Mese: ottobre 2023

I due Foscari

foto © Andrea Crovera

Giuseppe Verdi, I due Foscari

Venezia, Teatro La Fenice, 8 ottobre 2023

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Com’è triste Venezia…

Opera venezianissima: siamo nel XV secolo e i Foscari del titolo sono il Doge Francesco e il figlio Jacopo, vittime del rancore tra famiglie nemiche e della brama di vendetta di Jacopo Loredano, membro del temibile Consiglio dei Dieci. Jacopo Foscari, ingiustamente accusato per un delitto che non ha commesso, ritorna illegalmente dall’esilio a cui era stato condannato sperando nella clemenza del Consiglio e nell’intercessione del padre Doge, ma Francesco, pur combattuto, è rispettoso della legge e il figlio è nuovamente condannato all’esilio morendo di crepacuore sulla nave che lo deve portare a Creta. Ma l’accanimento contro i Foscari non ha fine: Francesco viene costretto a dimettersi e la notizia che una confessione ha scagionato il figlio, ahimè troppo tardi, e il rintocco delle campane che festeggiano il nuovo Doge Malipiero, sono fatali per il vecchio che muore anche lui «d’angoscia». Un soggetto perfetto per La Fenice, «pieno di passione e musicabilissimo», come scrive Verdi, ma il teatro rifiuta ritenendo inopportuno riportare a galla l’antico rancore tra famiglie ancora attive allora in città e il compositore si rivolge altrove: I due Foscari vedrà la luce a Roma, al Teatro Argentina il 3 novembre 1844.

Francesco Foscari è il primo di una serie di vecchi oppressi dal potere – verranno poi Simon Boccanegra, Don Carlo, a suo modo anche Macbeth – e l’opera è un punto di svolta della drammaturgia verdiana: I due Foscari è il primo lavoro nel quale «vicende politiche siano in sostanza il motore stesso dell’azione», come scrive Massimo Mila, anche se Verdi qui sembra volersi staccare dal genere di Nabucco e Lombardi, opere prevalentemente di grandi quadri e vicende collettive, per rivolgersi invece a un dramma imperniato su personaggi-individui e azioni private travolte dalla politica. Per la prima volta qui si incarnano «la ragion di stato, le contraddizioni del potere, la solitudine che da esso deriva, la scissione tra persona privata e personaggio pubblico», come ricorda giustamente il Maestro Stefano Rolli nell’intervista inserita nel programma di sala.

La musica dei Foscari è scura al pari della tragedia di Lord Byron, The Two Foscari: An Historical Tragedy da cui è tratto il libretto di Francesco Maria Piave, lo stesso librettista del precedente Ernani. Nel 1821 a Ravenna Byron aveva scritto anche Marino Faliero, Doge of Venice, anch’essa ambientata nella città lagunare che il poeta conosceva bene per averci vissuto molti anni. I cinque atti della tragedia di Byron non sembrano offrire una particolare drammaturgia essendo l’azione statica, congelata nel lamento di tre personaggi – è presente con i suoi figli anche Lucrezia, la moglie di Jacopo – ma fin dalle prime note dell’ouverture Verdi riesce a definire con efficacia teatrale la plumbea atmosfera che dominerà nel dramma, con gli strumenti spesso nel registro grave e un uso dei timpani prima sommesso poi quasi ossessivo. L’atto secondo inizia con la tetraggine del carcere, in cui langue Jacopo, dipinta da un duo viola-violoncello di grande cupezza. Neanche la musica con cui si apre il terzo atto, il coro e barcarola del popolo e delle maschere «che si incontrano, riconoscono, passeggiano. Tutto è gioia» come dicono le didascalie del libretto, nella sua brevità riesce a cancellare la cupezza dell’atmosfera che volge presto in tragedia con la morte dei due personaggi eponimi. Ma a rendere teatrale e «musicabilissimo» I due Foscari sono le arie e il guizzo delle cabalette, cosa che ha ben compreso Sebastiano Rolli, specialista del repertorio verdiano, che a capo dell’orchestra del teatro dà una lettura trascinante della partitura realizzando alla perfezione questo primo Verdi degli “anni di galera”, un compositore costretto a un lavoro forsennato e massacrante sotto i condizionamenti dell’ambiente teatrale. Bilanciando il suono orchestrale Rolli riesce ad accompagnare le voci nello slancio delle cabalette e nei concitati ensemble dei finali infuocati con tempi esatti e colori ora sommessi ora sfavillanti. Una prova magnifica di senso del teatro.

Nel cast vocale svetta la maiuscola performance di Luca Salsi, un Francesco Foscari delineato a tutto tondo con grande proiezione vocale, ricchezza di sfumature e intenzioni, una scavo sulla parola senza pari. Due sono i momenti solistici più grandiosi di questo personaggio magnificamente tratteggiato da Verdi: nel primo atto «Eccomi solo alfine… […] O vecchio cor, che batti | come a’ prim’anni in seno» quando esprime il tormento della sua impotenza di fronte alla legge; nel terzo atto l’amaro sfogo di «Questa dunque è l’iniqua mercede, | che serbaste al canuto guerriero?» rivolto al Consiglio dei Dieci che gli impone la rinunzia. In entrambi il baritono parmense sa trarre accenti da brivido che lo mettono alla pari con i più celebrati interpreti del passato. Nei panni di Jacopo Foscari Francesco Meli non parte benissimo: le note tenute sono eccessivamente vibrate, gli acuti sforzati, ma poi nel corso della serata l’esecuzione migliora e il tenore genovese riesce a fornire una solida e convincente performance. La parte di Lucrezia Contarini è tra le più impervie tra quelle delle opere di questo periodo, al pari di Abigaille, ma Anastasia Bartoli la affronta con grande sicurezza con quella voce imperiosa come una lama d’acciaio che nel tempo si spera diventi però meno tagliente. Difficile non rendere odiosa la parte di Jacopo Loredano, ma Riccardo Fassi non eccede in truculenza, anzi ne dà una lettura sobria e pure elegante. Qui ci vorrebbe l’aiuto di un regista per definire il personaggio, ma la regia è totalmente latitante. L’ultima volta che I due Foscari è stato dato a Venezia fu nel 1977 con la regia di Sylvano Bussotti: tanto valeva riprendere quella produzione vista a Torino qualche anno dopo e che mi ricordo fosse a suo modo efficace. Grischa Asagaroff si limita a far entrare e uscire i personaggi e il coro senza un vero senso drammaturgico e gli interpreti affidano alle loro capacità attoriali la teatralità dei loro gesti, per lo più convenzionali. Non va meglio per la scenografia di Luigi Perego che ricrea una Venezia falsa e bruttoccia, con le nuvolette e il mare dipinti sulle quinte e con al centro un parallelepipedo, ispirato alla tomba dei Foscari nella chiesa dei Frari, fatto ruotare da quattro figuri in mantelli neri lucidi per creare i vari ambienti. Lo stesso Perego disegna i costumi tutti uguali con con un guizzo di surreale follia al terzo atto, quello delle maschere, quando tutti si presentano con un copricapo a forma di ferro delle gondole… Neanche alle Folies Bergères o a Las Vegas hanno mai osato tanto kitsch! Ah, anche qui c’era un balletto. Da dimenticare.

Deluso dalla Venezia dipinta, il pubblico si è infiammato però per la parte musicale con calorosi applausi agli interpreti vocali e al direttore. Uno spettacolo da ascoltare senza guardare.

 

Un mari à la porte

foto © Andrea Macchia

Jacques Offenbach, Un mari à la porte

Torino, Teatro Regio, 6 ottobre 2023

Grande o piccola, l’opera è francese a Torino

Soffia un vento transalpino sul teatro lirico torinese: anche il secondo titolo della sua stagione arriva dalla Francia, ma dopo il grand-opéra de La Juive, nella sala più raccolta del Piccolo Regio Puccini va in scena un’operetta di Jacques Offenbach, Un mari à la porte. Creata il 22 giugno 1859 ai Bouffes-Parisiens su libretto di Alfred Delacour e Léon Morand, dopo il successo strepitoso di Orphée aux enfers con questo lavoro Offenbach torna al genere sans façon delle sue prime opere – Les deux aveugles, Le violoneux, Ba-ta-clan, Croquefer… – lavori brevi di argomento leggero e con pochi personaggi: nei piccoli teatri parigini si potevano rappresentare pièce con al massimo tre personaggi. Le norme erano nel frattempo cambiate ma con Un mari à la porte Offenbach sembra volersi burlare di quelle vecchie leggi poiché i personaggi sono sì quattro, ma solo tre sono in scena: il quarto rimane dietro la porta e appare solo nel finale. La situazione ricalca quella delle pochade di Eugène Labiche che in quegli stessi anni presentava sulla scena buffe vicende di coppia: Un mari qui prend du ventre (1854), Les cheveux de ma femme (1856), Le clou aux maris (1858)… È una satira della morale della società del tempo, perbenista fino all’ipocrisia, e soprattutto del matrimonio, massimo esempio di convenzione borghese.

Qui la situazione ha quasi del surreale: inizia con un uomo, Florestan Ducroquet, che salta fuori dal camino per ritrovarsi in un boudoir elegantemente arredato («Oú diable suis-je? Ahhhh! Parfum de boudoir… Je suis chez une femme… une jolie femme peut-être…»). Musicista spiantato e libertino il venticinquenne bellimbusto è in fuga da un marito geloso e dai creditori, in particolare da un ufficiale giudiziario che si rivelerà il padrone di casa. L’uomo si nasconde all’arrivo di due donne, Suzanne, novella sposa, e l’amica Rosita. In lite col marito Henri per futili motivi, Suzanne vuole lasciarlo fuori della porta per punizione, ma si vede costretta a farlo soprattutto per salvare l’onore, per non essere scoperta in camera con uno sconosciuto appena uscito dall’armadio. L’atteggiamento inizialmente incredulo e divertito del marito che non crede alla presenza di un uomo nella sua camera si trasforma poi in vera gelosia e come il Conte de Le nozze di Figaro lo sposo minaccia di buttare giù la porta con mezzi pesanti. Ma una corda, che appare come deus ex machina e che permette a Florestan di porsi in salvo, e una chiave recuperata in giardino portano allo scioglimento dell’impiccio con sollievo di tutti quanti.

La partitura di Un mari à la porte è andata perduta: si ha soltanto lo spartito per canto e pianoforte sul quale viene ogni volta costruita l’orchestrazione, qui affidata ad Alessandro Palumbo. Riccardo Bisatti dirige l’orchestra del Teatro Regio ridotta a una smilza compagine di 19 strumentisti – flauto, oboe, clarinetto, fagotto, due corni, percussioni e archi. Le dimensioni raccolte della sala e dell’orchestra sono ideali per ricreare l’atmosfera che si respirava ai Bouffes-Parisiens, ma la buona volontà e la dedizione del giovane maestro concertatore non fanno il miracolo e l’esecuzione è corretta e gustosa ma manca quel quid che rende unici per la loro strampalata comicità (i francesi la chiamerebbero cocasserie) le partiture del compositore franco-tedesco. L’orchestrazione non si fa notare per particolare brillantezza e gli interventi degli strumenti a fiato non risultano molto incisivi, più convincenti gli archi nei trascinanti ritmi di danza. Valzer e mazurke vengono infatti a interrompere i dialoghi recitati.

Il ridotto cast è costituito da alcuni dei giovani interpreti del Regio Ensemble come il mezzosoprano Xenia Chubunova, una moglie rassegnata con ancora l’abito da sposa. Il timbro è caldo ma la dizione poco chiara e non sempre è a suo agio nelle parti recitate. Il tenore Paweł Żak, un Florestan scenicamente vivace ma affetto da una pronuncia inaccettabile del francese, ha a disposizione uno dei sei momenti musicali dell’opera, quella “lamentation de Florestan” in cui Offenbach prende in giro il grand-opéra con la sua esagerata drammaticità. Il baritono Matteo Mollica, il marito fuori della porta, ha un ruolo piuttosto ridotto che non mette in risalto le qualità dell’interprete: si limita a poche frasi e solo nel finale si unisce a tutti gli altri per riprendere il refrain «Tu l’as voulu, Georges Dandin», riferimento al personaggio della comédie-balet di Molière e Lully, dove un ricco contadino in cambio della sua fortuna acquisisce un titolo nobiliare, un rango e una moglie che però si rivela ribelle.

Resta il personaggio di Rosita a cui Offenbach ha conferito la parte più brillante e il solo numero musicale solistico dell’operetta, ma il soprano Amélie Hois, l’unica di madrelingua e ascoltata con piacere come Papagena e in Powder her Face, pur indisposta accetta generosamente di cantare lo stesso ma ne risente la brillantezza dei suoi interventi e purtroppo vengono a mancare le acrobazie vocali della sua “valse tyrolienne”, risolte all’ottava inferiore.

La regia dello spettacolo è affidata ad Anna Maria Bruzzese, la coreografa de Il paese dei campanelli visto a Martina Franca e a Novara, la quale riesce a gestire con efficacia l’andirivieni dei personaggi sul minuscolo palcoscenico ma senza particolari guizzi di lettura. Neppure l’impianto strettamente realistico della scenografa Claudia Boasso tenta qualcosa di nuovo con il suo boudoir meticolosamente riprodotto secondo il gusto di metà Ottocento, dove una tavola è già approntata per una romantica cenetta tête-à-tête ma l’impressione è quella claustrofobica di una gabbia dorata in cui richiudere la condizione femminile del tempo. Coerenti sono gli elaborati costumi di Laura Viglione, colonna portante della sartoria del Teatro Regio mentre Andrea Rizzitelli si occupa del gioco luci i cui cambiamenti di colori sottolineano i momenti clou della vicenda, come quando l’ambiente si tinge di verde allorché i tre gaudenti sentono l’effetto inebriante dell’assenzio che hanno appena tracannato.

Si è trattato dunque della lodevole proposta di un titolo poco frequentato – l’ultima delle scarse rappresentazioni in Italia è stata quella fiorentina del 2019, bicentenario della nascita di Offenbach – e dopo l’opulenza de La Juive inaugurale era giusto puntare su un modello di teatro in musica totalmente differente. Che però ha dimostrato come sia arduo ricreare lo spirito di un genere che è molto difficile rappresentare al di fuori della Francia per il problema della lingua nelle parti recitate. Il pubblico ha comunque gradito ed apprezzato lo sforzo dei giovani artisti rispondendo con generosi applausi.

Opéra de Monte-Carlo

Alessandro Mormile, Opéra de Monte-Carlo

578 pagine, Liber Faber, 2022

Ci si può innamorare di un teatro? Pare di sì, per lo meno è quanto a successo al critico musicale e studioso di storia della vocalità Alessandro Mormile che in un poderoso libro di 578 pagine suddivise in due tomi editi da Liber Faber confessa la sua passione raccontando “storia e ricordi di un teatro leggendario”, come recita il sottotitolo. Stiamo parlando dell’Opéra de Monte-Carlo. Magari non si condivide pienamente l’entusiasmo che l’autore professa per tutto quello che avviene nel principato di Monaco, ma per quanto riguarda la sua istituzione lirica non si può non restare ammirati per le sue stagioni che dal 1879 sono ospitate in una sala progettata da Charles Garnier, lo stesso architetto dell’Opéra di Parigi, di cui questa è la versione minore per dimensioni ma non per opulenza.

Invertendo l’ordine cronologico, è il secondo volume a occuparsi della storia del teatro nato quale ampliamento dell’edificio del Casino costruito nel 1863: una sala da concerto di fianco ai tavoli da gioco allo scopo di ampliare l’offerta del turismo invernale nella città-stato monegasca. Da allora l’Opéra de Monte-Carlo ha ospitato numerose prime mondiali e sulle sue tavole si sono esibiti i maggiori artisti della lirica e del balletto. La serata inaugurale del 25 gennaio 1879 alla presenza del principe Charles III si era aperta con un monologo di Sarah Bernhardt ed era proseguita con l’avvicendarsi sul palcoscenico dei più grandi cantanti del momento. All’epoca, oltre alla esecuzione di opere intere si apprezzavano anche brani scelti di titoli diversi: la sera del 18 marzo 1884 si poteva ad esempio assistere all’atto V scena prima dell’Aida, all’atto IV di Hamlet, l’atto V del Faust e l’atto IV de Il trovatore… Con la stagione 1892 iniziava la guida di Raoul Gunsbourg, che sarebbe terminata dopo più di mezzo secolo nel 1951, una delle gestioni più lunghe del teatro d’opera, con una piccola interruzione durante la Seconda Guerra Mondiale per la fuga in Svizzera dai Nazisti essendo lui di origini ebraiche. Sotto la sua direzione si ebbe la prima messa in scena de La damnation de Faust (1893) e le prime assolute di opere di César Franck, Camille Saint-Saëns, di Amica di Mascagni (1905), de La rondine di Puccini (1917) e di ben sette lavori di Massenet: Le jongleur de Nôtre Dame (1902), Chérubin (1905), Thérèse (1907), Don Quichotte (1910), Roma (1912), Cléopâtre (1914) e Amadis (1922), queste ultime due postume. Purtroppo nel tempo le novità si sono fatte più rare nella programmazione, come riporta Mormile nelle tante pagine di appendice del suo libro ricco di informazioni.

Il primo volume riporta invece i ricordi personali dell’autore a partire dagli anni della direzione di John Mordler fino ad arrivare a quella di Cecilia Bartoli. Già da alcuni anni critico musicale del teatro, nel 1993 Mormile si era trovato coinvolto in un progetto sulla storia dei teatri d’opera e sale da concerto delle maggiori città europee e a lui era toccata proprio la Salle Garnier del principato. La sua sintesi storica veniva a coprire un vuoto che non era colmato da una poderosa pubblicazione di vent’anni prima di T.J.Walsh sulla storia del teatro monegasco che si fermava al 1951. In questo primo volume Mormile prende in rassegna, con dovizia di annotazioni e un ricco apparato iconografico, tutte le stagioni a partire da quella del 1989, aperta con un allestimento di Pier Luigi Pizzi de La traviata con Nelly Miricioiu, un poco più che debuttante Roberto Alagna e Piero Cappuccilli. Gli anni ’90 sono quelli del debutto monegasco di Cecilia Bartoli nel Barbiere di Siviglia, dell’Italiana in Algeri di Lucia Valentini Terrani (1990), di Hamlet di Thomas con Thomas Hampson (1993), dell’accoppiata Cavalleria rusticana e Pagliacci con Plácido Domingo, del Faust di David McVicar con la Marguerite di Angela Gheorghiu (2005), per nominare solo alcuni spettacoli della direzione Mordler (1984-2007). Poi era toccato a Jean-Louis Grinda (2007-2022), nato nel principato, figlio del baritono Guy Grinda e regista d’opera. Con lui i cartelloni si intensificano, la varietà di titoli in programma aumenta così come il numero di recite. È sua anche la prima apertura del teatro a un musical, Man of la Mancha (2012) basato sulla vicenda di Don Chisciotte. Del suo periodo ricordiamo il Cyrano de Bergerac di Alfano con Alagna (2008), il Mefistofele con Erwin Schrott (2012) e la Norma “filologica” della Bartoli (2016) la quale subito dopo rinforzava il suo legame con il Principato con la nascita dell’ensemble “Les Musiciens du Prince”. La sua assunzione a direttore dell’Opéra de Monte-Carlo nel settembre 2022 è cronaca attuale.

Carmen

Georges Bizet, Carmen

Rouen, Théâtre des Arts, 30 settembre 2023

(diretta streaming)

Una sera al museo

Il 3 marzo 1875, al Théâtre National de l’Opéra-Comique, il pubblico parigino veniva sconvolto da un’opera che poi sarebbe diventata il titolo francese più eseguito nel mondo, ma intanto che scandalo aveva provocato Carmen, con quella musica dai colori abbaglianti, quella storia cruda, quei caratteri sanguigni, e soprattutto quella donna…

Centocinquant’anni dopo come far rivivere al pubblico di oggi l’emozione di quella sera? Utilizzando un’estetica più vicina ai nostri tempi, come ha fatto egregiamente Calixto Bieito oltre dieci anni fa con la sua fortunata produzione che continua a essere presentata sui palcoscenici dei maggiori teatri. Certo non proponendo con la maggior fedeltà possibile lo spettacolo del 1875, come ha fatto la coproduzione Palazzetto Bru Zane France–Centre de musique romantique française, l’Opéra di Rouen Normandie e l’Opéra Royal–Château de Versailles Spectacles, quasi a voler replicare alla recente polemica che oppone i difensori del Regietheater ai partigiani della tradizione assoluta, quelli cioè che deplorano il fatto che il pubblico popolare stia perdendo interesse per la lirica e rimpiangono l’epoca d’oro in cui le opere del repertorio erano rappresentate in ambienti figurativi che rispettavano il tempo e il luogo delle trame, per quanto assurde. Per queste persone, l’opera è puro intrattenimento, che racconta belle storie in bei costumi. Il dibattito che sta attraversando il mondo dei melomani ha probabilmente molto da imparare dalla Carmen di Rouen. Questo spettacolo non li mette certo d’accordo ma serve soprattutto a confrontare per liberare dalla polvere le messe in scene tradizionali che ancora – giustamente – si vedono in giro.

Affidata al giovane regista Romain Gilbert, questa Carmen è innanzitutto un’impresa, senza precedenti a questo livello,  di “archeologia operistica” con cui si è voluto ricostruire, nel modo più rigoroso possibile, quello che vide il pubblico parigino presente all’Opéra-Comique la sera della prima del capolavoro di Georges Bizet. Il corpus documentale pazientemente assemblato in due anni da Alexandre Dratwicki e dai musicologi del Palazzetto Bru Zane è stato fornito dai taccuini degli allestimenti, i livret de mise en scène,  conservati nella biblioteca dell’Opéra national de Paris. Sono stati analizzati brandelli di stoffa dei costumi originali e studiate le incisioni e le foto delle rappresentazioni  della sua prima trionfale tournée mondiale. M uno degli scopi di questa produzione è stato quello di valorizzare gli antichi mestieri ora minacciati di estinzione dai moderni allestimenti, quelli di modiste, parrucchieri e pittori di scene a tempera, che qui hanno potuto veder onorata le loro abilità. Costumisti e disegnatori di oggetti di scena sono riusciti a illustrare ogni parola del libretto: nel secondo atto lo shako, la sciabola e la giberna elencati da Meilhac e Halévy sono effettivamente presenti in scena; le carte con cui le zingare prevedono il futuro sono autentiche come autentiche sono le navajas usate nel duello del terzo atto, veri coltelli spagnoli con il manico inciso e prima della corrida i venditori ambulanti hanno realmente nei loro cesti di vimini i ventagli «pour s’éventer», le arance «pour grignoter», il programma «avec les détails», vino, acqua, sigarette. Partendo dalle incisioni ottocentesche Christian Lacroix ha poi disegnato i costumi con una cura meticolosa per l’autenticità di fogge, dettagli, tessuti e colori – e le giacche gialle dei soldati finalmente giustificano l’epiteto ingiurioso di “canarino” che una furiosa Carmen lancia a Don José: «Tu es un vrai canari, d’habitat e de caractère»! 

E poi ci sono le scenografie meticolosamente ricreate da Antoine Fontaine con un occhio all’autenticità storica: realizzate nei laboratori dell’Opéra di Rouen da scenografi che proseguono la tradizione della tempera all’italiana, le immense tele dipinte e gli scorci architettonici dei quattro atti suscitano l’ammirazione nel pubblico a ogni apertura di sipario. Molto meno per lo spettatore della ripresa televisiva, con l’obiettivo che oltre ai primi piani dei protagonisti svela l’effetto sfocato delle pitture, efficaci solo se viste da lontano, dal pubblico in sala. Hervé Gary col suo disegno di luci calde e soffuse ricrea l’effetto dell’illuminazione a gas originale.

A questo punto ci si chiede quali margini di libertà siano rimasti al regista di uno spettacolo così strettamente codificato. In un’intervista, il metteur en scène Romain Gilbert ha affermato che i taccuini portati alla luce dagli archivi dell’Opéra di Parigi, che contengono anche le indicazioni dei movimenti e delle posizioni in scena del coro e dei cantanti, costituiscano solo il 40% del suo lavoro. Nel 60% disponibile Gilbert replica gli atteggiamenti stereotipati dei tableaux d’insieme, con il coro posizionato convenzionalmente ad arco dietro i solisti che cantano rivolti verso il pubblico. Il cambio della guardia, la lotta delle sigaraie e la sfilata della quadriglia – finalmente si capisce che cosa sono gli alguazil, i chulos, i chubs, i banderilleros e i picadors! – sono comunque tutti coreografati con precisione. Qui viene ripristinata anche la pantomima del vecchio marito geloso all’inizio del primo atto, che oltre a rimpinguare la parte cantata da Morales, ci fa riscoprire uno stile recitativo certamente superato, ma che era molto in voga e apprezzato dal pubblico del XIX secolo. Il regista ci mette del suo nei tocchi psicologici dei personaggi, soprattutto di quel mammone di Don José che oscilla patologicamente tra brutalità e tenerezza e i cui tormenti edipici sono delicatamente suggeriti in due momenti: nel primo atto, quando José chiede di sua madre a Micaëla e si siede ai piedi della fidanzata appoggiando la testa sul suo grembo, nell’atteggiamento di un bambino che cerca il conforto della mamma. Nell’atto successivo, alla fine di «La fleur que tu m’avais jetée», José si inginocchia nuovamente ai piedi di Carmen, appoggiando la testa sul suo grembo e invitandola ad accarezzargli i capelli con la mano. Qualunque sia la donna che ama, José cerca una figura materna, fino a diventare violento, come un bambino a cui viene negato un capriccio.  La sua psiche fragile si evidenzia di nuovo alle porte dell’arena: abbandonato da Carmen, José prima volge il coltello su sé stesso in un ricatto che non smuove la zingara, poi la uccide mentre lei gli volta le spalle, non osando  più affrontarne lo sguardo.

Il teatro di Rouen è riuscito a riunire sul suo palcoscenico un cast di giovani cantanti quasi tutti al debutto nelle rispettive parti, una scelta saggia, perché gli artisti dovevano essere liberi da qualsiasi idea preconcetta o tic recitativo che avrebbe potuto interferire con il tentativo di autenticità dello spettacolo. Così è infatti per Deepa Johnny, mezzosoprano omanita-canadese, Carmen dal timbro di colore magnifico, sensuale, dal bel fraseggio e dalla magnetica presenza scenica. Si fatica a credere che la sua sia una prise de rôle tale è la sicurezza, la bellezza della dizione, la facilità nel gestire le esigenze vocali. Stanislas de Barbeyrac, che dopo la prima ha sostituito Thomas Atkins, è un Don José che nasconde sotto un fare manesco la sua fragilità.  Mozartiano nell’anima, il tenore francese porta nella sua performance eleganza e  sobrietà rispettando fedelmente l’agogica prevista dalla partitura. Il soprano rumeno Iulia Maria Dan ha già cantato Micaëla e ne conserva qui il candore e la purezza della linea di canto. Una vera delusione è invece Nicolas Courjal, basso grandemente ammirato in tutte le sue prestazioni precedenti, qui come Escamillo mostra la corda di una voce tesa in modo innaturale, i suoni sono eccessivamente vibrati e malgrado la perfetta dizione la dimensione smargiassa del personaggio non esce fuori. Davvero un peccato. Di ottimo livello l’aitante Morales di Yoann Dubruque, la Frasquita di Faustine de Monès, la  Mercédès di Floriane Hasler, lo Zuniga di Nicolas Brooymans e il duo particolarmente buffo del Remendado (Thomas Morris) e del Dancaïre (Florent Karrer). Bene anche i cori, Accentus e del teatro, diretti da Christophe Grapperon e le voci bianche istruite da Pascal Hellot.

Ben Glassberg, direttore stabile dell’Opéra de Rouen, fornisce una lettura ritmicamente esaltante della partitura nella versione Choudens con i recitativi cantati di Giraud. Non era il caso invece di mantenere quelli parlati dell’originale in questo allestimento storico?

Il paese dei campanelli

photo © Mario Finotti

Virgilio Ranzato e Carlo Lombardo, Il paese dei campanelli

Novara, Teatro Coccia, 29 settembre 2023

★★★★☆

Scambio di coppie a ritmo di foxtrot

Anche a Novara diverte il pubblico lo spettacolo di Martina Franca, felice incursione nel mondo dell’operetta del Festival della Valle d’Itria, ossia Il paese dei campanelli, prodotto con la Fondazione Teatro Carlo Coccia.

Con la medesima scintillante massa in scena di Alessandro Talevi e quasi lo stesso cast, qui di diverso c’è il direttore d’orchestra, e si sente. Roberto Gianola dirige con passione e gusto l’Orchestra Filarmonica Italiana, ma non c’è la leggerezza e la trasparenza della concertazione di Fabio Luisi, il volume sonoro è talora eccessivo e copre le voci, si perdono le preziose nuances e le sottigliezze strumentali della sapiente orchestrazione. In questa esecuzione si ha anche l’occasione di ascoltare per intero i due finali primo e secondo, due numeri complessi con intervento del coro, mentre qui a Novara è meno evidente il contrasto tra i momenti lirici, quelli dovuti soprattutto alla firma di Ranzato, e quelli più ritmicamente marcati, usciti dalla penna di Lombardo. Tra i primi, il “duetto del ricamo” e il numero di Bombon «Quello che egli ama in te», ripreso in seguito da Nela e da Hans. Tra i secondi, i ritmi di foxtrot, shimmy, charleston e java: un catalogo dei balli alla moda in quegli anni. I numeri musicali hanno la classica struttura delle canzoni di quel periodo: un’introduzione e un refrain, dove si concentra l’elemento melodico più evidente, spesso ripetuto in modo che il motivo ben si imprima nella memoria del pubblico. Ripreso più volte nel corso dello spettacolo, quello più intrigante accompagnava spesso la passerella finale degli artisti tra l’entusiasmo del pubblico.

Qui non c’è la passerella, ma la regia di Alessandro Talevi rimane comunque un miracolo di eleganza e ironia che induce gli spettatori alla risata con una serie di trovate, come l’ingresso di una zebra, di fenicotteri danzanti e di un gorilla, elementi che aggiungono un tocco surreale alla strampalata vicenda dei campanelli che suonano quando avviene un incontro extraconiugale in un improbabile paese olandese qui diventato una sala di caffè concerto dove sono gli abat jour sui tavolini a “tintinnare”. Il palcoscenico del Coccia è più profondo e meglio accoglie le eleganti scenografie di Anna Bonomelli a cui si devono anche i preziosissimi costumi e più curate sono qui le luci di Ivan Pastrovicchio. Sempre godibili sono le coreografie di Anna Maria Abruzzese. Cinque palme danno il tocco esotico e rimandano a quell’Italietta che negli anni ’20, l’epoca in cui Talevi ambienta la vicenda e anche quella del debutto dell’operetta di Lombardo-Ranzato, si scopriva colonialista sotto il regime fascista: negli anni successivi sarebbe nata l’Africa Orientale Italiana e sarà stato proclamato ufficialmente l’Impero italiano, ma a casa propria il paese era cambiato poco, soprattutto per la condizione delle donne, qui esemplificate nella figura di Nela, «la pupa da étagère o il bibelot», come le fa notare la più smagata Bombon che ha viaggiato per il mondo intero – e le mancano solo Giappone, Honduras e Nepal! L’ingenuità disarmante del personaggio di Nela è tale che nessuno pensa a un doppio senso quando, nella sua prima romanza, esalta le virtù del latte appena munto: «Oh quanto è buono il latte che v’offriamo […] ne prenda chi ne vuol»… In evidente contrasto sono le “inglesine” capeggiate da Ethel, «Sempre rapida e sicura, | va l’intrepida inglesina | per il monte e per il pian! | Pronta sempre all’avventura». Altamente spregiudicate ed emancipate dovevano sembrare al pubblico femminile che affollava il Lirico di Milano esattamente cento anni fa.

I cantanti confermano le doti già ammirate: Francesca Sassu (Nela) e Norman Reinhardt (Hans) vestono i personaggi in cui maggiormente sono richieste qualità canore, che troviamo nell’afflato lirico e patetico della prima, e nell’eleganza e il “british touch” del secondo (anche se è americano…). I caratteri “brillanti” sono affidati alla vivacità e alla presenza scenica di Marina Tampakopoulos (Bombon) mentre una new entry è Francesco Tuppo (La Gaffe). Silvia Regazzo (Ethel) completa il quintetto di voci cantanti e si confermano spigliati attori Federico Vazzola (Pomerania), Stefano Bresciani (Attanasio Prot), Fabio Rossini (Tarquinio Brut), Pasquale Buonarota (Basilio Blum) e Leonardo Alberto Moreno (Tom) nei ruoli solo recitati.

Sia a scena aperta sia alla fine applausi scroscianti salutano gli artefici dello spettacolo da parte di un pubblico variegato e divertito. Oggi si replica.