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Gioachino Rossini, Otello
★★★☆☆
Milano, Teatro alla Scala, 4 luglio 2015
Uno spettacolo salvato dai cantanti
«Ho letto che è tratto da Shakespeare». «Ma no, figurati», dice alla fine del primo atto il marito della coppia di probabili visitatori EXPO capitati per caso alla Scala in una torrida serata di luglio.
Sono passati 145 anni dall’ultima rappresentazione dell’Otello di Rossini nel massimo teatro italiano. È dal 1870 infatti che a Milano non viene data quest’opera che, dopo il subitaneo grande successo, fu però surclassata dall’omonimo lavoro di Verdi – e a ragione visto che dopo due interi atti di puro mestiere solo al terzo si arriva a qualcosa di veramente valido. La vicenda che conosciamo prende infatti vita solo allora, essendo prima la solita storia della figlia-che-disobbedisce-al-padre-che-la-destina-in-matrimonio-a-un-altro-da-quello-che-ama con schermaglie e duello tra i due pretendenti. Sullo sfondo la figura di Jago non ha neanche lontanamente la grandezza del personaggio di Shakespeare/Boito/Verdi e la scintilla dell’amore tra Otello e Desdemona qui non scatta mai. Il fatto che Rossini abbia scritto un lieto fine alternativo, che venne utilizzato in una ripresa a Roma quattro anni dopo nel 1820, dimostra lo «spirito antiromantico e da Restaurazione» del compositore, come nota Emilio Sala nel programma. Ricordiamo comunque che all’epoca i drammi di Shakespeare erano o sconosciuti o travisati.
Il motivo principale di questa lunga assenza dell’Otello di Rossini dalle scene milanesi è sicuramente dovuto alla difficoltà di trovare interpreti all’altezza delle proverbiali asperità delle parti vocali di tre dei cinque tenori, ma qui a Milano si è andati sul sicuro.
Di Gregory Kunde ci si stupisce ogni volta per la freschezza, lo squillo, la musicalità e la presenza scenica di questo giovane sessantenne e anche qui il tenore americano non ha fatto che dimostrare ancora una volta le eccezionalità delle sue doti vocali. Con i suoi tatuaggi in faccia più che “africano al servizio di Venezia” sembra però un guerriero Māori.
Degno avversario di Otello è il Rodrigo di Juan Diego Flórez, forse non al massimo delle sue prestazioni ieri sera, ma qui si è confermato il beniamino del pubblico scaligero con ovazioni dopo la sua aria del secondo atto e alla fine della rappresentazione. I duetti/duelli a colpi di acuti dei due interpreti si sono rivelati i momenti più memorabili della serata.
Buona prova ha dato il terzo dei tenori, Edgardo Rocha, insinuante Jago, che aveva già cantato la parte nella produzione di Zurigo con Bartoli e Osborn. Olga Peretjat’ko si è anche lei confermata valida interprete rossiniana, ma qui forse il timbro leggermente metallico della voce non si è adattato al personaggio di Desdemona e la cantante russa ha ricevuto qualche contestazione dal loggione. Il ricordo delle passate Zeani, Von Stade, Rinaldi e Cuberli forse non ha giocato a suo favore per l’esigente pubblico scaligero.
Pubblico che si è scatenato contro il maestro Muhai Tang, sostituto del previsto John Eliot Gardiner. Tang aveva già diretto l’opera a Zurigo con esiti felici, qui però ha deciso di utilizzare tempi enormemente dilatati (il primo atto dura più di un’ora e quindici minuti contro i sessanta minuti dell’edizione zurighese su bluray!) che hanno diluito il passo drammatico della vicenda ed esasperato gli spettatori. Peccato, perché il maestro cinese si dimostra buon concertatore per quanto riguarda i colori della partitura, e qui Rossini mette in evidenza le sue straordinarie doti orchestrali negli strumenti più dissimili, i corni e l’arpa, impiegati con genialità nei momenti clou della vicenda.
Ma è nei confronti della regia di Jürgen Flimm che si sono avute le intemperanze più veementi. Il vecchio regista tedesco già non aveva dato buona prova nel Fidelio, sempre di Zurigo, ma qui porta in scena poche idee neanche originali e mal realizzate in una scialba scenografia «da un’idea di Anselm Kiefer», artista tedesco autore di desolati paesaggi e tetre installazioni, che ambienta la vicenda in una Venezia claustrofobica: una scena fissa illuminata da luci fredde e racchiusa da tre pareti di tela grigia che delimitano uno spazio ridotto il cui pavimento è ricoperto di sabbia. Unici elementi presenti sono delle seggiole pieghevoli da giardino di osteria e alcuni tavoli. Nell’ultimo atto entrerà in scena una nera gondola, il letto in cui morirà Desdemona. Le folate di vento della tempesta faranno cadere i teli rivelando il teatro nudo con le sue attrezzature mentre sullo sfondo si alza una tela con un paesaggio urbano tipico della maniera del pittore tedesco. Nei suoi lavori sono sempre assenti le figure umane, ma qui invece il dipinto è infestato da una figura di donna: il fantasma di Desdemona che prima in platea se ne è andata via mano nella mano con Jago?
Non esistendo una regia attoriale, gli interpreti si muovono a caso e con gesti convenzionali in un continuo andirivieni tra la scena centrale e le quinte. I costumi, raccolti da un trovarobe cieco o burlone, spaziano nei tempi: armature quattrocentesche, gorgiere cinquecentesche, colletti ricamati del Seicento, crinoline e parrucche ottocentesche, cravatte e completi moderni. Tocco finale è la gonna con piume che Desdemona semina per la scena quando si muove e che si toglie solo al terzo atto prima di salire in gondola.
«Basta chiudere gli occhi e godersi le voci», dice la mia vicina in terza fila. Bella consolazione per chi ha sborsato 276 euro per un posto in platea.
⸪