Der fliegende Holländer

 

foto © Michele Crosera

Richard Wagner, Der fliegende Holländer (L’Olandese volante)

Venezia, Teatro la Fenice, 22 giugno 2023

★★☆☆

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I mondi paralleli dell’Olandese

Del regista polacco Marcin Łakomicki si legge sul programma di sala che è legato al mondo dell’opera fin da bambino. Laureato in cinema e arti figurative a Łodz e in scenografia a Bologna, ha firmato la sua prima regia nel 2008 al festival di Wexford e ha collaborato con Jürgen Flimm all’Otello di Rossini scaligero del 2015. Nelle sue note di regia sullo spettacolo Łakomicki insiste sulla contrapposizione di due mondi: quello maschile e quello femminile. I desideri dei due personaggi principali sono opposti: l’Olandese desidera ancorare la sua nave e fermarsi, fare della terra il suo ubi consistam; al contrario Senta anela alla libertà da una famiglia opprimente (il padre la considera poco più che merce di scambio) e da una chiusa comunità patriarcale e per questo abbraccia con entusiasmo la proposta di fuga col misterioso marinaio. Senta rappresenta la ribellione al ruolo della donna destinata alle attività del suo sesso: aspettare il suo uomo a casa lavorando all’arcolaio e preparargli il pasto quando arriva affamato. All’uomo appartengono invece il vagabondare, il portare i tesori a casa. Senta è innamorata dell’idea più che dell’uomo, si sente la “prescelta”, è soggiogata dal suo destino di “salvatrice”, si considera diversa da tutte le altre, lei che per di più è figlia del capitano, quello che possiede un vascello e quindi è il più ricco del paese.

La lettura dell’Olandese volante di Łakomicki si avvale della scenografia di Leonie Wolf, dei costumi anni ’20 di Cristina Aceti e di Irene Selka per le luci. Con loro costruisce un mondo inizialmente naturalistico che poi vira verso un ambiente astratto. L’esecuzione dell’ouverture a sipario chiuso fa presagire una messa in scena tradizionale (non c’è il video che ci mostri l’Olandese o Senta bambini…) e infatti all’apertura si vede una prua di nave, anche se schematizzata e contornata di neon. Dietro una tenda nera si cela una scogliera che riprende quella irlandese del Giant’s Causeway con le sue rocce a prismi. Questo lo vediamo attraverso uno schermo incorniciato e semitrasparente che lascia poco spazio in proscenio, ma la poca azione è qui ancora più congelata nei movimenti: non c’è il via vai di marinai, le filatrici non filano, le masse sono pressoché immobili. Dentro la cornice stanno i cori maschili e femminili e si svolge la rappresentazione di quanto viene narrato o sognato da Senta. La scenografia è senza tridimensionalità e per la maggior parte del tempo gli interpreti cantano di fronte allo schermo, profili neri su uno sfondo grigiastro – i colori sono del tutto assenti – e nel finale neanche la fuga di cornici suggerisce qualche profondità. Sono presenti doppi di tutti i personaggi senza una particolare necessità e a un certo punto formano tutti quanti, personaggi “reali” e alias, una specie di “Ultima cena” con Daland Giuda che conta ossessivamente le monete. L’Olandese si porta appresso sei bambine che probabilmente rappresentano le sue precedenti “fidanzate”, «abermals verstrichen | sind sieben Jahr’» (sono passati sette anni ancora), nessuna delle quali però l’ha liberato dalle maledizione. Perché siano presenti e perché siano bambine non si capisce, ma non è l’unico mistero: la regia regala altri momenti inutilmente concettuali senza però offrire un’idea convincente. Lascia poi ancora più perplessi il finale: Senta non si getta da nessuna parte, non muore, non fugge, rimane in piedi lì davanti allo schermo mentre gli altri personaggi si ritirano additandola. 

È un finale che non si riflette nel climax della musica, la quale trova invece nella direzione di Markus Stenz un andamento vigoroso che nelle sue intenzioni dovrebbe compensare il fatto che «ai tempi di Wagner gli spettatori fossero in grado di emozionarsi immediatamente. Oggi invece bisogna a volte ricercare una modalità interpretativa, lavorare sull’agogica, sul tempo, per creare le sensazioni che questa partitura fa scaturire. Dare più velocità a un certo passaggio, oppure al contrario esitare, aspettare, per creare qualcosa di imprevedibile». Ecco quindi che i contrasti sono amplificati, magari a scapito di qualche sottigliezza, ma il respiro del mare, del vento, dei flutti – totalmente assenti alla vista – si ritrovano nell’udito, anche grazie all’orchestra del teatro che si dimostra pronta alle intenzioni del maestro Stenz di cui ricordiamo la sua concertazione di Fin de partie di Kurtág alla Scala cinque anni fa. (Curiosamente di quella produzione è presente il tenore Leonardo Cortellazzi, là Nagg qui Timoniere). Ottima la resa delle masse corali qui doppie: Alfonso Caiani istruisce quelle del teatro ed è affiancato da Bogdan Plish con il Coro Tars Shevchenko dell’Accademia Nazionale di Opera e Balletto dell’Ukraina.

Ne ha fatto il suo ruolo di riferimento, ma per Samuel Youn anche questa volta non si può che confermare quanto già scritto per la sua interpretazione dell’Olandese nella produzione di Py a Vienna nel 2015 o in quella di Ollé a Madrid nel 2016. La voce è indubbiamente potente ma senza colore, gli accenti latitano, l’andamento è spigoloso, gli acuti sono sforzati, prevale il parlato. Per quanto riguarda il carisma poi, lasciamo perdere: del personaggio non si intuisce il mistero, la grandezza della sua figura rimane assente, l’interazione con gli altri personaggi problematica. Qualche buu alla fine è stato comunque coperto dagli applausi di un pubblico contento del volume di voce riversato dal cantante in sala.

Dalla Korea si passa alla Germania per il Daland di Franz-Josef Selig e la Senta di Anja Kampe. Il primo si conferma interprete solido e convincente pur con mezzi vocali che iniziano a denunciare qualche fatica e con un eccesso di vibrato. Anja Kampe ripropone qui il suo temperamento esibito nelle Leonore, Isotte, Minnie con qualche grido di troppo: più che una figura romantica la sua è quella di una donna che ha deciso di far lotta al mondo intero. La problematicità della lettura registica non le permette di arrivare a una lettura pienamente convincente del suo personaggio che rimane quindi in un certo senso incompleto. Il bel timbro di Toby Spence trova qui conferma, ma il suo Erik è vocalmente un po’ corto e il tenore inglese è talora in difficoltà con l’esigente scrittura tenorile di Wagner. Annely Peebo (Mary) e il già citato Leonardo Cortellazzi come Timoniere completano il cast di una produzione che ha raccolto i generosi applausi del pubblico veneziano.