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Christoph Willibald Gluck, Alceste
★★★☆☆
Venezia, Teatro La Fenice, 24 marzo 2015
(streaming TV)
Tra archi e plissé
Per Venezia è la prima volta di Alceste mentre è la quarta per Pizzi (1966, 1984 e 1987 le precedenti produzioni), il quale ripropone qui la sua visione dell’opera manifesto della riforma gluckiana nella versione viennese (1767) del Calzabigi, in italiano quindi. In leggero ritardo, il nuovo allestimento della Fenice, in coproduzione col Maggio Fiorentino, vuole celebrare il tricentenario della nascita di Gluck (1714).
Se era sembrata freddamente stilizzata e statica la messa in scena di Robert Wilson vista a Parigi (ispirata al teatro Nō giapponese), Pizzi qui non è da meno: una polvere bianca sepolcrale ricopre la pelle dei personaggi, le scene e i costumi (francamente ridicoli quelli maschili con quella tenda plissettata sulla pancia, mentre le donne del coro il plissé ce l’hanno in testa). In un ossessivo bianco e nero con qualche tocco di giallo, le scenografie con archi, colonnati, pavimento a scacchiera e scalinate (realizzati in economia se visti da vicino) con quella loro fredda monumentalità ricordano il Piacentini dell’EUR.
Coerenti con la pulizia formale della musica e l’essenzialità dei contenuti e dei sentimenti – amore, morte e sacrificio sono le uniche nozioni sublimate in questa vicenda che vede le sue origini nella tragedia greca – le scenografie di Pizzi, ben illuminate dalle luci di Vincenzo Raponi, sono indubbiamente funzionali: grandi archi per il primo quadro, un albero con teschi appesi per il bosco degl’inferi, un letto matrimoniale sfatto per la camera regale. Pizzi si dimostra al solito bravo scenografo, mentre come regista attoriale si limita a suggerire agli interpreti e ai coristi pose statuarie o movimenti lungo linee geometriche semplici. Completamente mancato registicamente è poi l’intervento di Apollo, deus ex machina dell’affrettato happy end (1). I balletti sono qui ridotti a un unico intervento coreografico che riesce a essere stucchevole anche nella sua estrema brevità.
La direzione musicale di Guillaume Tourniaire ha dinamiche trattenute e fraseggi monocromi che stentano a valorizzare gli affetti in scena e le sfumature della partitura. Il giovane maestro francese suda a profusione (2), ma non sempre il suo sforzo viene espresso dall’orchestra della Fenice.
Anche l’interpretazione di Carmela Remigio nel ruolo titolare è coerente con la lettura scelta da regista e direttore: controllo del vibrato, valorizzazione della parola, passione trattenuta. Dal timbro chiaro e dal volume limitato nel registro medio e basso, talora sovrastato dall’orchestra, il soprano abruzzese non ha la luminosità della Plowright o la sontuosità della Norman, grandi interpreti della parte, per non dire della più recente e sorprendente Antonacci a Parma. I duetti con Admeto, un Marlin Miller che denota quasi subito difficoltà vocali e un accento ben poco musicale soprattutto nei recitativi, non riescono a commuovere poiché non scatta nessuna scintilla di empatia tra i due interpreti e le due voci rimangono emotivamente distanti. Di avvenente figura e discreta voce la Ismene di Zuzana Marková. Accettabili gli altri cantanti. Imbarazzanti come sempre i pur volonterosi bambini.
(1) Per una messa in scena molto più intrigante e coinvolgente dell’opera di Gluck si veda quella di Krzysztof Warlikowski diretta da Ivor Bolton. L’ultimo prodotto della gestione al Teatro Real di Madrid di Gérard Mortier (morto l’8 marzo 2014 poco dopo la prima dell’opera), a differenza di questa di Venezia ha avuto grande risalto sulla stampa internazionale e di settore.
(2) Nella ripresa televisiva di FranceTv per CultureBox il regista video insiste impietosamente su primissimi piani, esaltati dall’alta definizione, poco lusinghieri per gli artisti e controproducenti alla visione d’insieme della scena.
⸪