Giulio Cesare in Egitto

Friedrich Händel, Giulio Cesare in Egitto

Buenos Aires, Teatro Colón, 13 giugno 2017

★★☆☆☆

(video streaming)

Giulio Cesare in kitschland

Assente da quasi cinquant’anni (e allora Cleopatra fu Beverly Sills) torna in scena al Colón di Buenos Aires il capolavoro händeliano – l’opera con cui è partita la riscoperta moderna del compositore di Halle e con la quale è iniziato un nuovo modo di mettere in scena l’opera barocca.

Da un aereo che ha sulla fiancata il marchio SPQR scende un Giulio Cesare in giacca rosa damascata, pelliccia di ermellino lunga fino ai piedi, stivali con la punta e il tacco dorati e capelli lunghi, tutto in perfetto stile cafonal (costumi di Sofia di Nunzio). Sullo stesso tono è il resto dell’allestimento di Pablo Maritano realizzato con i cascami delle regie di Peter Sellars (e poi di David McVicar, Leiser & Courier, eccetera), uno spettacolo concepito come una rivista a numeri chiusi scanditi dall’apertura di una tenda dorata e da un sipario rosso che delimitano un’area di proscenio in cui vengono eseguiti numeri a mo’ di avanspettacolo. Volgendo tutto sul grottesco si perde così il difficile equilibrio tra comico, tragico e sentimentale con cui Händel e i suoi librettisti hanno costruito la vicenda.

Una piramide su piattaforma girevole, piuttosto rumorosa quando ruota, costituisce la scenografia di Enrique Bordolini il quale si occupa anche del gioco luci. Le moderne e pervasive coreografie di Carlos Trunsky si avvicendano in maniera un po’ aleatoria, comprendendo, chissà perché, degli interludi danzati sul concerto per arpa op. 4 n° 6 dello stesso compositore. Poi però si taglia altra musica: Martin Haselböck non sembra condividere la lettura esasperata del regista e propone un Giulio Cesare misurato con varie omissioni, pezzi di recitativo, scene minori, ma anche arie: Cesare si vede rimossa «Non è sì vago e bello» e Cleopatra «Tu la mia stella sei», tra le altre. L’orchestra fa del suo meglio ma si capisce che, nonostante i rinforzi con strumenti d’epoca, questo non sembra essere il suo repertorio di elezione.

Se nel 1968 al Colón Giulio Cesare fu un basso (Norman Treigle), secondo la prassi di allora, ora sulle scene del teatro porteño un contraltista riprende il ruolo che in origine fu assegnato al Senesino. Altri tre controtenori vestono i panni dei due castrati dell’epoca (Tolomeo e Nireno) e del soprano en travesti (Sesto). Assieme alle voci femminili di Cleopatra e Cornelia e a quelle scure di Achilla e Curio, il teatro ha impiegato un cast eterogeneo ma complessivamente di livello accettabile. Delle prodezze di Franco Fagioli si sapeva già: colorature e variazioni da manuale, così come i fiati e il fraseggio, le cadenze sorprendenti. Ecco, forse c’è un certo compiacimento per le note gravi. Penalizzati dalla regia gli altri due contraltisti, Flavio Oliver e Martín Oro, quest’ultimo un Nireno scenicamente insopportabile, e il sopranista Jake Arditti. Come regina d’Egitto Amanda Majeski ha dominato la scena per la sicura vocalità e la sua sensualità, seppur sempre sopra le righe a causa dell’impostazione registica. Adriana Mastrangelo è la matrona offesa e talora vocalmente un po’ fuori stile. Efficaci Hernán Iturraide e Mariano Gladic.

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