Il pirata

Vincenzo Bellini, Il pirata

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 6 luglio 2018

Il pirata, ovvero Imogene

Che cosa sarebbe una prima della Scala senza il solito rito della gazzarra di alcuni loggionisti? «Le balcony girls, specie quelle di sesso maschile» (Alberto Mattioli) e «i fantasmi di Rubini [giacché] i residui “vedovi Callas”, non fosse altro che per evidenti limiti dovuti all’età, [le scale] non le salgono più» (Andrea Merli) si sono ancora una volta dati da fare per movimentare il finale della serata con una protesta preordinata che ha avuto un’eco ben maggiore del dovuto da parte della radio. Poi, come sempre, passata la prima, le acque si placano. Così come è avvenuto alla terza replica de Il pirata, terminata tra ovazioni incontrastate.

Tre sono le date cruciali della terza opera di Vincenzo Bellini alla Scala: il debutto il 27 ottobre 1827; la ripresa in tempi moderni il 19 maggio 1958 e ora, sessant’anni dopo. Il lavoro trae le sue origini dalla tragedia Beltram or the Castle of St. Aldobrand di Charles Maturin, dalla sinistra atmosfera gotica, adattata da un maturo Felice Romani – il classicista diffidente dei fermenti romantici che proprio quell’anno aveva stroncato la prima edizione di un romanzo dal titolo I promessi sposi chiedendosi «A chi mai interessano le vicissitudini di due semplici contadini, privi di coscienza tragica, che non riescono a sposarsi?». Di “coscienza tragica”, invece, i personaggi de Il pirata ne hanno da vendere.

L’azione si svolge in Sicilia, XII secolo, nel Castello di Caldora e nelle sue vicinanze.  Nell’antefatto, l’amore tra Imogene e Gualtiero è ostacolato dal duca Ernesto di Caldora, partigiano di Carlo I d’Angiò, che fa imprigionare il padre di Imogene per costringerla a sposarlo. In esilio forzato, ignaro delle nozze tra Imogene ed Ernesto e della nascita del loro primogenito, Gualtiero organizza una squadra di pirati aragonesi e inizia una serie di scorribande sulla costa siciliana, col proposito di tornare nella sua terra e sposare Imogene. La flotta dei d’Angiò, capitanata da Ernesto, sconfigge i pirati in battaglia: si salva solo un vascello, quello su cui si trova Gualtiero, che una tempesta getta sulla costa siciliana, non lontano da Caldora.
Atto I. Un saggio e pietoso eremita, il Solitario, esorta i pescatori a portare soccorso ai naufraghi. Approdato sulla terra ferma, Gualtiero riconosce nel Solitario il suo vecchio precettore, Goffredo, che lo conduce nella sua abitazione. Anche Imogene si reca a portare soccorso ai naufraghi e chiede notizia dei pirati e del loro capo. Uno dei pirati, Itulbo, per non svelare il piano di Gualtiero, le dà la falsa notizia della sua morte. La notizia sconvolge Imogene, che proprio quella notte aveva sognato di ritrovare sulla spiaggia il corpo insanguinato di Gualtiero, ucciso dal marito. Mentre sotto mentite spoglie i pirati, ospiti di Imogene al castello, passano la notte a bere e cantare, Gualtiero è invitato alla presenza della duchessa. Nascosto in un grande mantello, il suo aspetto è quasi irriconoscibile. Eppure Imogene è turbata e quando finalmente Gualtiero si rivela, si getta tra le sue braccia. La notizia delle nozze con Ernesto sconvolge Gualtiero, che minaccia di colpire a morte il figlio nato da quel legame. Nel frattempo Ernesto si reca a conoscere i naufraghi e, insospettito, rinuncia a rinchiuderli in prigione solo per l’intercessione di Imogene. Partiranno l’indomani all’alba. Ma Gualtiero medita vendetta e, furtivamente, chiede ed ottiene da Imogene un ultimo colloquio prima della partenza.
Atto II. Imogene sta per recarsi all’incontro segreto con Gualtiero, quando s’imbatte in Ernesto che, accortosi del suo turbamento, le chiede spiegazioni. La donna motiva il proprio stato d’animo con la sorte del padre, ma Ernesto non le crede e intuisce che si tratta invece del suo mai sopito amore per Gualtiero. È quasi l’alba. Gualtiero e Imogene si incontrano su una loggia del castello. Fedele al proprio ruolo di sposa e di madre, Imogene rifiuta di fuggire con l’innamorato, ma proprio nel dirsi addio gli amanti sono sorpresi da Ernesto. I rivali si allontanano per affrontarsi in un duello all’ultimo sangue. Giunge la notizia della morte del Duca. Gualtiero, in un gesto di lealtà suprema, si consegna ai cavalieri di Caldora, il cui Gran Consiglio lo condanna a morte. Impazzita per il dolore, Imogene vaga col figlio per le sale del castello: il suo sogno premonitore si è compiuto, ma a parti invertite. Quando le giunge all’orecchio la notizia della condanna a morte di Gualtiero, impazzisce definitivamente.

Alla prima l’opera finiva diversamente. Sulla rupe su cui Gualtiero sta per essere giustiziato, giungono Itulbo e i pirati per liberarlo e Imogene per vedere cosa sta succedendo. Gualtiero, allora, ordina a tutti di fermarsi e si getta di sotto tra lo sconcerto dei presenti. Bellini revisionò l’opera togliendo la scena, di cui rimangono ancora però lo spartito e le parole. Si è arrivati a volte a invertire le scene tra soprano e tenore: la scena della pazzia, in alcune rappresentazioni, precedeva la cavatina di Gualtiero «Tu vedrai la sventurata», mentre ora il sipario cala dopo l’ultima cabaletta di Imogene. Come riporta Luca Zoppelli sul programma di sala, «questo capolavoro, paradossalmente, è stato vittima del suo successo, poiché il gusto frenetico proposto da Romani e Bellini si è talmente diffuso da nascondere il modello sotto una serie di altri testi magistrali».

Il pirata dalla Scala mancava da quando Imogene fu cantata dalla Callas, che riprese il personaggio che all’esordio fu di Henriette Méric-Lalande, interprete di grande temperamento; nella parte del titolo Giovanni Battista Rubini praticamente inventò il ruolo del tenore romantico, combinazione di un tipo drammatico e di una scrittura melodica e piana ma spinta verso il registro acuto; Ernesto ebbe la voce di Antonio Tamburini, interprete prediletto da Bellini. Da tempo però è la parte del soprano che primeggia sulle copertine dei vinili e dei CD de Il pirata: il “bel canto” sembra abbia bisogno soprattutto di una “primadonna” ed è forse con queste considerazioni che alla Scala si è chiamato un soprano di grido inciampando in parte sugli interpreti maschili.

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Fin dal primo momento si capisce che il punto forte della serata sarà la Imogene di Sonya Yoncheva. Instancabile, tiene la scena con una presenza magnetica e una forza vocale stupefacente. Se la Méric-Lalande «amava i ruoli energici e frenetici» (Zoppelli), lo stesso si può dire per il soprano bulgaro che in «Oh, sole! ti vela | di tenebre oscure…» dell’atto secondo sembra anticipare la Lady Macbeth verdiana di «Or tutti sorgete | ministri infernali», con lo stesso accompagnamento affannoso degli strumenti dell’orchestra. Il timbro a tratti ricorda quello della Callas con cui compete per la personalità se non per le agilità, non sempre perfette. È ovviamente la lunga scena della follia, che anticipa l’analoga della Lucia donizettiana, quella che completa la figura di donna doppiamente messa in angustie da un marito violento e da un amato egocentrico.

Se alla seconda recita è stato il soprano ad accusare un’indisposizione, alla terza è il tenore che ha dei mancamenti che però non gli impediscono di completare la performance restando in scena a cantare, seppure seduto. Piero Pretti avrebbe tutto per essere un ottimo Gualtiero – timbro, fiati, acuti – ma nel complesso riesce meno convincente di quanto ci si aspetterebbe, a prescindere dalla indisposizione. Il timbro è un po’ monocromo, le frasi sono legate ma non trascinanti, la salita al re perigliosa. Soprattutto lo danneggia il confronto con altre voci del passato più o meno recente

Dei tre interpreti principali quello che ha meno entusiasmato è stato però Nicola Alaimo, Ernesto dalla voce un po’ velata e dalla debole personalità, pur nella eleganza dell’emissione. Non è aiutato comunque dal libretto, che assegna al marito il ruolo meno incisivo. Dei comprimari si è notata la bella voce di basso e la presenza scenica di Riccardo Fassi, «Goffredo, tutore un tempo di Gualtiero, ora Solitario». Coro come sempre eccellente quello diretto da Bruno Casoni.

Della concertazione di Riccardo Frizza non si può dire che bene: la scelta dei tempi e dei colori è sempre funzionale alla teatralità, l’equilibrio con le voci in scena è pienamente raggiunto, l’atmosfera “gotica” è realizzata, i famigerati tagli quasi completamente eliminati.

L’allestimento di Emilio Sagi inizia bene, nel senso che non interviene con inutili rappresentazioni di antefatti o quant’altro durante l’esecuzione della sinfonia e a sipario chiuso ci fa godere senza distrazioni la lunga composizione dal carattere pimpante e ricca di temi. Sagi ci risparmia una qualsiasi attualizzazione della vicenda – i morti in mare e il dare ospizio ai «lassi stranieri» avrebbero dato adito a qualche riflessione sulla contemporaneità… – ma preferisce attenersi a una lineare illustrazione della vicenda seppure in un’ambientazione senza tempo. Nella scenografia di Daniel Bianco, due pareti di materiale specchiante sono completate da un soffitto altrettanto specchiante che si alzerà e si abbasserà, senza convincenti motivi, per schiacciare i personaggi oppure per aprire sul fondo un paesaggio boschivo che ricorda tanto certe gigantografie con cui si tappezzava la parete di una stanza tempo fa. Della mancanza di una vera e propria regia attoriale quasi non si sente, vista la personalità dei personaggi, soprattutto di quello femminile, ma scarseggia una trovata teatrale che renda questo allestimento un po’ meno intercambiabile per qualunque altra opera. Dei costumi incongrui di Pepa Djanguren, soprattutto quelli femminili, si può dire che soddisfino l’aspettativa di essere «ricchi ed eleganti».

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