L’Arlesiana

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★★★★☆

«Di scemi in casa non ce n’è più»

Sulla novella L’Arlesienne (1862) si era già cimentato Georges Bizet con esiti disastrosi: il primo ottobre 1872 furono solennemente fischiate le sue musiche di scena per il dramma di Daudet, che da allora sopravvissero solo nei programmi sinfonici come due suite per orchestra di cinque pezzi ciascuna.

A Cilea andò appena un po’ meglio: dopo tre anni di lavoro sul libretto di Leopoldo Marenco, l’opera debuttò in quattro atti al Lirico di Milano il 27 novembre 1897 con un tiepido consenso. Il compositore ridusse allora la sua opera a tre atti e in questa nuova versione andò in scena l’anno successivo con un giovane Enrico Caruso. Ma anche così il lavoro ebbe vita corta. Una terza versione, drasticamente rimaneggiata, andò in scena al San Carlo di Napoli nel 1912 diretta da Vittorio Gui e ulteriori modifiche furono effettuate nei decenni successivi, tra cui l’aggiunta del preludio nel 1936 e dell’intermezzo sinfonico che apre il terzo atto nel 1938. Ma l’opera finì per essere ricordata comunque solo per il “lamento di Federico”, l’aria del secondo atto («È la solita storia del pastore»), cavallo di battaglia delle più belle voci tenorili del secolo scorso.

Una caratteristica insolita della vicenda è l’assenza del personaggio femminile che dà il titolo all’opera. Infatti, l’affascinante ragazza di Arles della quale è innamorato Federico non compare mai in scena, ma la sua presenza incombe continuamente sulla vicenda. Federico ne è pazzamente innamorato ma, giunto finalmente il momento del matrimonio, è costretto a rinunciarvi a causa di Metifio, che vanta un diritto di prelazione esibendo alcune lettere d’amore che l’Arlesiana gli ha scritto. Federico si dispera e la madre Rosa riesce a convincerlo a dimenticare la giovane di Arles sposando Vivetta, figlioccia della stessa Rosa, una brava ragazza del paese da sempre innamorata di lui. Convinto di aver superato la sua malattia d’amore, Federico decide di accettare il suggerimento della madre, ma proprio il giorno fissato per le nozze la ricomparsa di Metifio risveglia in Federico la passione e la gelosia per l’amata di un tempo, fino a spingerlo al suicidio gettandosi dall’alto del fienile.

La presenza nella vicenda di un fratello mentalmente ritardato (l’Innocente, come nel Boris Godunov), di un protagonista pazzo per amore e di una madre sulla cui salute mentale sono leciti alcuni dubbi, ha spinto Rosetta Cucchi ad allestire uno spettacolo declinato sulla follia. Nel primo atto siamo ancora nelle prescrizioni del libretto, «Il cortile di un’antica e signorile fattoria» della «ubertosa e ridente campagna della valle del Rodano», ma il portone a sinistra è un antro buio da cui escono in maniera inquietante i personaggi. E già nel secondo atto il muro di fondo di prima è adesso quello di un istituto di cura delle malattie mentali in cui Federico cerca di guarire dal trauma della scoperta dell’infedeltà dell’amata. Nel terzo lo vediamo, sdoppiato, all’interno di una cameretta osservare gli altri personaggi e sé stesso agire come proiezioni della sua mente malata.

La presenza muta dell’Arlesiana è qui realizzata dalla regista come un’allucinazione di Federico, che vede in ogni donna l’oggetto d’amore perduto. La lettura della regista è intelligente e pienamente convincente. Il fascino dell’allestimento è dovuto anche alle bellissime scenografie di Sarah Bacon e al magistrale gioco di luci di Martin McLachlan.

A capo dell’Orchestra Filarmonica Marchigiana, Francesco Cilluffo fa dimenticare di essere un “giovane direttore”, non perché Francesco non lo sia, ma perché ormai ha dietro di sé numerose esperienze in cui ha dimostrato la sua completa maturità, rivelata anche qui dal fatto di essere riuscito a realizzare un’eccellente concertazione nonostante le esigue prove dovute alle ben note vicissitudini che hanno colpito il festival Pergolesi-Spontini di Jesi. La conoscenza e l’amore di Cilluffo per questo repertorio sono evidenti nella pulizia e nella bellezza del suono di questo continuum melodico, nemmeno una intemperanza verista, non un parlato, tutto è magnificamente cantato. Altro pregio del giovane direttore – ecco, ci sono cascato di nuovo… – è l’aver ripristinato l’aria di Federico del terzo atto («Una mattina m’apriron nella stanza») della prima edizione, poi tagliata e che si pensava dispersa. Onore al merito di Giuseppe Filianoti averne ritrovato lo spartito per canto e pianoforte mentre cercava brani per un suo recital su Cilea.

Coerente con la scelta registica e stilisticamente di eccellente livello il corpo di canto. Annunziata Vestri è una Rosa Mamai che porta con intelligenza in scena la figura tormentata della madre («Esser madre è un inferno») con intensità ma senza eccessi. Deliziosa Vivetta in tutte le sue sfaccettature è quella di Mariangela Sicilia, la Teresa del sulfureo Benvenuto Cellini alla Monty Python visto ad Amsterdam. Convincente Baldassarre, seppure con una certa stanchezza della voce, quello di Stefano Antonucci. Giustamente incisivo il Metifio di Valeriu Caradja.

Qualche sopracciglio ha fatto sollevare la scelta di un controtenore per la parte dell’Innocente, di tradizione un mezzosoprano, ma si sa che al di qua delle Alpi dopo aver inventato il modello (i castrati dell’epoca barocca), i succedenei non sono ancora ben accolti… E invece la “estraneità” del personaggio e la bravura scenica dell’interprete, Riccardo Angelo Strano poco apprezzato nel Giulio Cesare torinese, sono stati un elemento propizio della produzione.

Abbiamo lasciato per ultimo il Federico di Dmitrij Golovnin. Premesso che il confronto con le voci che in scena o in concerto hanno cantato il suo ruolo è inaffrontabile (per fare qualche nome oltre a Caruso: Schipa, Björling, Tagliavini, Kraus, Domingo, Pavarotti, anzi no quello di Pavarotti no…), Golovnin è giusto come personaggio, perfettamente coerente con la lettura registica, ma vocalmente il suono arretrato, gli acuti fibrosi e il timbro poco gradevole si sono accompagnati al fatto della non “italianità” del canto e a una dizione tutt’altro che perfetta.

Decisamente deficitaria la prova del coro Bellini.

La recita è stata registrata al teatro Pergolesi di Jesi nel settembre 2013. L’anno prima la produzione aveva debuttato al Wexford Festival Opera.

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