∙
Gaetano Donizetti, Anna Bolena
Genova, Teatro Carlo Felice, 20 febbraio 2022
Lo statico dramma donizettiano infiammato dalla vocalità di due outsider
Arriva al Carlo Felice Anna Bolena il secondo pannello della “trilogia Tudor” che Alfonso Antoniozzi aveva iniziato nel 2016 con Roberto Devereux e completato poi con Maria Stuarda l’anno successivo. Rispetto allo spettacolo originale debuttato a Parma le modifiche registiche, sia a causa delle restrizioni sanitarie sia per la personalità della protagonista, hanno teso alla semplificazione. Le principali differenze sono il ruolo dei mimi, che qui non “formano” il trono di Anna, e i costumi di Gianluca Falaschi: l’unico quasi d’epoca è quello di Anna, gli altri sono in stile anni ’30, come quelli del coro in abito da sera e bicchiere in mano pronti per una festa che non termina mai; divise militari per Hervey e Rochefort; un lungo abito luccicante per Seymour; un completo gessato e pelliccione d’orso per Enrico. Pressoché immutate la scenografia di Monica Manganelli, costituita da una piattaforma e da alcuni elementi lignei in stile gotico che opportunamente spostati formano i vari ambienti, e le videoproiezioni sullo sfondo. Il tutto in un grigio scuro e totale mancanza di colori.
La povertà d’azione dell’opera di Donizetti non è compensata dalla regia di Antoniozzi, che privilegia invece le interazioni interpersonali e la psicologia dei personaggi. Delle sue tre interpretazioni della trilogia storica questa è la più statica e in definitiva la più povera di idee: l’unica eccezione a una narrazione per lo più lineare è nel finale, quando alla morte della protagonista i mimi diventano le successive quattro mogli di Enrico VIII e la maschera bianca che rappresentava il ritratto di Anna trafugato da Smeton passa sul viso della nuova regina, Seymour, anche lei ora in una posizione che si rivelerà precaria.
Sul piano musicale la lettura di Sesto Quatrini mette nel giusto valore la partitura di quella che viene considerata la gemma compositiva del bergamasco nel periodo che segue all’esperienza napoletana: a Milano se la deve vedere con l’avversario Bellini che a distanza di tre mesi presenta la sua Sonnambula nello stesso teatro (il Carcano), con lo stesso librettista (Felice Romani) e gli stessi cantanti (Giuditta Pasta e Giovanni Battista Rubini). La concertazione di Quatrini è attentissima verso i cantanti e l’equilibrio dell’orchestra con la scena è sempre perfettamente ottenuto. I momenti drammatici trovano il giusto colore e la finezza dei passaggi strumentali mette in luce certi rimandi ad altre opere donizettiane come L’elisir d’amore in certi incisi melodici e gli inevitabili autoimprestiti. Anna Bolena non è certo un’opera concisa e il direttore media saggiamente tra una quasi impossibile versione completa – ipotizzabile solo per una edizione discografica – e la versione decimata con cui Gavazzeni aveva portato alla luce questo lavoro assieme a Maria Callas.
La proposizione di un titolo come questo non è pensabile senza la presenza di almeno due interpreti d’eccezione che abbiano le qualità se non di confrontarsi con i creatori dei personaggi – cosa ovviamente impossibile – almeno di adeguarsi alle richieste di due ruoli così impegnativi, e qui li abbiamo. La Anna Bolena che fu dunque di Giuditta Pasta rivive qui con il soprano americano Angela Meade nel repertorio a lei più congeniale: il timbro sontuoso, l’eccezionale proiezione della voce, i fiati interminabili, le incantevoli mezze voci, le fluide agilità, i colori sfumati fanno della sua performance un successo osannato dal pubblico che si incanta al suo sognante «Al dolce guidami», rimane soggiogato alla sua incisiva cabaletta «Coppia iniqua», si commuove alla sua tragica fine, qui risolta quasi solo vocalmente in seguito a un incidente in cui è occorsa la Meade nel secondo atto che ha sconsigliato un suo impegno scenico, peraltro limitato anche prima.
Americano è anche John Osborn, tra i pochi interpreti oggi che possa affrontare la tessitura improba di Percy scritta su misura per le doti del Rubini e che le gole di oggi difficilmente possono, o vogliono, emulare. Al suo debutto nella parte Osborn conferma la duttilità e la potenza sonora del suo strumento vocale, l’intelligenza stilistica che gli permette di replicare il registro di testa dell’interprete originale, le sorprendenti agilità, seppur private di qualche trillo e delle puntature. Il suo è l’unico personaggio spinto dall’amore, dove invece ambizione e brama di potere dettano le azioni degli altri personaggi: Anna ormai ha rinunciato da tempo al suo affetto, Seymour è attratta e quasi spaventata da Enrico, Smeton è spinto dall’eros giovanile – e sarà una delle cause della condanna a morte di Anna.
Nella parte che ormai canta da quasi trent’anni, Sonia Ganassi fa un opportuno uso del mezzo vocale ormai sfibrato, ma le agilità sono appena accennate. La zampata dell’acuto emesso in piena forza è quella però che le fa conquistare i favori del pubblico che risponde con grandi applausi a una performance di cui si apprezza l’impegno. Il personaggio di Enrico è il meno costruito vocalmente da Donizetti e Nicola Ulivieri non fa molto di più per lasciare un ricordo memorabile. Marina Comparato è un incantevole Smeton che nel suo elegante completo giacca-pantalone non finge di essere un ragazzo. Efficace il Sir Hervey di Manuel Pierattelli, non memorabile il Rochefort di Roberto Maietta. Non sempre ineccepibile la performance del coro del teatro che si riscatta però nella componente femminile impegnata nel bellissimo finale dell’opera.
In definita quello visto a Genova è uno spettacolo tutt’altro che perfetto, ma l’assoluta eccellenza dei due protagonisti principali e la direzione musicale hanno reso interessante e convincente l’esperienza al Carlo Felice.
⸪