Die lustige Witwe (La vedova allegra)

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★★☆☆☆

Una Vedova allegra di routine

Ma che cos’è l’operetta? Un insieme di arie alternate a interventi parlati? Lo è anche il Fidelio, allora. Un’opera molto allegra? Il barbiere di Siviglia non lo è? L’ambientazione per lo più alto-borghese di molte sue storie? Ma allora anche Der Rosenkavalier! La presenza di danze? Sì, ma non solo. La leggerezza con cui sono trattate le vicende e l’orecchiabilità delle melodie? Il lieto fine? Ecco, tutto questo è l’essenza del genere, ma soprattutto l’operetta ha «l’unico obiettivo di solleticare il gusto di uomini d’affari spregiudicati arrivisti, o più generalmente di un ceto borghese politicamente miope e culturalmente poco esigente, pronto ad abbandonarsi tra le braccia di una semplice evasione alla quotidianità e di ancor più facili e gratuite emozioni». (Alberto Massarotto)

La vedova allegra ne è l’esempio più conosciuto, uno dei risultati più brillanti – e la preferita da Adolf Hitler, malgrado l’origine ebraica dei due librettisti. Anche la sarcastica citazione da parte di Šostakovič dell’aria «Da geh’ ich zu Maxim» nella sua settima sinfonia “Leningrado” (il basso ostinato del terzo tema del primo movimento) o la nostalgica reminiscenza nel Rondò-Burlesca della IX Sinfonia di Mahler stanno lì a dimostrare la popolarità del lavoro.

A pochi anni dal Pelléas et Mélisande di Debussy, dalla Madama Butterfly di Puccini e nello stesso anno della Salome di Richard Strauss, il lavoro di Franz Lehár il 30 dicembre 1905 inizia a Vienna il suo trionfale cammino. Il frizzante libretto di Victor Léon e Leo Stein è tratto da L’Attaché d’ambassade di Henri Meilhac.

Atto primo. Nonostante la festosa atmosfera del ballo per il compleanno del principe di Pontevedro, nell’ambasciata parigina del piccolo stato si vive una situazione d’emergenza: occorre assicurarsi che l’eredità milionaria di Hanna Glawari, da poco diventata vedova, non finisca nelle mani di un nuovo marito straniero, pena la bancarotta totale delle finanze dello stato. Questa è l’unica preoccupazione dell’ambasciatore, il barone Zeta, che non nota l’attrazione che sta inesorabilmente avvicinando sua moglie Valencienne al galante Camille de Rossillon. Al diplomatico è balenata un’idea: affidare al segretario (l’attaché) d’ambasciata, l’affascinante conte Danilo Danilowitsch, il compito di far innamorare di sé la ricca vedova, e così trattenere nell’ambito di Pontevedro il prezioso tesoro dell’ereditiera. Invitata al ballo dal barone, quest’ultima fa il suo ingresso all’ambasciata, dimostrandosi non solo giovane e bella, ma anche pericolosamente piena di vita. Finalmente arriva anche il conte Danilo, che con fatica è stato convinto a lasciare il locale notturno (il celebre ‘Maxim’), dove, attorniato da frivole e piacevoligrisettes, passa buona parte del suo tempo; mentre si prepara controvoglia a compiere il proprio dovere patriottico, si imbatte in Hanna, che si rivela una sua antica conoscenza: la donna che aveva amato in gioventù, ma non aveva potuto sposare per differenza di condizione nobiliare. L’incontro riaccende l’amore in entrambi, ma nessuno dei due è disposto ad affidarsi alla rinascita di questo sentimento; Danilo afferma infatti di non voler esporsi all’equivoco di desiderare i soldi dell’eredità. Inizia dunque una lunga schermaglia amorosa, che durerà sino al termine dell’operetta. Nel frattempo anche Valencienne e Camille vivono la loro storia d’amore, con l’incidente della perdita di un compromettente ventaglio, quello di Valencienne, su cui l’amante ha scritto «ti amo». L’atto si chiude con un altro ballo, durante il quale Danilo fa affluire un cospicuo numero di ragazze, sufficiente per tutti gli uomini in sala; chiedendo una ragguardevole cifra per cedere il ballo che Hanna gli ha concesso, neutralizza i suoi molti pretendenti e si assicura così un romantico valzer con la vedova.
Atto secondo. Hanna ha organizzato nel suo palazzo una festa in costume pontevedrino; la donna vi canta una malinconica ballata, la canzone di Vilja e delle sue pene d’amore: una situazione condivisa da Hanna, che non giunge a dichiararsi a Danilo. Camille, intanto, è invece riuscito a vincere gli ultimi scrupoli di Valencienne e conduce la donna in un buio padiglione; il barone ha trovato il ventaglio della moglie, senza tuttavia riconoscerlo, e sta cercando chi possa essere l’amante di Camille (perché ha identificato la grafia sul ventaglio). Scoperto che Camille si è rifiugiato nel padiglione con l’amante ignota, ordina che venga rivelata l’identità della donna. Il marito tradito non ha però la sorpresa prevista, perché nel frattempo il fido Njegus ha scambiato Valencienne con Hanna, che esce appunto dal padiglione in compagnia di Camille. Con questa mossa imprevista la donna è riuscita anche a far ingelosire l’ignaro Danilo, che la tratterà con bruciante amarezza.
Atto terzo. Con l’aiuto di Njegus, Hanna ha disposto che un’ala del suo palazzo venga arredata in modo da imitare quel ‘Maxim’ tanto amato da Danilo; a tale scopo ha ingaggiato anche un’orchestra e le grisettes attive chez‘ Maxim’, coordinate da Valencienne. Tutti gli uomini restano incantati davanti a questa simulazione. Hanna rivela a Danilo come nel padiglione avesse solo recitato; quindi gli spiega che perderà la sua cospicua eredità, poiché essa spetta, in caso di nuove nozze, al nuovo marito e quindi a Danilo stesso. Fortunatamente a un pontevedrino, come aveva auspicato il barone, cui non è riservata nessuna amara sorpresa neppure per la fine dell’operetta: Valencienne ha infatti risposto a Camille, sullo stesso ventaglio, di essere «una moglie onesta».

Raina Kabaivanska, Joan Sutherland ed Elisabeth Schwarzkopf sono soltanto alcune delle innumerevoli dame ad aver portato in scena Hanna Glavari, la ricchissima ereditiera del fantasioso stato balcanico di Pontevedro le cui casse statali sarebbero al collasso se la signora sposasse uno straniero con conseguente fuoriuscita dei milioni della sua dote.

Nel 2004 l’Opera di Zurigo ne allestisce un’edizione con una convenzionale messa in scena di Helmuth Lohner. Sul podio un Franz Welser-Möst non proprio a suo agio in questo repertorio, meno che mai sul palcoscenico e con il boa di piume nel finale. Nel cast non spicca nessuna particolare personalità se non quella di Piotr Beczała, stella allora nascente, nel ruolo di Camille de Rosillon. Dagmar Schellenberger è una Hanna Glawari poco glamour e dalla voce non eccezionale e Rodney Gilfry un ancor meno convincente Danilo. Gli interventi parlati richiedono degli attori spigliati e dal ritmo infallibile, ma qui sono appena accettabili ad eccezione di Njegus, in cui si concentra l’umorismo del testo. Del tutto prevedibili poi le coreografie.

Cinque lingue, ma non l’italiano, per i sottotitoli. Nessun extra.

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