Giacomo Puccini, Turandot
Vienna, Staatsoper, 16 dicembre 2023
(video streaming)
A Vienna Turandot è vista attraverso gli occhiali di Freud
Turandot ha aperto la stagione del San Carlo di Napoli, ancora Turandot chiude l’anno dell’Opera di Stato viennese. Nello stesso giorno in cui la Scala inaugura con uno spettacolo che è stato definito un «concerto in costume» per l’assenza quasi totale di regia, Vienna ne mette invece in scena uno in cui la regia, affidata a un regista come Claus Guth massimo esponente del Regietheater, è tra gli elementi più caratterizzanti della produzione.
Anche se l’ultima opera di Puccini fu presentata a Vienna appena sei mesi dopo la prima della Scala del 1926, non è così frequentemente eseguita nei teatri austriaci – Turandot è stata vista la prima volta a Salisburgo solo nel 2002 – ma ora il teatro sul Ring ha fatto le cose in grande, arruolando i due cantanti più richiesti del momento: Asmik Grigorian, debuttante nel ruolo del titolo, e Jonas Kaufmann, molto atteso dopo il periodo di problemi di salute e anche lui debuttante scenicamente nel ruolo dopo averlo cantato a Roma in forma di concerto.
Con la scenografa Etienne Pluss, Guth concepisce una pièce da camera di un’attualità senza tempo, lontana da qualsiasi decoro pseudo-cinese: una scatola bianca che diventa anticamera e poi camera da letto di Turandot, la quale non è la principessa mistica e orgogliosa di molte produzioni, ma una donna traumatizzata che è stata vittima di un uomo e ora rivolge la sua aggressività verso l’esterno, diventando lei stessa carnefice. Guth tenta così di decifrare la fiaba dal punto di vista psicologico con un costante riferimento a Sigmund Freund e Franz Kafka, alternando realismo e simbolismo. I video della Rocafilm mostrano una Turandot gigante dietro una lastra di vetro smerigliato su cui viene spalmato sangue e Liù ha quattro sosia nel primo atto mentre Timur, cieco che cammina con un bastone, sembra invece uscito da una produzione più tradizionale.
Nella camera da letto di Turandot, luogo di politica e di punizione dove una donna delle pulizie cancella la macchia di sangue dell’esecuzione precedente, la principessa è accovacciata nel suo letto, circondata da quattro comparse in abiti rosa e con teste di bambole bianche sovradimensionate che riflettono il suo non voler uscire dallo stato di adolescente. Il fatto che la principessa Turandot ponga tre indovinelli irrisolvibili ai pretendenti e raccolga le loro teste tiene occupata la burocrazia del regno del terrore: le teste mozzate vengono pesate, catalogate e raccolte in scatole. Ursula Kudrna veste la corte di questo regime totalitario con abiti/uniformi che ricordano la Corea del Nord ma anche figure Playmobil, con la stessa parrucca rossa, occhiali, abito verde menta. Figure che si muovono meccanicamente, ingranaggi di una macchina burocratica kafkiana mentre le grandi porte doppie rinforzate in acciaio richiamano quelle dell’appartamento di Freud nella Berggasse.
Turandot è una sposa che non adotta il passato come un mantello protettivo, ma si sente intrappolata in un momento terribile della sua vita, un momento in cui matrimonio e stupro sono una cosa sola. Asmik Grigorian dimostra ancora una volta la sua classe: quello di Turandot può essere un ruolo vocalmente pericoloso per lei ma, come per la sua Salome, l’intelligente interpretazione si avvale di un timbro dai colori luminosi in un insieme del tutto convincente. Delle sue doti di attrice non si discute, così come della sua capacità magnetica di riempire la scena.
Riesce a tenere il passo il Calaf molto umano di Jonas Kaufmann, stralunato in questo mondo grottesco e oppressivo. Più che un conquistatore spavaldo, il suo Calaf si presenta come un compagno sensibile che tende la mano a una donna in lotta con i suoi dèmoni. Kaufmann non si risparmia vocalmente, gli acuti di tradizione ci sono tutti, ma è soprattutto nelle mezze voci che si ammira la sua grande espressività.
Anche il terzo personaggio decisivo dell’opera, la serva Liù, viene reinterpretato dalla prospettiva di Guth: la schiava che si sacrifica per amore non è qui una vittima, a differenza di Turandot, ma una donna forte e fiera, mai lagnosa come talora vien interpretata Liù. Vestita di nero, è anche la controparte della bianca ed eterea Turandot e la voce sontuosa e di grande proiezione del soprano russo Kristina Mkhitarian si conforma magnificamente a questa lettura. Il prezioso cast vocale è completato dal meno decrepito del solito Altoum di Jörg Schneider, dal Timur autorevole di Dan Paul Dumitrescu, dal Mandarino di Attila Mokus e dal vivace trio di maschere formato da Martin Häßler (Ping), Norbert Ernst (Pang) e Hiroshi Amako (Pong).
La sontuosità zeffirelliana che manca nell’aspetto visivo dello spettacolo la ritroviamo a livello sonoro nella magnificenza orchestrale dei Wiener sotto la sicura guida di Marco Armiliato. che ha sostituito il previsto e indisposto Hans Welser-Möst. La bellezza e modernità della partitura è mirabilmente messa in evidenza dagli strumentisti e dal magnifico coro. Armiliato esegue il finale di Alfano originale, non quello ridotto da Toscanini e da lui utilizzato a partire dalla seconda rappresentazione. Il lungo finale chiarisce le varie fasi che il rapporto tra Turandot e Calaf deve ancora superare per raggiungere un’unione credibile e Claus Guth coglie l’occasione per unire psicologicamente i protagonisti: una volta che si sono professati il loro reciproco amore, il matrimonio viene immediatamente celebrato in modo burocraticamente ufficiale, con sedie poste a metri di distanza l’una dall’altra. Calaf è sconcertato, Turandot non ce la fa più, lo afferra e fugge con lui in un gioioso e inaspettato happy ending.
Il conservatore pubblico dello Staatsoper alla prima rappresentazione sembra abbia contestato la regia di Guth, ma questa si è rivelata una delle produzioni più interessanti degli ultimi anni, dove la profondità di lettura è pari all’eccellenza della realizzazione. D’altronde, è piaciuta anche a Enrico Stinchelli!
Lo spettacolo è stato trasmesso in diretta dalla Radio Televisione Austriaca.
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