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Richard Wagner, Tannhäuser
Montecarlo, Salle Garnier, 19 febbraio 2017
(video streaming)
A Montecarlo va in scena le Tannhäuser. Sì, in francese.
Intensi ma tempestosi furono i rapporti di Wagner con Parigi. Il compositore era entrato nella cultura francese nel 1840 non come musicista, ma come scrittore: i suoi articoli apparsi sulla “Revue et gazette musicale” ne stabilirono la prima affermazione nella vita culturale parigina. Dopo Dresda, in cui aveva fatto debuttare il suo Tannhäuser, Wagner era ritornato nella capitale francese abbandonando da fuggiasco la patria in seguito alla sua partecipazione ai moti rivoluzionari del ’48. Frattanto era apparso sul “Journal des débats” un articolo di Liszt sul Tannhäuser, mentre altri articoli di Wagner e gli attacchi personali di Fétis avevano contribuito a creare un’atmosfera di grande polemica attorno alla figura del musicista tedesco i cui concerti del gennaio e febbraio 1860 causarono un deficit finanziario enorme e incontrarono l’opposizione della stampa parigina, sebbene fossero ben accolti da un ristretto pubblico di intenditori. Tra i brani eseguiti al Théâtre-Italien in forma di concerto (1) ce n’erano di quelli tratti dal lavoro che sarebbe presto andato in scena.
Per l’allestimento del Tannhäuser a Parigi non si lesinarono i mezzi e ci furono ben 160 prove prima che si raggiungesse un risultato soddisfacente per l’autore. Nel mentre la stampa parigina organizzava una grossa campagna denigratoria verso il musicista tedesco: sciovinismo e politica si mescolavano ancora una volta alle questioni più propriamente musicali – così come era già successo nel passato con la “querelle des bouffons” e con quella tra Gluck e Piccinni. Polemica accentuata anche da Wagner stesso, che non volle venire a patti con il pubblico parigino e le sue consuetudini teatrali opponendosi con tutti i mezzi alla proposta del direttore del teatro di inserire un balletto nel secondo atto – decisione più che saggia pensando al carattere solenne e tutt’altro che mondano della contesa poetica della Wartburg.
Il 13 marzo 1861, Tannhäuser andò dunque in scena all’Opéra di rue Le Peletier nella traduzione in francese di Charles Nuitter. Il pubblico in tumulto e la critica tagliente furono i motivi che indussero il musicista a ritirare il lavoro dopo appena tre rappresentazioni, ma per mesi la sua opera fu cause célèbre nei salotti di Parigi tra musicisti, esteti e politici.
Attualmente nella minuscola e iperdecorata sala Garnier del Principato di Monaco, Tannhäuser viene allestito proprio in quella versione parigina. Dal punto di vista musicale non è una vera e propria novità: già l’edizione viennese del 1875 comunemente rappresentata ai nostri giorni tiene conto delle modifiche del 1861. Semmai la curiosità qui sta nel libretto in francese e nella sua congruenza con la musica – soprattutto con tre interpreti che non hanno il francese come madrelingua e incespicano in una dizione a tratti improponibile: il «laisse-moi fuir» di Tannhäuser che diventa «lasse-moi fuir» (ripetuto ben tre volte) e le vocali mal accentate, i suoni nasali assenti sono alcuni dei tratti distintivi di questa produzione monegasca.
A capo dell’orchestra c’è il mezzosoprano Nathalie Stutzmann; nel ruolo titolare il tenore-baritono-direttore-regista José Cura e alla messa in scena l’ex-politico locale Jean-Louis Grinda. Tale commistione di ruoli porta a un risultato quantomeno discutibile.
Nell’allestimento di Grinda uno schermo semicircolare a mo’ di circarama (2) risolve economicamente con proiezioni tutta la scenografia richiesta dalla vicenda: il Venusberg è un bordello illuminato da luce rossa con cuscinoni di velluto, il paesaggio campestre è tutto un turbinio di fronde verdi, la Wartburg è l’interno di una cupola gotica tutta oro e azzurro lapislazzuli, il paesaggio finale è invernale e sotto l’immancabile neve, qui solo in videografica però.
Grazie a una pipa da oppio Tannhäuser ha le sue visioni in compagnia di signorine in négligé con i bordi di bianche piume di struzzo. Ad ogni crescendo dell’ouverture il protagonista aspira una lunga boccata per poi gettarsi sui suddetti cuscini fino all’arrivo di Venere, una rossa con le piume rosa. Anche lei si fa un tiro e finisce l’ouverture. Si dà quindi via al baccanale orgiastico che tanto aveva scandalizzato il pubblico parigino del tempo. Qui l’acme è il gilet sbottonato del protagonista a piedi nudi – che sembra abbia appena abbandonato il lavoro dei campi – e la proiezione di immagini da trip psichedelico anni ’60 mentre tutti si fanno una pennichella prima che le copie di Venere accennino a movimenti di danza che vorrebbero essere lascivi.
Dopo il doppio incontro con i pellegrini e poi con il langravio e la sua compagnia, Tannhäuser è ammesso alla Wartburg dove rivede Élisabeth con cui si rotola sul pavimento poco prima dell’arrivo di Hermann che però fa finta di niente. Il tradizionale corteo di nobili impettiti prelude allo svolgimento della gara poetica. Tannhäuser, ora tirato a lucido, scandalizza come previsto l’inclita assemblea e si becca un ceffone da Élisabeth che poi lo difende dall’ira generale minacciando di uccidersi con una pistola, cosa piuttosto contraddittoria per una pia vergine. Che infatti si taglierà le vene rendendo del tutto incongrua la domanda di Wolfram: «Élisabeth, permets-tu que je t’accompagne?». Finale a sorpresa: è Wolfram che se ne va con Venere mentre arrivano gli uomini a vendicare la morte di Elisabetta uccidendo Tannhäuser, anche se in effetti non si sente lo sparo delle pistole mentre il sipario si abbassa.
José Cura è al suo primo Wagner, autore che mai avrebbe affrontato, dice, a causa della lingua. Fosse solo un problema di lingua! Ormai il vibrato eccessivo, gli acuti sforzati, i suoni ingolati, fanno parte della sua performance vocale. Si salverebbe l’espressività, ma Tannhäuser non è Turiddu, e certi effettacci nel suo racconto del terzo atto sono decisamente di pessimo gusto. Sembra la caricatura del peggiore Domingo. A suo merito va comunque lo sforzo di aver imparato un ruolo che non canterà mai più. Non molti fra i suoi colleghi l’avrebbero fatto.
Annemarie Kremer è una Élisabeth il cui timbro un po’ metallico e l’intensità della voce non aiutano a delineare il lato angelico del personaggio. Nulla da dire sulla presenza scenica della Vénus di Aude Extrémo, ma qui sono la linea di canto e gli acuti strozzati la parte meno piacevole. Tra gli interpreti in lingua francese delude un po’ il Wolfram di Jean-François Lapointe che rende sì con eleganza il suo lied «Ô douce étoile, feu du soir», che prende il posto di «O du, mein holder Abendstern», ma è piuttosto carente nel registro basso in cui il suono è sfibrato. Steven Humes è un autorevole langravio, ma è il coro il punto più debole: non sempre riesce a mantenere un livello di intonazione accettabile soprattutto nelle pagine a cappella dei pellegrini e manca di precisione nei passaggi polifonici.
Specialista del repertorio barocco e fondatrice dell’Orfeo 55, la Stutzmann ha a disposizione un’orchestra non eccelsa che probabilmente non esprime al meglio le sue intenzioni. Il risultato se non negativo è comunque senza particolare rilievo. L’utilizzo dei microfoni per la ripresa video non permette di giudicare sull’equilibrio sonoro tra palcoscenico e buca orchestrale, anche se sembra che la fossa copra talora la voce dei cantanti.
(1) Ecco il programma dell’8 febbraio: Le vaisseau fantôme (Der fliegende Holländer), ouverture; Tannhäuser, marcia e coro II atto, preludio al III atto, lied di Wolfram, coro dei pellegrini, ouverture; Tristan und Isolde, preludio con finale da concerto; Lohengrin, preludio atto I, corteo nuziale e preludio atto III, coro nuziale con finale da concerto.
(2) Una delle principali attrazioni di “Italia ’61”!



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