
foto © Marcello Orselli
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Alessandro Stradella, Il Trespolo tutore
★★★★☆
Genova, Teatro Carlo Felice, 1 ottobre 2020
Stradella torna a Genova con la sua opera buffa
Strana figura quella di Alessandro Stradella (Bologna 1643-Genova 1682) morto giovane ammazzato, presumibilmente per mano di rivali gelosi. Un Caravaggio della musica. La sua vita romanzata ha intrigato, tra gli altri, il romantico César Franck (Stradella, 1841) e il contemporaneo Salvatore Sciarrino (Ti vedo, ti sento, mi perdo, 2017) nel mondo dell’opera lirica. Per non parlare della letteratura e del cinema.
Ma qui Stradella ci interessa come compositore, essendo la sua opera Il Trespolo tutore in scena nella città in cui aveva debuttato il 31 gennaio 1679 al Teatro del Falcone, Genova. La stessa città in cui avrebbe trovato la morte su mandato, si disse, di un nobile che sospettava una relazione tra la sorella e il compositore che le impartiva lezioni di musica.

Il Trespolo tutore è stato rappresentato per la prima volta in Italia in tempi moderni lo scorso agosto al Palazzo Farnese di Caprarola nel corso del “Festival Barocco Alessandro Stradella”, rassegna creata da Andrea De Carlo che, con il suo ensemble Mare Nostrum, si è dedicato anima e corpo alla riscoperta di questo compositore le cui turbolente vicende biografiche rischiano di metterne in ombra l’opera. Prima ancora era stato inciso su DVD l’allestimento di Paweł Paszta con l’Orchestra di strumenti antichi dell’Università Chopin diretta ancora dal De Carlo. «Da ragazzino ero un bassista rock, poi ho fatto il contrabbassista jazz, e alla fine mi sono avvicinato alla musica classica, suonando nell’Orchestra Sinfonica della Rai e nell’Orchestra del Teatro Massimo di Palermo», racconta De Carlo in un’intervista rilasciata al Giornale della Musica, «e a un certo punto, grazie al film Tutte le mattine del mondo [di Alain Corneau], ho scoperto la viola da gamba e così ho conosciuto Paolo Pandolfo e tutto è nato da lì. Quando ho iniziato a dedicarmi alla musica vocale sono rapidamente arrivato a Stradella» continua il Maestro che poi parla dei suoi interessi linguistici: «Guardando una partitura di Monteverdi ho cominciato a osservare che il compositore in corrispondenza delle doppie consonanti scriveva ritmi puntati, non soltanto in corrispondenza di quelle scritte ma anche dei rafforzamenti sintattici. Ho iniziato a chiedermi se ci fosse un legame e ho iniziato a fare delle riflessioni sul ritmo della lingua e sulla forma della lingua parlata e i suoi suoni. […] È il segreto della bellezza della nostra lingua: gli affetti della parola sono legati alle doppie consonanti». Vengono in mente queste sue riflessioni ascoltando come il direttore concerta le voci e pone grande cura all’articolazione delle frasi e alla dizione degli interpreti sul palcoscenico.
Grande è l’influenza di Stradella sulla musica: alla sua morte precoce molti sono i compositori che studiano le sue partiture e ne traggono spunti, uno fra tutti Händel. Una caratteristica della musica di Stradella è l’atemporalità, dice ancora De Carlo nel programma di sala. Il suo stile abbraccia un periodo di tempo enorme, dal contrappunto rinascimentale alla moderna sensibilità ritmica: «In questo slancio si incontrano e dialogano un’ondeggiante sensibilità ritmica, una predilezione per i tempi deboli degna di un jazzista, una sottile capacità nel tradurre in musica gli affetti e le emozioni della parola, una moderna apertura verso le influenze esotiche, un’insofferenza per la prevedibilità che genera un linguaggio sempre nuovo e vitale».

Dopo Amare e fingere, Il Trespolo tutore è la seconda opera di Stradella portata alla luce dall’infaticabile De Carlo. Si tratta di un’opera buffa, ante litteram rispetto a quelle settecentesche. Il gustoso libretto, di Giovanni Cosimo Villifranchi, è tratto dalla commedia Amore è veleno e medicina degl’intelletti di Giovan Battista Ricciardi il cui personaggio principale si chiamava Trespolo Tutore e venne storpiato in quello del titolo dai musicisti che l’avevano scelto come soggetto. Il testo è sapido fin dall’inizio e si basa sull’arguzia femminile della vecchia balia per cui «il marito si piglia | come la medicina, | che quando può giovare | non bisogna badare, | ma se ben contro al gusto, | senza pensarvi più. | Bisogna serrar gli occhi, e mandar giù» o gioca sulle parole come un Gianni Rodari secentesco: «Chiaman botte quel vasone | che riempesi di vino, | e poi chiamano un bottone | quel fardel sì piccolino» o sfrutta una situazione topica come l’esilarante dettatura della lettera, in anticipo di trecento anni di quella di Totò e Peppino.
Diversamente da quanto avviene nella Serva padrona, nel Barbiere di Siviglia e nel Don Pasquale, qui è la pupilla (Artemisia, soprano) a essere innamorata del tutore (Trespolo, basso), ma non ha il coraggio di rivelarlo e da ciò nascono gli equivoci della lepida storia che sfiora anche un matrimonio tra due donne («Una donna ad un’altra, | guardate stravaganza!» si limita a commentare con immutato aplomb Trespolo). Che poi la donna (Simona) sia un uomo (tenore) mentre dei due giovani pretendenti quello pazzo (Ciro) sia una donna en travesti (soprano) a questo punto chi lo nota più. Rimangono i personaggi “normali” della vicenda: l’amante non corrisposto Nino (vabbè un contralto, qui un contraltista) e Despina (soprano), la servetta “accorta”.
Atto I. Il goffo e balordo Trespolo è il tutore della giovane Artemisia e deve trovarle un marito. In realtà la ragazza è timidamente innamorata di lui, che però non si accorge di nulla, preso com’è da Despina, la figlia di Simona, balia di Nino e del folle Ciro. Despina a sua volta non vuole saperne di sposare Trespolo, sebbene la madre cerchi di convincerla per ragioni di convenienza. Nino, di ritorno da un viaggio, domanda a Despina se Artemisia finalmente ricambi il suo amore e se suo fratello Ciro sia guarito dalla pazzia. La giovane è costretta a deluderlo su entrambi i fronti. Nino vede tuttavia la possibilità di trarre vantaggio dalla situazione e propone a Despina di fingere di amare Trespolo, in modo da ottenere da lui in cambio la mano di Artemisia. Lei si presta al gioco, ma solo per l’affetto che nutre segretamente per il giovane. Frattanto Ciro vede Artemisia addormentata e inizia a fantasticare su di lei, ma è allontanato da Trespolo che lo deride. Equivocando l’atteggiamento di Artemisia, il tutore comincia poi a credere che lei ia innamorata di Ciro: di fronte all’eventualità di un simile matrimonio Artemisia si affretta a smentire. Malgrado ciò, Ciro si convince di poterla avere e questa speranza lo spinge a cercare la guarigione. Artemisia, disperata per non riuscire a svelare i suoi sentimenti a Trespolo, decide a quel punto di dettargli una lettera indirizzata al proprio amore, cioè a lui stesso. Ma il tutore continua a non capire, e pensando questa volta che sia destinata a Nino gliela recapita.
Atto II. Nino inizialmente ne gioisce, ma quando Artemisia nega di avergli scritto alcunché decide di andare avanti col suo piano e propone a Trespolo Despina in cambio della sua pupilla. Il tutore ci pensa su e alla fine accetta, ma Artemisia in disparte sente tutto e si infuria, giurando a Nino che non l’avrà mai . Quello cade in disperazione e la sua mente inizia a vacillare, proprio mentre suo fratello Ciro, aiutato da Simona, comincia lentamente a ritrovare il senno. Travolta da questa catena di equivoci, Artemisia non ancora è riuscita a rivelarsi a Trespolo, sicché in un ultimo tentativo decide di mostrargli il ritratto di colui che ama porgendogli uno specchio. Il tutore dapprima si rimira allibito, poi vede Simona riflessa alle sue spalle e si convince che la ragazza sia innamorata di lei. Qui si apre una situazione paradossale e modernissima: Trespolo propone a Simona di sposare Artemisia.
Atto III. Simona si convince che Trespolo abbia ragione e, riflettendo sulle sue parole, decide di fingere di sposare Artemisia per poi lasciarla a Ciro. Poi incontra la giovane per dichiararsi e quella, credendo che venga per conto di Trespolo, le dà un anello d’oro come pegno d’amore: la vecchia balia giunge così a chiedersi perché mai debba ritenersi strano un matrimonio fra donne. Mentre Nino, persa ogni speranza, percorre fino in fondo il sentiero della sua follia e dopo due scene di pazzia abbandona il campo. Trespolo, certo ormai di sposare Despina dopo il servigio reso a sua madre, dà appuntamento alla ragazza per un convegno notturno, ma lei chiede aiuto a Ciro, che intuisce cosa sta per succedere e le assicura il suo intervento. In attesa dell’incontro agognato, il tutore non sta nella pelle, ma al momento fatidico Ciro entra in casa con Despina e fa cadere uno sgabello, svegliando Artemisia. Ella s’infuria con Ciro, che a quel punto le svela le reali intenzioni di Trespolo, suscitando lo stupore della ragazza. Nel culmine della discussione Trespolo urta la candela e la spegne, lasciando tutti al buio. Mentre va in cucina per riaccenderla, Artemisia, che crede di essere rimasta sola al buio con Trespolo, si concede in realtà a Ciro. Così, quando il tutore fa ritorno e la luce svela la realtà, Ciro e Artemisia sono ormai sposati. Mentre Simona rimane sola e delusa, Trespolo potrà ottenere la mano di Despina. La morale è affidata a Ciro, la cui gioia è funestata dal pensiero del fratello perduto: nell’aria conclusiva egli canta le contraddizioni dell’Amore, «veleno e medicina dell’intelletto».
Una compagnia di canto di provata professionalità in questo repertorio è quella formata dai cantanti arruolati per l’inaugurazione di questa prima parte della stagione del teatro genovese – eh sì, ci sono teatri che aprono, mentre a 200 chilometri di distanza ancora non se ne parla… (1)

Rifulgono nettamente tra tutte le voci di Carlo Vistoli e Silvia Frigato, i due fratelli Nino e Ciro che nel corso della commedia si scambiano la follia: Nino impazzisce per amore non ricambiato, Ciro rinsavisce quando l’amore invece lo scopre. Nino è il personaggio più complesso della vicenda e a lui sono dedicati numeri memorabili quali la ninna nanna del terzo atto che egli immagina cantata dall’amata Artemisia: «La si strugge, e si vien meno, | ti fa letto del suo seno. | Poi ti copre col bel viso | che dormir di paradiso, | che dolcezza ci sent’io! | Fa’ la nanna Nino mio». La struggente pagina fa parte di una complessa “scena di pazzia” in cui vengono sfruttati a livello espressivo i più diversi stati d’animo e qui Carlo Vistoli infiamma il compassato pubblico genovese con la sua elegante vocalità esercitata nei madrigali e nell’opera barocca. L’intonazione della voce accompagna l’inflessione di ogni parola con ineguagliabile bellezza di suono e rara sensibilità.
Punta invece sulla vivacità del personaggio Silvia Frigato. Il suo Ciro è scenicamente irresistibile (come evidenziare col corpo la follia di un personaggio? La Frigato ci riesce alla perfezione e senza esagerare tramite l’andatura da burattino e l’espressività facciale) e vocalmente sicuro. «La speranza d’un dolce contento» è un momento in cui, su un tema cullante e sensuale che avrebbe potuto scrivere Cavalli, si completa davanti ai nostri occhi la trasformazione del personaggio ed è reso alla perfezione dal soprano veneto, così come sempre convincenti sono gli altri suoi interventi.

Marco Bussi delinea con molta efficacia il “balordo” del titolo, affrontando con sicuro mestiere la stolida dabbenaggine di Trespolo. Per ragioni comiche il giovane basso-baritono passa abilmente al falsetto e risulta impareggiabile nei momenti più spassosi della parte. Anche Juan Sancho, uno specialista della musica barocca, si esibisce brillantemente nella divertente parte della balia Simona che alla sua età scopre di essere ancora desiderata, per di più da una donna («Oh chi m’avesse detto | ch’io avessi a pigliar moglie in mia vecchiaia?»). Con ottimo gusto il tenore sivigliano incarna il personaggio senza renderlo grottesco, anzi evidenziandone l’umana verità. L’Artemisia di Raffaella Milanesi non è vocalmente delle più entusiasmanti: alcune note sono afone, altre un po’ stridule e la linea di canto non continua. Il soprano non riesce a delineare con forza il personaggio (anche a causa della regia, in verità) e nel corso della serata incorre anche in un momento di amnesia non prontamente compensato dal direttore in buca. Brillante e cinico il personaggio di Despina, qui una Paola Valentina Molinari efficace sia dal punto di visto scenico che vocale.
Il Trespolo tutore è un lavoro destinato a spazi molto più ridotti, ma se non altro qui quelli del Carlo Felice permettono il distanziamento in scena e in platea. Per di più i creatori dello spettacolo sono riusciti a fare di necessità virtù imbastendo una serata godibile per l’aspetto visivo con le scene di Leila Fteita e i costumi di Nicoletta Ceccolini. I registi Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi scelgono gli anni ’30 per la loro ambientazione con una lunga e ripida scalinata incorniciata a vari livelli da lampadine luminose: Artemisia è una vamp con en tête e ventaglio di piume di struzzo, Trespolo sfoggia un lucido cilindro, Nino capelli impomatati e baffetti alla Clark Gable. L’ammiccamento al cinema muto dell’epoca avviene anche con i video in bianco e nero dei visi degli interpreti ripresi in smorfie espressive, ma non esiste una vera giustificazione per questa scelta e la drammaturgia è latente e non sfrutta certi momenti teatrali suggeriti dal testo, come gli equivoci del buio non realizzato, anzi proprio le luci qui sembrano fare difetto per imprecisione.
Il teatro al completo (virus permettendo) ha risposto all’insolita proposta con particolare calore salutando con affetto la sua orchestra. Stradella sarebbe stato contento di questo ritorno a Genova.
Nonostante qualche pecca, si tratta di uno spettacolo comunque da non perdere.
(1) Il riferimento al Teatro Regio di Torino è volutamente intenzionale

⸪