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Wolfgang Amadeus Mozart, Così fan tutte
Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, 23 luglio 2005
(registrazione video)
«Prenderò quel brunettino». Le intermittenze del cuore
Il regista che aveva vestito i Nibelunghi in abiti moderni, con Mozart non rinuncia a un Settecento che però risulta di una sorprendente attualità.
Dal 1994 Patrice Chéreau non aveva più messo in scena un’opera lirica – l’ultima era stata Don Giovanni a Salisburgo – preferendo il cinema (Ceux qui m’aiment prendront le train, Intimitè, Son frère) quale mezzo di espressione. Ma nel 2005 non resiste all’invito del direttore del Festival international d’art lyrique d’Aix-en-Provence, Stéphane Lissner, a inaugurare la rassegna con un altro Mozart di Da Ponte, Così fan tutte, appunto.
Assieme al fidato Richard Peduzzi, Chéreau ambienta la vicenda nel retro di un palcoscenico teatrale, con le sue funi, i suoi muri grezzi con la scritta «Vietato fumare». Un teatro, quindi il luogo della finzione, ma i costumi settecenteschi sono in un contesto moderno – praticabili, telefoni, estintori… – e sottolineano che abbiamo sì dei personaggi ma che essi sono più veri del reale: questo di Chéreau non è teatro realistico, ma è la psicologia dei personaggi a renderlo quanto mai reale. Come se fossimo nel cortile di un palazzo napoletano, una decina di figuranti assiste curiosa dai balconi o si presta a spostare un tavolo, un baule, portare una sedia a chi sta per mancare per un’emozione. Lo spettacolo è tutto un equilibrato susseguirsi di vuoti e di pieni, lo spazio è definito dai corpi, la direzione attoriale precisissima a rappresentare il dubbio, la fragilità dei sentimenti, l’insicurezza di fronte alla scoperta di sé. Il movimento è continuo e veloce, la composizione delle figure quasi una coreografia. La prima scena avviene tra il pubblico della platea e spesso i cantanti si protendono su passerelle alle estremità del palcoscenico per coinvolgere maggiormente gli spettatori sottolineando così efficacemente la continuità tra teatro e vita reale.
Si diceva dei costumi: essi sono eleganti ma semplici, declinati nei colori del tricolore francese quelli delle donne, e preziosi nei dettagli che il pubblico in platea non può vedere, come i medaglioni con i ritratti degli amanti o gli orecchini con cammeo, azzurri per Dorabella che è in azzurro, rossi per Fiordiligi che è in rosso.
Nella lettura di Chéreau c’è una rinuncia all’amore che stringe il cuore, è una “scuola degli amanti” che scherza con la morte più che con la vita, una commedia pessimista e senza speranza. E qui la presenza scenica di efficaci cantanti-attori è essenziale. Fortunatamente il cast è tra i migliori. Elīna Garanča (Dorabella) è incantevole e vocalmente perfetta, Erin Wall (Fiordiligi) sviluppa un fraseggio prezioso e di grande espressività. Magnifico il suo «Per pietà, ben mio, perdona»: qui sembra anticipare l’aria della Leonora di Beethoven che ha un simile accompagnamento dei corni. Guglielmo ha in un giovane Stéphane Degout il degno interprete, virile, ironico e allo stesso tempo sensibile. Shawn Mathey delinea un Ferrando tutte mezze voci e legati che hanno in «Un’aura amorosa» il massimo dello splendore. Despina di forte carattere è quella di Barbara Bonney, peccato che canti in un incomprensibile italglese. Sulla pronuncia di Ruggiero Raimondi (Don Alfonso) non c’è nulla di nuovo da aggiungere, ma la sua indubbia attorialità compensa in parte il parlato invece del cantato. A lui si deve il più spietato «Io crepo se non rido» mai ascoltato in quest’opera.
Alla testa della Mahler Chamber Orchestra Daniel Harding dà una lettura brusca e al contempo trascinante della partitura, lasciando esprimere la sensualità agli attori in scena più che alla musica. Il bravissimo Arnold Schönberg Chor qui ha appena la possibilità di farsi apprezzare come vuole il suo merito.

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