito però di recitativi falcidiati, numeri tagliati (Sifare, Ismene e Aspasia ne fanno le spese con uno ciascuno) e arie accorciate.

Nella parte eponima Pene Pati affronta con qualche difficoltà la sua prima aria «Se di lauri il crine adorno» sforzando nel registro acuto, poi si riprende e sfoggiando belle mezze voci riesce a dare al personaggio il giusto risalto vocale. Le agilità agevolmente risolte dipingono con efficacia un sovrano dal carattere combattuto tra orgoglio e amore filiale. Ana Maria Labin è un’Aspasia anche lei combattuta tra il ruolo di regina e quello di donna innamorata e la sua performance vocale tocca i punti massimi nelle colorature come nei momenti più intensi quali la grande scena del III atto che comprende la cavatina «Pallid’ombre, che scorgete» e un drammatico recitativo accompagnato. Angela Brower, soprano en travesti, delinea un Sifare di grande sensibilità e bellezza vocale. Così è anche per il Farnace di Paul-Antoine Bénos-Djian, controtenore che qui fornisce al momento la sua prova migliore. Non allo stesso livello di eccellenza si situano gli altri interpreti: Sarah Aristidou (Ismene), Sahy Ratia (Marzio) e Adriana Bignagni Lesca, soprano en travesti come Arbate.

 

Iphigénie en Aulide / Iphigénie en Tauride

Le due Ifigenie di Gluck

Iphigénie en Aulide (1774) è la tragédie lyrique che Gluck ricava dalla omonima opera di Racine (1674) basata ovviamente sull’ultima tragedia di Euripide, rimasta incompiuta. I Greci sono fermi nell’Aulide con la loro flotta di mille navi in attesa di sal­pare per Troia, ma i venti sono sfavo­revoli al viaggio perché Dia­na è irata e richiede il sacrificio di Ifigenia, la fi­glia di Agamen­none. Il padre è lacerato tra l’amore paterno e il dovere di stato e a nulla valgono i lamenti della moglie Clitennestra e del promes­so sposo Achille. Ifigenia è condotta all’altare dei sacrifici e solo un intervent­o all’ultimo momento della dea salverà la vita della fanciulla.

Antefatto. L’azione si colloca nella fase iniziale della guerra che condurrà, secondo il mito narrato da Omero, alla distruzione della città dell’Asia Minore. Una continua bonaccia impedisce la partenza delle navi e il sacerdote Calcante ha rivelato al condottiero dei Greci, Agamennone, che essa è provocata dall’ira della dea Diana nei suoi confronti per un affronto da lui arrecatole, e che solo il sacrificio di sua figlia, Ifigenia, potrà valere a pacificare la divinità. Agamennone ha in qualche modo segretamente accondisceso ed ha convocato la figlia in Aulide con il pretesto di darla in sposa ad Achille.
Atto primo. L’opera ha inizio con l’angoscia e i dubbi del re: nonostante il suo giuramento, egli pensa ancora di sottrarsi al sacrificio della figlia, inventando che Achille non la ama più e quindi evitando che Ifigenia giunga in Aulide. Mentre però è intento a perorare la sua causa con Calcante, canti di gioia annunciano l’arrivo al campo della ragazza accompagnata dalla madre Clitennestra: lo stratagemma del re è fallito perché il suo braccio destro Arcade non è riuscito a raggiungere in tempo le due donne. I festeggiamenti vengono interrotti dall’indignata Clitennestra che, venuta a sapere della (falsa) infedeltà di Achille, sollecita la figlia ad apprestarsi a ripartire. Rimasta sola, questa dà sfogo al suo dolore finché Achille stesso non compare in scena, rivelando di non aver nemmeno saputo del prossimo arrivo di Ifigenia, e negando risolutamente qualsiasi infedeltà da parte sua. L’atto si chiude quindi in una tenera scena di riconciliazione, nella quale i due promessi sposi si appellano al dio del matrimonio perché li unisca quello stesso giorno.
Atto secondo. Ifigenia ed il suo seguito meditano sulla situazione difficile in cui la ragazza si è venuta a trovare, presa tra l’orgoglio del padre e l’ira dell’amato, quando Clitennestra annuncia che Agamennone si è finalmente convinto e che i preparativi per la cerimonia di nozze sono in corso. Li raggiungono Achille con l’amico Patroclo e con il suo seguito. Viene celebrato il valore dello sposo, mentre la sposa dona la libertà alle schiave di Lesbo che Achille ha portato con sé. L’atmosfera cambia però radicalmente con l’arrivo di Arcade, il quale, non riuscendo a trattenere i propri sentimenti, rivela che Agamennone sta attendendo la figlia all’altare non per celebrarne le nozze, ma per sacrificarla. Le parole del soldato provocano espressioni di orrore da parte degli astanti e del coro. Clitennestra, furibonda e disperata, implora Achille di salvare sua figlia e questi infine si impegna con la giovane a proteggerla senza però nel contempo far alcun male a suo padre. Dopo un furibondo duetto tra i due eroi, in cui Achille comunica al futuro suocero che dovrà passare sul suo cadavere prima di poter attentare alla vita della figlia, Agammennone ha una nuova resipiscenza e dà disposizioni ad Arcade perché riconduca le due donne a Micene. L’atto si chiude con la toccante espressione dell’amore del re per la figlia, prima, e poi con la sua baldanzosa sfida alla dea perché si prenda la vita di lui piuttosto che quella dell’innocente Ifigenia.
Atto terzo. L’atto si apre con il coro dei Greci che sollecitano Agamennone al sacrificio della figlia, per timore di non riuscire più a raggiungere Troia. Ifigenia, che ha rifiutato di seguire Arcade, si è ormai rassegnata al suo fato e saluta teneramente prima lo sposo e poi la madre trepidante. Rimasta sola, Clitennestra è protagonista di una sorta di scena della pazzia in cui ha la visione allucinata dell’imminente sacrificio, e che sfocia nell’implorazione appassionata al padre Giove perché annienti con il fulmine il campo dei Greci. La scena si chiude con le sue parole di angoscia che si levano al di sopra dei canti del coro che accompagna Ifigenia al sacrificio. Sulla spiaggia, nei pressi dell’altare, Ifigenia è inginocchiata mentre i Greci cantano inni agli dei e Calcante ha già alzato il coltello sacrificale, quando Achille irrompe in scena con i suoi guerrieri tessali deciso ad impedire la cerimonia. La voce di Calcante si leva al di sopra del tumulto generale e, del tutto inopinatamente, annuncia che Diana ha rinunciato alla morte di Ifigenia e ha consentito al matrimonio.

In Iphigénie en Tauride (1779) – che Gluck basa sull’omonimo dramma in prosa che Guimond de La Touche (1757) trae dalla tragedia di Euripi­de, così come farà anche Goethe (1787) – la scena è appunto nella Tauride quindici anni più tardi. Dopo la bonaccia dell’opera precedente, qui infuria invece una tempesta spaventosa. Ifigenia, dopo la guerra di Troia e la morte di Achille, è diventata sacerdotessa di Diana e presiede ai riti orrendi del sacrificio di qualunque umano sbarchi sull’isola del tiranno Thoas. Questa vol­ta è suo il tragico dilemma che deve affrontare allor­quando ha il sospetto che il greco che sta per sacrificare sia suo fratello Oreste. Di fronte alla stupidità della guerra e alla fol­lia sanguinosa della superstizione religiosa nell’opera si salva solo la purezza dell’amicizia tra Oreste e Pilade. Anche qui l’in­tervento della dea risolve in extre­mis il dramma.

Antefatto. Gli eventi narrati nell’opera si inquadrano nelle vicende mitiche relative alla guerra di Troia. Per propiziare la spedizione degli Achei a Troia, il condottiero Agamennone, re di Micene e di Argo, aveva accettato di sacrificare la propria figlia Ifigenia, così destando l’odio e il rancore della moglie Clitennestra, alla dea Artemide (nel libretto però sempre chiamata con il suo nome latino di Diana), che era offesa contro di lui. Al momento del sacrificio, però, Diana aveva voluto salvare miracolosamente la giovine, sostituendola con una cerva e trasportandola in incognito in un proprio tempio nella Tauride, dove ella era diventata grande sacerdotessa. Al suo ritorno da Troia, Agamennone era stato assassinato dalla moglie e dall’amante di lei Egisto, mentre, a sua volta, il figlio Oreste, allevato lontano dalla patria, nella Focide, insieme al cugino Pilade, ed istigato dall’inflessibile sorella Elettra, aveva vendicato il delitto uccidendo i due parricidi: egli aveva levato in tal modo la spada contro la propria madre, provocando così l’ira delle Furie contro di lui. All’epoca in cui è ambientata l’opera, Oreste, allo scopo di cercar di espiare la sua colpa, e sempre accompagnato dal cugino/amante Pilade, è stato inviato da Apollo nella Tauride con l’incarico di recuperare una sacra immagine di Diana. Nella Tauride è in uso il costume barbaro di sacrificare alla dea tutti i malcapitati stranieri che si trovino a mettere piede nel paese.
Atto primo. Ingresso del tempio di Diana in Tauride. Ifigenia e le altre sacerdotesse (che si assumono anch’esse provenienti dalla Grecia) pregano gli dèi di proteggerle dalla tempesta ma, anche dopo che essa si è calmata, Ifigenia rimane sotto l’orribile impressione di un sogno che le è occorso nella notte e nel quale ha visto Clitemnestra uccidere il marito, e poi il fratello Oreste uccidere la madre, e infine lei stessa trafiggere il fratello. Mentre le compagne commentano sgomente il sogno , Ifigenia, in preda all’angoscia, invoca Diana perché la faccia riunire con Oreste o si riprenda altrimenti il dono della vita che le aveva fatto al momento del sacrificio. Le sacerdotesse si uniscono commosse al suo pianto. Entra quindi in scena Toante, re della Tauride, oppresso anch’egli da pensieri oscuri: gli oracoli gli hanno predetto morte e rovina ove anche un solo straniero dovesse scampare nel suo regno al sacrificio rituale. Un coro di Sciti si presenta allora sul palcoscenico recando la notizia di due giovani greci scampati ad un naufragio durante la tempesta. Raggiante, Toante invia Ifigenia e le sue compagne a preparare il sacrificio e i suoi ad elevare un canto di guerra. Gli Sciti si dànno allora ad una barbara invocazione di morte, e subito dopo celebrano la loro feroce esultanza nel quadro del divertissement danzante. L’atto si chiude con i due naufraghi, Oreste e Pilade, trascinati in scena dai nativi, che riprendono i loro canti selvaggi.
Atto secondo. Stanza interna del tempio destinata alle vittime sacrificali. Oreste e Pilade languono in catene, ed il primo, fortemente angosciato, maledice sé stesso perché sta per causare la morte del suo migliore amico, ma Pilade gli rivolge un accorato canto di amicizia e di amore in cui benedice il giorno che li farà morire insieme se un unico sepolcro riunirà le loro ceneri. Dopo che un ministro del tempio ha recato via Pilade tra le manifestazioni di disperazione dell’amico, Oreste è colpito da un’improvvisa apparente tranquillità e si assopisce. Il suo sonno, però, è orrendamente tormentato dalle Furie. Ifigenia entra in scena e, sebbene i due non si riconoscano, Oreste è colpito dall’impressionante somiglianza della donna probabilmente con l’uccisa Clitemnestra. La giovane interroga allora lo straniero sulle vicende di Agamennone e della Grecia ed egli le racconta dell’avvenuta uccisione del re da parte della moglie, e di questa da parte del figlio, ma, quando è interrogato con apprensione anche circa la sorte di quest’ultimo, risponde che Oreste ha finalmente incontrato la morte tanto lungamente cercata, e che ormai Elettra è rimasta sola a Micene. Appreso così della rovina dell’intera sua famiglia, Ifigenia congeda lo straniero e insieme al coro delle compagne piange la sorte propria e della patria e celebra una cerimonia funebre in onore del fratello creduto morto.
Atto terzo. Appartamento di Ifigenia nel tempio. Ifigenia, sola con le compagne, si propone di informare Elettra della propria sorte e dà mostra di turbamento nei confronti dello straniero che tanto gli ricorda il fratello. Fatti condurre i due prigionieri, li informa quindi di aver la possibilità di salvare uno di loro, ma solo uno, dal sacrificio richiesto da Toante; però chiede, come contropartita, che colui che sarà salvato recapiti per suo conto un messaggio ad Argo, dove lei ha avuto la vita e dove si trovano ancora degli amici. Entrambi i giovani giurano sugli dèi, e Ifigenia, sia pur con l’anima spezzata, sceglie Oreste per la salvezza, ed esce. Pilade si mostra entusiasta della scelta della sacerdotessa, almeno quanto Oreste ne è orripilato: questi domanda all’amico che amore sia il suo se, una volta che egli avrebbe finalmente trovato la morte tanto agognata, intende allearsi con gli dèi implacabili per raddoppiare il suo tormento. Lo implora quindi perché prenda il suo posto, ma Pilade si oppone con tutto sé stesso . Quando Ifigenia ritorna con il messaggio da consegnare in Grecia, Oreste insiste perché ella modifichi la sua decisione e, di fronte al suo rifiuto, minaccia di darsi la morte davanti a lei. Sia pure con estrema riluttanza, la donna deve quindi cedere e, partito Oreste, consegna a Pilade il messaggio, rivelandogli che è indirizzato ad Elettra, ma rifiutando di spiegargli quali rapporti la leghino con la principessa micenea. Rimasto solo, Pilade invoca l’Amicizia perché venga ad armare il suo braccio: egli è risoluto a salvare la vita dell’amico od a correre incontro alla morte insieme a lui.
Atto quarto. Interno del tempio di Diana. Ifigenia sente di non esser capace di levare il coltello sacrificale sullo straniero ed invoca Diana perché le infonda nel cuore la necessaria crudeltà. Le sacerdotesse introducono Oreste, che è stato preparato per il sacrifizio ed egli rincuora la sorella, ancora sconosciuta, dicendole che la morte costituisce il suo unico desiderio, ma è nel frattempo intenerito dal dolore profondo che lei gli dimostra. Le sacerdotesse innalzano quindi un grande inno a Diana e pressano poi Ifigenia perché proceda al rito sacrificale. Quando ella sta levando il pugnale, Oreste si sovviene del sacrificio della sorella, tanti anni prima, ed invoca il suo nome: «Così peristi in Aulide, Ifigenia, sorella mia!». L’agnizione tra i due si compie in tal modo, drammaticamente, proprio mentre Toante e gli Sciti, annunziati da una donna greca, si apprestano ad irrompere sul palcoscenico, avendo appreso della fuga di uno degli stranieri.  Toante è infuriato contro il tradimento della sacerdotessa: ordina quindi ai suoi di prendere in consegna Oreste e, siccome Ifigenia chiede alle compagne di difenderlo, si appresta ad ucciderlo lui medesimo, insieme alla stessa Ifigenia. Un gran rumore dietro la scena annuncia però l’arrivo di Pilade con i rinforzi greci, e il giovane eroe si avventa sul re prevenendolo e trafiggendolo nel momento stesso in cui sta per colpire a sua volta le due vittime. Il conseguente scontro tra Greci e Sciti viene risolto dall’intervento ex machina di Diana, la quale ordina ai secondi di restituire alla Grecia la sua statua, tanto da loro disonorata con gli orribili sacrifici umani, annuncia a Oreste che i suoi rimorsi hanno cancellato le sue colpe, e l’invita a tornare a Micene per esserne il re, conducendo seco anche la sorella. Mentre la dea risale al cielo, l’opera si conclude con il raggiante invito di Oreste a Pilade perché riconosca nella sacerdotessa la propria sorella perduta, al cui coraggio egli deve la vita.

Entrambe le opere appartengono al periodo della polemica tra Gluck e Piccinni che divise il pubblico parigino in due fazio­ni come già era succes­so quasi trent’anni prima nella “querelle des bouffons”, innescata dalle opere italiane di Pergolesi da una parte e quelle francesi di Lully e Ra­meau dall’altra. In particola­re Iphigénie en Tauride costituisce il coronamento della carrie­ra musicale gluckiana e quella in cui il compositore riesce me­glio a realizzare la sua riforma operistica. Dopo di lui nessuno potrà prescindere dalla sua memorabile combinazione di musica e dram­ma. Certo non Berlioz, i cui Troyens sembrano un grandioso tributo al maestro di cui si considerava l’erede. Ma neanche Wagner potrà fare a meno delle invenzioni gluckiane e ovviamente il Mozart delle opere serie deve moltissimo al suo predecessore, così come tutta l’opera francese del­l’ottocento da Meyerbeer a Gounod.

Nonostante l’interpretazione mirabile della Callas alla Scala nel 1957 in Ifigenia in Tauride, le due opere sono entrate fati­cosamente in repertorio ed è quindi un avvenimento la ripresa di en­trambe in un’unica produzione che porta i nomi di Marc Minkow­ski in orchestra e Pierre Audi in scena e che è stata registrata al Nederlandse Opera di Amsterdam il 7 settembre 2011.

Diretta con la solita bravura, l’orchestra dei Musiciens du Louvre Greno­ble suona con strumenti d’epoca e un diapason abbassato di un tono per riprodurre il suono della rappresenta­zione parigina e se ne avvantaggiano non solo le voci dei cantan­ti, ma il tono stesso e l’atmosfera dell’ope­ra.

Nella prima parte Véronique Gens esprime bene la sofferenza delle gio­vane Ifigenia, nella seconda c’è la tormentata Ifigenia matura di Mireille Delunsch. Anche le al­tre parti sono disimpegnate egregiamente da can­tanti che sono an­che grandi interpreti dal punto di visto dramma­turgico. Cito sol­tanto la Clitennestra amorevole di Anne Sofie von Otter e gl’intens­i Jean-François Lapointe e Yann Beu­ron nel ruolo dei fra­terni amici Oreste e Pilade.

La scenografia è la stessa per entrambe le opere: un nudo palcosce­nico e due praticabili con ripide scalinate in stile ponteggi da edilizia. La fossa orchestrale sta dietro, ossia tra il palcoscenico e il coro che pren­de po­sto in una gradinata assieme a parte del pubblico in fondo alla sce­na. I cantanti hanno quindi il direttore d’orchestra alle spalle e si rivolgo­no direttamente al pubblico della platea. È sicuramente un elemento di maggior difficoltà per gli in­terpreti, ma così ci risparmiano le occhiate del can­tante al direttore. La bravura e la professionalità degli interpreti non sem­brano ri­sentire di questa anomala soluzione.

Siamo ormai abituati a costumi che non rispecchiano né l’e­poca della vi­cenda né quella dell’autore dell’opera. Qui, giac­ché si tratta di un eserci­to in partenza per la guerra, nella prima parte, e di un tiranno sanguinario come molti dittatori di oggi, nella secon­da, i personaggi sono in vesti­ti militari moderni, con i motivi mi­metici ripresi anche negli abiti femmi­nili. L’Ifigenia che deve esse­re sacrificata porta addirittura il giubbotto esplosi­vo dei suicidi per rappresentare la sua accettazione del sacri­ficio. Un po’ scioccante all’inizio, ma efficace come idea.

Audi non prevede momenti coreografici: in mezzo a quelle armi e a quei ceffi bellicosi non c’è spazio per le danze. Poco filologico, forse, ma coe­rente con la scelta registica.

Immagine perfetta e due tracce audio. Extra con interviste per entrambe le due opere con gli interpreti. Ma perché farli faticosamente parlare in una lin­gua che non è la loro, l’inglese? Non si può tradurli dopo? Sembra invece perfet­tamente a suo agio in francese, inglese e olandese il regista libanese Pierre Audi.

Hippolyte et Aricie

Jean-Philippe Rameau, Hippolyte et Aricie

Parigi, Opéra Comique, 14 novembre 2020

★★★

(live streaming)

Rimorsi superflui

Hippolyte et Aricie, la prima opera lirica di Rameau, è il dramma del rimorso: Aricie si chiede come possa offrire senza rimorsi alla dea Diana un cuore offerto già a un altro; Teseo vuol porre fine alla sua vita per il rimorso di aver fatto uccidere il figlio innocente; Fedra si uccide oppressa dal rimorso di aver amato incestuosamente il figliastro. «Ô remords superflus!» canta il coro alle fine del quarto atto.

Coprodotto con l’Opéra Royal di Versailles, questo dell’Opéra Comique è un altro spettacolo a porte chiuse: delle sei repliche previste solo quella del 14 novembre è sopravvissuta ai protocolli sanitari che hanno sbarrato i teatri anche in Francia. Ripresa dalle telecamere di Arte Concert Hippolyte et Aricie è trasmesso in diretta streaming dalla bellissima Salle Favart vuota ed è difficile abituarsi al silenzio spettrale con cui tutta la compagnia è in piedi nel teatro senza gli applausi al termine dello spettacolo. Una panoramica angosciante.

 

L’opera è presentata nella terza versione del 1757, quella senza prologo, ma con alcuni elementi della versione originale del 1733. Diciamo subito che l’esecuzione musicale e l’allestimento visivo sono su due piani qualitativi molto diversi. Cominciano dal primo. Il coro e l’orchestra Pygmalion sono affidati al loro direttore e fondatore Raphël Pichon, un giovane entusiasta che alla conoscenza del repertorio unisce un gusto raffinato e una grande sensibilità. «Hippolyte è un’opera che è contemporaneamente terrificante e piena di grazia inimitabile. Espressività dei recitativi, ruolo decisivo dell’orchestra – che diventa attore del dramma –, strumentazione rivoluzionaria ed emancipazione dei fiati dell’orchestra, geniale inventiva dei divertissement, vette di intensità lirica, sperimentazione e audacia armonica: qui tutto è ricchezza e genialità» scrive Pichon nel programma, spingendosi a dire che «Rameau carica la sua partitura con così tanta emozione che sconvolge il paesaggio, sposta i confini. Liberandosi dai codici, detronizza la supremazia lullysta e il suo genio segna per sempre lo stile e l’orchestra francese, aprendo la strada a esperimenti e sviluppi che Berlioz e Debussy proseguiranno in seguito». La ricchezza armonica di Rameau trova nelle sue mani esperte una perfetta realizzazione.

A dispetto del titolo i due personaggi principali di Hippolyte et Aricie sono Phèdre e Tésée, qui affidati a due interpreti sommi. Sylvie Brunet-Grupposo si conferma grande tragédienne oltre che eccellente cantante che sa dosare la sua potenza vocale nel dipingere un personaggio complesso e umano. Combattuti tra ira e pianto, i suoi sono momenti di grande teatro. Tornato nella parte che ha affinato nel tempo, Stéphane Degout è un Tésée difficilmente superabile per intensità ed efficacia di eloquenza, sonorità del registro basso e proprietà di dizione, eleganza nel fraseggio e gamma di sfumature espressive. Come Hippolyte Reinoud van Mechelen esprime il suo registro di haute-contre con voce limpida mentre la sua Aricie è una tenera ma solida Elsa Benoit. Di eccellente livello anche gli altri interpreti: Eugénie Lefebvre (Diane), Edwin Fardini (ironico Tisiphone) e Séraphine Cotrez (Œnone). Nelle parti di Neptune e Pluton il previsto Nahuel di Pierro è sostituito con autorevolezza da Arnaud Richard mentre Léa Desandre ci delizia nelle quattro parti di Prêtresse, Chasseresse, Matelote e Bergère. Ottima come sempre la prova fornita dal coro Pygmalion per precisione, coesione e disinvoltura in scena.

Nell’allestimento di Jeanne Candel, attrice e regista teatrale debuttante nella lirica, è difficile trovare una convincente chiave di lettura e non illuminano le sue note di regia in cui cita il Convivio di Platone e annuncia l’intenzione di sostituire al prologo del Pellegrin un altro costituito da letture di Racine (la Phèdre, ovviamente) e aneddoti raccontati da un’attrice. Di questa intenzione non rimane nulla però nell’esecuzione: durante l’ouverture vediamo Aricie davanti a un sipario bianco indossare una tuta bianca per prepararsi ad entrare nel tempio. Gli adepti di Diana sono anche loro in tuta da imbianchino e usano il fucile per sparare colori sulla tela bianca – dopo nella scena venatoria suoneranno il fucile come un corno da caccia…

I costumi sono l’elemento più spiazzante dell’allestimento: Hippolyte e Tésée indossano improbabili costumi d’epoca con ridicole gorgiere e ancora più ridicole gonne, Phèdre ed Œnone copricapi orientaleggianti, gli dèi maschili sono in giacca e cravatta. La scenografia di Lisa Navarro dell’entrata all’oltretomba del secondo atto consiste in una struttura di cemento e acciaio con scale e nel mezzo un ascensore per scendere nei piani bassi dell’inferno. Tésée percorre senza pace le scale come in una gabbia ed è questo l’unico momento totalmente convincente dell’aspetto visivo. Inutilmente grottesco è invece l’ingresso dei coristi vestiti come donne delle pulizie per asciugare il sangue che cola dai gradini. La stessa struttura è utilizzata per il palazzo di Tésée (atto terzo) e il bosco consacrato a Diane (atto quarto) e il giardino dell’atto quinto, qui un obitorio con il cadavere di Phèdre e i due giovani che si risvegliano chiedendosi dove sono. 

Mancando i balletti, i momenti a questi destinati sono riempiti da pantomime e ingenui tableaux vivants come quello dei cacciatori con i coristi-cani scodinzolanti, un imbarazzante cervo in calzamaglia color carne e corna tenute sulla testa, alberi a loro volta tenuti in piedi da servi di scena e nuvole dipinte che scendono dall’alto. Il balletto dei marinai è invece occasione per inscenare una specie di mascherata di carnevale sulla spiaggia. È chiaro che la regista vuole ricreare lo spirito dello spettacolo barocco, ma le sue scelte non sono sempre felici e comprensibili.  Che Léa Desandre dopo essere apparsa come sirena entri in scena in bicicletta nel finale per cantare «Rossignols amoureux» mentre scuote i tendaggi dell’obitorio non stupisce più di tanto perché a quel punto uno ha smesso di farsi domande.

Ermione

Gioachino Rossini, Ermione

Napoli, Teatro di San Carlo, 7 novembre 2019

★★☆☆☆

(video streaming)

«Un’opera per la posterità»

Nel suo Rossini Giovanni Carlo Ballola intitola “La course à l’abîme” il capitolo dedicato ad Ermione: «tutto in questa “azione tragica” suona unico, cominciando dallo scandalo della sua apparizione e scomparsa dalle scene – fatto eccezionale non solo per un compositore di cartello come Rossini, ma per il coevo sistema produttivo dell’opera, improntato a un intenso dinamismo. Più che un fallimento, una morte apparente fu quella che segnò il destino storico e ricettivo di questo spartito apparso il 27 marzo 1819 al San Carlo col supporto di un cast ormai famoso (la Colbran protagonista, la Pisaroni come Andromaca, Nozzari, David e Ciccimarra rispettivamente Pirro, Oreste e Pilade, Benedetti come Fenicio) ma che questa volta non fu garante non che del buon esito della serata, della stessa fortuna dell’opera. Alla quale non valse la fama dell’autore, tale ormai da assicurare quanto meno una diffusione mediocre al più modesto dei suoi spartiti». Che fosse un’opera dall’accidentato destino e anticipatrice dei tempi lo ammise il suo stesso autore, che sapeva di averla scritto per i posteri, «ma il suo tempo sembra non arrivare mai» afferma Alberto Mattioli in occasione di questa discussa ripresa.

Duecento anni dopo e nello stesso teatro napoletano, ritorna dunque questo tormentato lavoro, ma la sfortuna non sembra volerlo abbandonare: per la parte di Pirro si è succeduta una serie di forfait da capogiro (Enea Scala, John Osborn, Vladimir Dmitriuk…) e infine è andato in scena l’interprete previsto per Pilade, John Irvin,  unanimemente definito il più debole del cast per l’esilità della voce e la mancanza di proiezione del suono, oltre che per la scialba presenza scenica. Ma qui il difetto sta in buona parte nella regia di Jacopo Spirei che questa volta non si dimostra convincente, anzi sembra rinunciatario, senza un’idea più o meno forte che dia un significato alla produzione. L’ambientazione moderna, con le scene di Nikolaus Webern e gli incongrui costumi di tutte le epoche possibili di Giusi Giustino, rimane fredda e la direzione attoriale assente. Che i duetti più drammatici avvengano mentre si prepara la tavola del banchetto il regista ce lo poteva risparmiare, così come il coltello da caccia, l’«acciaro». Per non dire della carneficina finale. Suo solo merito è di aver lasciato chiuso il sipario durante la sinfonia con il coro dietro che preannuncia quello che si vedrà, una trovata del genio rossiniano che ai suoi tempi sconcertò il pubblico. Deludente è anche la direzione di Alessandro de Marchi da cui ci si poteva aspettare qualcosa di meglio della lettura incolore fornita, anche a causa di un’orchestra imprecisa e sotto tono sia negli archi che nei fiati.

Per fortuna in scena ci sono due donne di temperamento nelle parti di Ermione e Andromaca. Angela Meade, che aveva già interpretato Ermione con Alberto Zedda a La Coruña, esibisce la sua imponenza vocale, e fisica, con autorevolezza e ha toni trascinanti nei momenti più drammatici. La dizione non è sempre perfetta (doppie latitanti e vocali larghe), ma le agilità sono ben realizzate e il timbro luminoso. Più caldo e sensuale quello di Teresa Iervolino con forse qualche cautela in più negli acuti. Antonino Siragusa (Oreste) come sempre canta tutte le note, con predilezione per le più acute, come sa fare lui, ossia gridate. Filippo Adami (Pilade), Guido Loconsolo (Fenicio) e Gaia Petrone (Cleone) completano un cast un po’ allo sbaraglio, come il coro tappezzeria.

Come altre volte, purtroppo, la ripresa video dal San Carlo è dilettantistica, di pessima qualità le immagini e l’audio, con le voci del tutto sbilanciate rispetto all’orchestra. Come se non bastasse, la trasmissione di Operavision avviene con un volume di suono appena udibile e con fastidiosi problemi di sincronizzazione.

Ezio

Georg Friedrich Händel, Ezio

★★☆☆☆

Schwetzingen, Schlosstheater, 23 maggio 2009

(registrazione video)

C’è del marcio nella Roma imperiale

Terzo e ultimo lavoro su testo metastasiano questo di Händel, cupo melodramma tratto dalla tragedia Britannicus di Racine. Il libretto fu intonato anche da Porpora (Venezia 1728), Hasse (Napoli 1730; nuova versione: Dresda 1755), Jommelli (Bologna 1741), Traetta (Roma 1757), Sacchini (Napoli 1771). Composto tra novembre 1731 e l’inizio del 1732, Ezio debuttò il 15 gennaio di quell’anno al King’s Theatre di Haymarket. Solo quattro furono le repliche vivente Händel e l’opera non raggiunse mai una grande popolarità.

Atto primo. L’imperatore romano Valentiniano accoglie a Roma il generale Ezio, trionfatore sugli Unni di Attila. Massimo, padre di Fulvia, amata di Ezio, cerca di provocare la rovina del generale, accusandolo di tradimento. Valentiniano vorrebbe poter controllare Ezio dandogli in sposa la sorella Onoria, ma il generale confessa il suo amore per Fulvia, suscitando nei presenti ire e gelosie.
Atto secondo. Fallisce un attentato di Massimo contro Valentiniano; l’imperatore sospetta che sia Ezio il mandante. Fulvia conosce la verità, ma non ha il coraggio di denunciare il padre per scagionare l’amato. Varo consiglia a Fulvia di offrirsi in moglie a Valentiniano, unico modo per salvare la vita a Ezio. La ragazza però dichiara sdegnosamente l’immutato suo amore per il generale: l’imperatore, furibondo, getta quest’ultimo in carcere.
Atto terzo. Mentre Onoria tenta invano di intercedere per Ezio, Valentiniano finge di perdonare il traditore, ma ordina intanto a Varo di ucciderlo. Ad assassinio avvenuto, l’imperatore scopre sconcertato la verità sulla fallita congiura. Quando Massimo attacca con le sue truppe il Campidoglio, le sorti dell’impero e la vita di Valentiniano vengono salvate proprio da Ezio, che era stato risparmiato da Varo. Il perdono e l’amore trionfano infine sugli intrighi di palazzo.

Rispetto alla coeva edizione discografica di Alan Curtis, questa produzione degli Schwetzinger Festspiele 2009 con vari tagli dura quasi un’ora di meno. Meno male. Il livello è molto modesto sia in buca (con la Kammerorchester Basel diretta metronomicamente da Attilio Cremonesi) sia sulla scena, dove i cantanti, già di per sé inadeguati, devono soddisfare le richieste di un regista, Günter Krämer, che li costringe a ballare il tango, correre su e giù per una ripida scala, fare le capriole e cantare in scomodissime posizioni secondo una drammaturgia che non propone nulla di nuovo se non il solito cliché potere-sesso-violenza condito da balletti (coreografie di Otto Pichler) in forte contrasto con la musica. Ad esempio, durante la drammatica aria di Fulvia «Quel finger affetto» i soldati, sempre sporchi di sangue, fanno esercizi alla sbarra. Non sono le uniche gratuità: Varo canta la sua aria «Nasce al bosco in rozza cuna» distribuendo garofani rossi in platea. Inutile aggiungere che, fedele alla tradizione del più corrivo Regietheater, lo scenografo Jürgen Bäckmann non si fa mancare il carro armato in bilico sulla scalinata – e siamo in un teatrino rococo!

La parte che fu del Senesino è affidata a Yosemeh Adjei, un controtenore volenteroso e nient’altro, ma le cose non vanno meglio con gli altri interpreti e peggio con il Valentiniano di Rosa Bove e il Massimo di Donát Havár, entrambi ahimè sfiatati. Si salva giusto l’Onoria di Hilke Andersen. Gli scarsi applausi del pubblico si concentrano sulla Fulvia di Netta Or dopo la sua aria «La mia costanza non si sgomenta», ma solo per la bellezza dell’aria, non certo per il timbro della cantante.

Hippolyte et Aricie

Jean-Philippe Rameau, Hippolyte et Aricie

★★★☆☆

Berlino, Staatsoper Unter den Linden, 28 novembre 2018

(video streaming)

Rameau al laser

Eliminato il Prologo, la rappresentazione berlinese di Hippolyte et Aricie inizia col duetto del primo atto dei protagonisti titolari. Un altro duetto drammaticamente incalzante sarà quello del terzo atto tra Hippolyte e Phèdre, ma molti altri sono i momenti in cui le voci si incrociano in questa straordinaria opera prima di Rameau la cui musica stupì nel 1733 e non finisce di stupire oggi.

Sir Simon Rattle alla testa del Freiburger Barockorchester sceglie la versione del 1757, la terza, la più raramente eseguita, quella senza Prologo appunto, e con l’aggiunta del duo tra Tisiphone e Thésée, il monologo di Phèdre nel terzo atto e l’audace struttura armonica che Rameau aveva modificato nella seconda versione del 1742. I movimenti delle numerose danze, i colori dell’orchestra, la caratterizzazione delle arie, tutto è vivacemente modulato dal direttore inglese mentre l’orchestra barocca indulge nelle preziosità timbriche della partitura.

Ólafur Elíasson artista islandese di installazioni in grande scala si occupa della scenografia, delle luci e dei costumi. In uno spazio completamente vuoto e nero crea suggestioni spaziali con raggi di luce che vengono riflessi da mille specchi, compresi quelli dell’abito di Phèdre. Lampi di luce infastidiscono gli spettatori di platea, mentre la regia video abilmente li evita. Le tre Parche, imbozzolate in costumi di quello che sembra tulle bianco, trafiggono Thésée con raggi al laser sparati dalle dita; nel quadro degli inferi i personaggi hanno il capo inserito in anelli borromei che illuminano il volto smaterializzandone il corpo; una superficie increspata da onde che interferiscono formando complesse strutture simmetriche fa da sfondo; le silhouette nere dei danzatori riflesse en abyme da una scatola di specchi: molti sono i momenti di una magia visuale non particolarmente nuova, anzi forse un po’ decorativa, ma interessante. Aletta Collins, regista coreografa, firma stilizzati ma fluidi balletti in cui prevale l’improvvisazione, proprio come nelle danze francesi dell’epoca.

Anna Prohaska (Aricie), Elsa Dreisig (Diane) e Magdalena Kožená (Phèdre) formano un cast femminile di grande qualità, mentre nel reparto maschile primeggia Gyula Orendt, Thésée sensibile e dal timbro seducente. Reinoud Van Mechelen ha la leggerezza e delicatezza richieste dal personaggio di Hippolyte, ma nel confronto con la matrigna manca di pathos e non riesce a dare incisività al personaggio. Peter Rose è un Pluton autorevole, efficaci gli altri interpreti.

Mitridate

MITHRIDATE - De Wolfgang Amadeus MOZART - Livret de Vittorio Amedeo CIGNA SANTI - Direction musicale : Emmanuelle HAIM - Dramaturgie : Frederique PLAIN - Mise en scene : Clement HERVIEU LEGER - Decors : Eric RUF - Costumes : Caroline DE VIVAISE - Lumieres : Bertrand COUDERC - Avec : Patricia PETIBON (Aspasie) - Myrto PAPATANASIU (Xiphares) - Christophe DUMAUX (Pharnace) - Cyrille DUBOIS (Marzio) - Le : 08 02 2016 - Au Theatre des Champs Elysees - Photo : Vincent PONTET

Wolfgang Amadeus Mozart, Mitridate

★★★★☆

Parigi, Théâtre des Champs-Élysées, 20 febbraio 2016

(live streaming)

Dramma di famiglia in un interno

Occorre ricordare che Mozart aveva solo 14 anni quando presentò a Milano il suo Mitridate, re di Ponto? Primo di una serie di tre lavori destinati al Teatro Ducale (gli altri saranno Ascanio in Alba e Lucio Silla), è anche il suo primo dramma serio e pur in una certa acerbità di scrittura si notano la perfetta conoscenza e l’aderenza del giovanissimo compositore ai dettami dell’opera seria italiana. L’inusuale interesse per le emozioni estreme si esprime nelle magnifiche arie che mettono in grande evidenza le capacità dei cantanti e i loro virtuosismi vocali, a scapito però di una certa sincerità ed efficacia drammatica della vicenda.

La lettura di Clément Hervieu-Léger nella sua messa in scena ora al Théâtre des Champs-Élysées, riflette proprio questa staticità. Un pesante sipario di metallo ossidato si alza rivelando la sala di un teatro abbandonato (la scenografia è firmata da Éric Ruf e potrebbe essere quella per uno spettacolo del compianto Chéreau) in cui sono accampati feriti alcuni sfollati in abiti moderni tra cui si percepisce subito una grande tensione: fuori ci sarà sì una guerra, ma qui dentro non meno forti sono i conflitti interpersonali. Leggono su un vecchio libretto i recitativi dell’opera e diventano attori che con pochi dettagli (costumi e gioielli per le donne, cappottoni militari per gli uomini) si trasformano nei personaggi del dramma in cui il re Mitridate è coinvolto nel conflitto tra i figli Farnace e Sífare per l’amore di Aspasia. Il regista è stato attore della Comédie-Française: chissà quante volte avrà interpretato una tragedia di Racine – tra cui anche il Mithridate – ed è stato anche collaboratore di Chéreau. Da ciò la cura attoriale con cui muove gli interpreti e l’intensità dei rapporti espressi in scena.

Con cospicui e opportuni tagli ai recitativi e alcuni rimaneggiamenti (l’aria di Ismene viene spostata dal primo al secondo atto) la direzione musicale di Emmanuelle Haïm e del suo ensemble Concert d’Astrée, specialista di questo repertorio, è netta e scattante con una grande differenziazione dinamica dei vari numeri musicali.

Cast tutto eccellente. Gli applausi di cortesia che il pubblico concede dopo le prime arie diventano via via più calorosi dopo le prestazioni di Michael Spyres che, forse troppo giovanile per la parte, sfoggia però un’invidiabile estensione che tocca acuti vertiginosi e gravi possenti. Superba l’Ismene di Sabine Devieilhe (rivelazione della serata) ed eccellente Christophe Dumaux: non c’è agilità vocale nella parte di Farnace che il cantante francese non esegua con proprietà e intensità interpretativa. Da manuale è la sua resa di «Va’, l’error mio palesa» con cui si dimostra ancora una volta tra i migliori controtenori del momento. A questo proposito, visto che si è fatto trenta si poteva fare trentuno: se qui Farnace è un controtenore, perché non utilizzare un contraltista per Sífare? Alla prima milanese erano infatti due castrati, Giuseppe Cicognani e Pietro Benedetti, a impersonare i due fratelli rivali.

Patricia Petibon è un po’ sotto tono all’inizio, ma poi si riprende vocalmente e la sua interpretazione diviene più intensa. Il Sífare di Myrtò Papatanasiu non è del tutto convincente in abiti femminili e ha una dizione non sempre perfetta. Di buon livello gli altri interpreti, Jaël Azzaretti come Arbate (un altro castrato nell’originale) e Cyrille Dubois nella breve parte di Marzio.

Mitridate, re di Ponto

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★★★☆☆

Attenzione alle date: nel 1770 Mozart ha quattordici anni, è per la prima volta in Italia e quel maneggione del padre riesce a ottenere per il figlio la commissione per un’opera, la sua prima opera seria. A Bologna il 29 settembre Mozart inizia a scriverne la partitura e il 26 dicembre il lavoro va in scena all’allora Teatro Ducale di Milano. Il teatro andrà a fuoco sei anni dopo per essere sostituito dall’attuale Teatro alla Scala.

Il libretto, tratto dalla tragedia Mithridate di Racine, era stato scritto da Vittorio Amedeo Cigna-Santi per la musica di un’opera di Quirino Gasparini andata in scena tre anni prima al Regio di Torino e per il debutto mozartiano milanese viene scritturato lo stesso cast di quell’allestimento. Premiato da ben venti repliche, lo spettacolo ebbe un bel successo, come venne annunciato su “La Gazzetta di Milano” da un cronista d’eccezione, quell’abate Parini che aveva tradotto la tragedia dal francese. Anche Leopold in una lettera alla moglie confida orgoglioso che «l’opera di nostro figlio è, come dicono gli italiani, “alle stelle”».

Condita di risvolti politici, la vicenda è centrata sul conflitto tra Mitridate (Mitridate VI Eupatore) e i suoi due figli, Sífare e Farnace, per la mano di Aspasia.

Prologo. Mitridate, avendo subito una pesante sconfitta in battaglia, è dato per morto. Questa falsa notizia viene passata da Arbate, il governatore, ad Aspasia (la fidanzata di Mitridate) e a Farnace e Sifare (i figli di Mitridate).
Atto primo. Scena 1. Arbate, il governatore di Nymphæum, accoglie Sifare. Apprendiamo che Sifare è risentito con suo fratello, Farnace, a causa dei forti legami di suo fratello con i loro nemici, i Romani. Arbate promette la sua fedeltà a Sifare. Aspasia supplica Sifare di aiutarla contro le avances di Farnace. Egli accetta la sua richiesta e rivela il suo amore per lei. Scena 2. Farnace fa le sue avances ad Aspasia. Lei rifiuta, sostenuta da Sifare, che la protegge dal fratello violento. Arriva la notizia che Mitridate è vivo e si sta avvicinando alla città. Arbate esorta i fratelli a nascondere le loro differenze e a salutare il padre. I fratelli accettano di nascondere i loro sentimenti per Aspasia. Farnace cospira con Marzio, ufficiale legionario romano, contro Mitridate. Scena 3. Mitridate arriva sulle rive del Nymphæaum con la principessa Ismene, figlia del suo alleato, il re di Partia. Mitridate vuole che Farnace sposi Ismene, la sua promessa sposa. Ismene è innamorata di Farnace ma avverte dei problemi ed è preoccupata per il suo futuro. Arbate dice a Mitridate che Farnace sta inseguendo Aspasia, senza menzionare Sifare. Il geloso Mitridate giura vendetta su Farnace.
Atto secondo. Scena 1. Farnace disprezza e minaccia Ismene. Lei lo dice a Mitridate, che le suggerisce di sposare Sifare. Mitridate chiede ad Aspasia un matrimonio immediato ma lei esita, dimostrandogli che è infedele. Aspasia confessa l’amore a Sifare ma entrambi accettano di separarsi per salvare il loro onore. Sifare progetta di partire e Aspasia è turbata dal conflitto tra amore e dovere. Scena 2. Mitridate è al corrente del complotto di Farnace contro di lui con i romani; progetta la sua vendetta, nonostante l’offerta di pace di Marzio, e arresta Farnace per giustiziarlo. Ismene salva il principe, che ammette il suo tradimento ma coinvolge Sifare. Mitridate inganna Aspasia per farle ammettere il suo amore per Sifare e giura vendetta. Aspasia e Sifare desiderano morire insieme, nel timore delle minacce di Mitridate.
Atto terzo. Scena 1. Ismene, ancora innamorata di Farnace, cerca di convincere Mitridate a perdonare Aspasia. I Romani attaccano e Mitridate parte per la battaglia. Aspasia contempla il suicidio con il veleno. Anche Sifare vuole morire e si unisce a suo padre nella battaglia. Scena 2. Marzio libera Farnace e gli promette il dominio di Nymphæum. Farnace cambia idea e decide di schierarsi con Mitridate. Scena 3. Sconfitto, Mitridate si suicida, evitando la prigionia. Prima di morire dà la sua benedizione a Sifare e Aspasia e perdona Farnace, che ora accetta di sposare Ismene. Tutti e quattro si impegnano a liberare il mondo da Roma.

Dopo l’ouverture in re maggiore dall’ampio respiro sinfonico e dopo centocinque battute di recitativo abbiamo la prima delle ventuno arie solistiche di cui è composta l’opera (1). Con largo impiego di timpani (un’idea del direttore Paul Daniel, visto che la partitura non li prevede), Aspasia con «Al destin che la minaccia» ci immerge in pieno barocco, con trilli, agilità, fioriture, abbellimenti e variazioni nei da capo come nelle opere di Piccinni, Hasse, Porpora o Jommelli che Mozart aveva ascoltato a Napoli e di cui il quattordicenne compositore aveva integrato perfettamente i canoni compositivi. (Ma anche un po’ di Gluck sembra trasparire nella cavatina di Aspasia del terzo atto «Pallid’ombre, che scorgete»). Subito dopo parte un recitativo accompagnato, ce ne saranno altri sei in quest’opera, e inizia un’aria altrettanto pirotecnica dove Sífare enuncia la sua filosofia: vada per una «beltà tiranna», ma «l’orgoglio d’un audace, no, tollerar [il cuor] non sa».

Fin qui il genio mozartiano ancora non si avverte. Secondo l’Einstein «Mozart era troppo giovane per saper sfruttare le qualità di questo libretto. Naturalmente, egli non si preoccupò del dramma, bensì dei cantanti […] tutti pressoché dello stesso genere: due soprani femminili e due castrati (un soprano e un contralto)» di cui il pubblico apprezzò le fioriture virtuosistiche. Il giudizio dei critici dell’epoca si potrebbe riassumere così: «Quante note superflue! Qualsiasi musicista italiano avrebbe composto con maggior semplicità e maggior efficacia al tempo stesso! Ma quale talento!».

Il giovane compositore conferisce comunque insolita intensità emotiva alla rappresentazione degli affetti tipici dell’opera seria del Settecento, che vengono qui spinti all’estremo: incalzante e convulsa l’aria di Aspasia «Nel sen mi palpita», ambigua e tormentata quella di Mitridate «Se di lauri il crine adorno», di estatica serenità elegiaca e malinconica, sottolineata dall’accompagnamento del corno, per «Lungi da te, mio bene» di Sífare o del suo duetto con Aspasia, di furore insensato in «Vado incontro al fato estremo» di Mitridate e così via.

Ampiamente scorciata nei recitativi (da cui vengono così a mancare elementi essenziali della vicenda), ma anche nel numero di arie (ne sono state espulse tre), arriva sulle scene del Covent Garden nel 1991 questa produzione che ha avuto in seguito numerose riprese, anche recentemente.

L’allestimento di Graham Vick si ispira al teatro kabuki con i suoi gesti stilizzati ed esagerati. Scene e costumi, anche questi eccessivi seppure spettacolari, sono di Paul Brown: un mix di India, Cina e Spagna di Velázquez. I movimenti coreografici invadenti che sottolineano inutilmente le emozioni dei personaggi si devono a Ron Howell. La lettura di Vick è comunque coerente con lo spirito barocco del lavoro, che non si affida allo sviluppo drammaturgico dei caratteri o sulla plausibilità dell’azione, ma soprattutto alla bellezza delle singole arie.

Alla testa dell’orchestra della ROH Paul Daniel offre una direzione molto incisiva e ritmicamente sostenuta, talora però pesante e prevaricante sulla voce di cantanti.

I tre personaggi maschili – un tenore, un soprano en travesti e un controtenore – sono sostenuti da Bruce Ford (un Mitridate con alcune difficoltà vocali), Ann Murray (un Sífare sfaccettato seppure un po’ aspro) e Jochen Kowalski (Farnace), l’interprete più a suo agio in questo repertorio, ma quanta strada è stata fatta da allora nel campo dei controtenori! Di buon livello Luba Orgonasova, un’Aspasia di temperamento, e Lillian Watson, eterea Ismene.

Molto apprezzato quando fu presentato la prima volta, ora l’allestimento denuncia la sua età, sembra una versione camp degli allestimenti di Pizzi degli stessi anni, anche se molte delle invenzioni di Vick sono state ampiamente saccheggiate dalle recenti regie.

La registrazione su DVD è del 1993 ed è un riversamento da un supporto analogico: l’immagine in 4:3 è infatti granulosa e i colori talora sbavati. Sottotitoli solo in inglese e nessun extra.

(1) Struttura dell’opera
Ouverture
Atto primo
1. Aria Al destin che la minaccia (Aspasia)
Recitativo accompagnato Qual tumulto nell’alma e
2. Aria Soffre il mio cor con pace (Sifare)
3. Aria L’odio nel cor frenate (Arbate)
4. Aria Nel sen mi palpita (Aspasia)
5. Aria Parto: nel gran cimento (Sifare)
6. Aria Venga pur, minacci e frema (Farnace)
7. Marcia
8. Cavata Se di lauri il crine adorno (Mitridate)
9. Aria In faccia all’oggetto (Ismene)
Recitativo accompagnato Respira alfin e
10. Aria Quel ribelle e quell’ingrato (Mitridate)
Atto secondo
11. Aria Va, l’error mio palesa (Farnace)
12. Aria Tu che fedel mi sei (Mitridate)
Recitativo accompagnato Non più, Regina e
13. Aria Lungi da te, mio bene (Sifare)
Recitativo accompagnato Grazie ai numi partì e
14. Aria Nel grave tormento (Aspasia)
15. Aria So quanto a te dispiace (Ismene)
16. Aria Son reo; l’error confesso (Farnace)
17. Aria Già di pietà mi spoglio (Mitridate)
Recitativo accompagnato Io sposa di quel mostro e
18. Duetto Se viver non degg’io (Aspasia, Sifare)
Atto terzo
19. Aria Tu sai per chi m’accese (Ismene)
20. Aria Vado incontro al fato estremo (Mitridate)
21. Recitativo accompagnato e Cavatina Ah ben ne fui presaga! – Pallid’ombre, che scorgete (Aspasia)
22. Aria Se il rigor d’ingrata sorte (Sifare)
23. Aria Se di regnar sei vago (Marzio)
24. Aria Già dagli occhi il velo è tolto (Farnace)
25. Coro Non si ceda al Campidoglio (Aspasia, Sifare, Ismene, Arbate, Farnace)

  • Mitridate, Haïm/Hervieu-Léger, Parigi, 20 febbraio 2016
  • Mitridate, Minkowski/Miyagi, Berlino, 11 dicembre 2022
  • Mitridate, Bolton/Guth, Madrid, 4 aprile 2025