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Sesso, droga e dodecafonia
Dramma lirico in un atto e sette scene, Boulevard Solitude è la riscrittura moderna del dramma di Prévost ambientato nella Parigi del secondo dopoguerra e centrato sul personaggio di un des Grieux tormentato e incline alla droga piuttosto che in quello di Manon, una Lulu causa incosciente di distruzione e vittima essa stessa.
In una stazione lo studente Armand Des Grieux incontra Manon Lescaut che, accompagnata dal fratello, sta partendo per entrare in collegio a Ginevra. I due si innamorano e partono quindi insieme per Parigi. Qui ben presto i soldi finiscono e il fratello di Manon sistema la sorella dal ricco Lilaque dove fa la bella vita finché Lescaut rapina il vecchio ed entrambi vengono cacciati. Des Grieux è tornato ai suoi studi ma con il ritorno di Manon riprende la loro relazione. Lescaut ancora una volta entra in azione iniziando il giovane alla droga e sistemando Manon presso il figlio di Lilaque. Ancora innamorata, Manon invita Des Grieux mentre il suo amante è assente, ma anche questa volta Lescaut li caccia nei guai rubando un dipinto. Il vecchio Lilaque li scopre e durante una colluttazione con Lescaut viene ucciso da Manon. Nella scena finale la ragazza è condotta in prigione tra la disperazione di Des Grieux.
In quest’opera Henze non abbandona la tecnica dodecafonica dei suoi primi lavori, ma introduce elementi di un jazz distorto atto a descrivere il contesto dell’esistenzialismo analizzato in quel periodo (gli anni ’50) da Jean-Paul Sartre e cantato da Juliette Gréco.
Nella scena centrale del dramma il compositore esibisce la sua maestria contrappuntistica quando Des Grieux dialoga prima con uno studente e poi con Manon sul canto del coro che declama versi latini e su un tappeto sonoro di leggere percussioni e campane. E nella scena che segue gli strascicati temi di valzer e gli interventi prima a bocca chiusa e poi parlati di un coro fuori scena dimostrano l’abilità di Henze a metabolizzare generi musicali diversissimi.
Diretto ispiratore del lavoro è il film di Clouzot Manon (1949), ma il titolo è stato probabilmente suggerito a Henze dal film Sunset Boulevard di Billy Wilder (in francese Boulevard du crépuscule) che il compositore aveva visto durante una sua visita a Parigi. Su libretto di Grete Weil da un testo di Walter Jockish, Boulevard Solitude è la prima grande opera di Henze e andò in scena nel 1952 a Hannover poco prima del suo trasferimento in Italia per sfuggire al clima politico e omofobico del suo paese (ora forse farebbe il contrario…).
In Italia Henze rimarrà fino alla morte nel 2012 e la sua casa, «piccola corte rinascimentale di campagna», prima in Umbria e poi ai Castelli romani, sarà attribuita da Alberto Arbasino in Fratelli d’Italia al musicista alter ego Klaus, personaggio nel quale è facile riconoscere Henze stesso: «un giovanottino […] senza un ‘sistema’, senza riforme in testa, senza problemi di stile, senza manifesti per ‘un mondo nuovo dei suoni’», il quale «avrebbe cominciato a svolazzare sul palcoscenico come una lucciola, flirtando senza vergogna con tutti i generi musicali pensabili».
Boulevard Solitude è anche la sua opera più frequentemente rappresentata e questa è la produzione della Royal Opera House di Londra ripresa a Barcellona. Vediamo infatti il compositore ottantenne prendere posto al teatro Liceu per assistere alla rappresentazione nel marzo 2007 e ricevere alla fine i saluti degli interpreti scesi in platea con il pubblico in piedi a festeggiarlo. Neanche un mese dopo avrebbe però vissuto il suo più grande dolore: la morte del compagno di vita Fausto Moroni.
La magnifica messa in scena di Nikolaus Lehnhoff e Tobias Hoheisel ambienta la vicenda nell’atrio di una stazione ferroviaria che, con pochi cambiamenti (un dipinto, un lampadario, una sedia ecc.), diventa l’ambiente dei sette quadri della vicenda. Negli interludi orchestrali la scena ogni volta si ripopola del viavai di passeggeri frettolosi, militari, clochard, ‘signorine’, poliziotti, una suora, uomini d’affari, donne accompagnate o in angosciosa attesa di qualcuno che non arriva.
Con la sua riconosciuta abilità Zoltán Peskó spreme dall’orchestra catalana le delicatezze e le asprezze della partitura. Anche se non è troppo convincente come giovane e squattrinato studente, Pär Lindskog con quella sua voce che ricorda molto quella di Vickers si immerge validamente nel personaggio. Ancora meno plausibile come giovanissima Manon, ma vocalmente ineccepibile, è Laura Aikin cui non resta che accentuare il ruolo di femmina fatale (in tutti i sensi) per gli uomini che incontra. A Tom Fox spetta la parte del cattivo assoluto, quello spietato ruffiano che è il fratello Lescaut.
Sottotitoli in cinque lingue, ma non l’italiano e nessun bonus.
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