Mese: febbraio 2025

Norma


foto © Monika Rittershaus

Vincenzo Bellini, Norma

★★★★☆

Vienna, Theater an der Wien, 23 febbraio 2025

(video streaming)

Una Norma diversa

Due produzioni di Norma quasi in contemporanea a Vienna: alla Staatsoper il 22 febbraio Mariotti dirige la produzione di Von Cyril Testes con Federica Lombardi, Juan Diego Flórez e Vasilisa Beržanskaia; all’An der Wien una settimana prima Francesco Lanzillotta ha diretto Asmik Grigorian, Freddie de Tommaso e Aigul Akhmetshina. Una produzione concepita da Vasilij Barkhatov nel 2020 posticipata a causa della pandemia, ma che già prevedeva la presenza della moglie Asmik Grigorian.

Con la scenografia di Zinovij Margolin e i costumi di Olga Shaishmelashvili la Norma del regista russo non è ambientata nelle Gallie del I secolo a.C., bensì in un imprecisato paese negli anni ‘40 del secolo passato. Il sipario già alzato mostra una fabbrica di ceramica dove vengono realizzate immagini di dee greche (cast a diva…). Operai ed operaie rientrano al lavoro, tra di loro ci sono Adalgisa e Norma. Si sentono voci provenire da fuori e nell’istante in cui attacca la sinfonia un’esplosione provoca la caduta di una statua che va a pezzi. Fanno irruzione dei soldati che si danno a d atti di devastazione e qualcuno tenta di violentare Norma, che però viene salvata da un ufficiale, che si rivelerà essere Pollione. Cala il sipario mentre continuano le note della sinfonia. Alla fine appare la scritta “10 anni dopo”: vediamo infatti la stessa fabbrica, ma ora produce i busti in ceramica di un dittatore militare il cui ritratto è appeso di fianco al quadro di comando del forno per cuocere i busti prodotti dagli operai. Soldati sorvegliano i lavoratori e reprimono atteggiamenti di ribellione, come si vede con Oroveso, il capo della resistenza. Il ruolo privilegiato di Norma, una specie di Kapò in questo sistema militarizzato, rivela che tra Norma e il militare c’è stato qualcosa – due figli, scopriremo assieme ad Adalgisa. Quando tutti i soldati di occupazione sono usciti, gli operai recuperano i frammenti della statua che hanno conservato e che ora in processione adorano mentre Norma eleva la sua preghiera alla «Casta Diva». 

Nel finale primo si cambia ambientazione: appare una parete con porte da cui si accede a una semplice stanza in cui vivono i due figli di Norma accuditi da Clotilde. Davanti a una tazza di tè Adalgisa confessa la sua relazione con l’inetto Pollione e a quel punto si scatena l’ira di Norma: dopo aver pensato di uccidere i figli quale novella Medea, incita gli operai alla distruzione delle immagini del dittatore. Pollione è portato in scena dagli operai legato per essere impiccato ma è salvato dalla donna che gli chiede per l’ultima volta ragione delle sue azioni, inutilmente. Norma decide di immolarsi entrando nel forno, ma Pollione si lancia e la salva, per la seconda volta.

Barkhatov si sbarazza dunque di druidi, Romani con la corazza e foreste sacre, ma mantiene il nucleo essenziale della vicenda con il suo scontro tra popoli e religioni. Le are e gli altari ampiamente citati nel libretto di Felice Romani, qui sono i simboli religiosi e di propaganda di due concezioni opposte. E c’è la storia di amore e tradimento, con una capacità del regista di esprimere efficacemente la psicologia dei personaggi in scene e controscene molto veriste.

Asmik Grigorian affronta la parte della sacerdotessa druidica in ricordo della madre Irena Milkevičiūtė, rinomata cantante che portò Norma per la prima volta in Lituania cantando la parte della protagonista mentre era incinta di Asmik – che in seguito sarà uno dei figli in scena. Quella di Norma è una parte completamente diversa da quelle che ha cantato finora, ma come succede sempre, la Grigorian con il suo timbro particolare e una recitazione superlativa riesce a ricreare in maniera personalissima il personaggio. Non propriamente belcantista, le agilità non sono del tutte fluide e un acuto non è bello, ma che importa quando in scena c’è un’artista di questo livello che ti inchioda alla poltrona. I fiati lunghissimi, i legati, l’omogeneità dell’estensione, l’intensità espressiva bastano e avanzano per scoprire una Norma diversa dal solito, ma quanto vera!

La parte di Adalgisa era stata scritta per Giulia Grisi, un soprano, ma il mezzo Aigul Akhmetshina, anche lei debuttante nella parte, ha tutte le carte per convincere: un bellissimo timbro, tecnica e sensibilità, da migliorare però la dizione e il fraseggio talora impacciato. Freddie de Tommaso affronta la parte di Pollione con generosi mezzi vocali e soprattutto all’inizio sfoggia qualche decibel di troppo. Poi il canto diventa un po’ più raffinato e l’antipatia del personaggio diventa un efficace elemento di caratterizzazione. Oroveso ha la voce potente e la presenza scenica di Tareq Nazmi e nei personaggi di Clotilde e Flavio si dimostrano convincenti Victoria Leshkevich e Gustavo Quaresma.

Sul podio dei bravi Wiener Symphoniker, Francesco Lanzillotta riesce a bilanciare dramma e sottigliezze strumentali con tempi, e tagli…, che mettono i cantanti a proprio agio. Profondo conoscitore della partitura, il direttore marchigiano ne fornisce una lettura lucida e partecipe. Come sempre ammirevoli i coristi dell’Arnold Schoenberg che pur nella precisione e nel perfetto amalgama di voci riescono a creare ciascuno un personaggio distintivo.

NOVÉ SLOVENSKÉ NÁRODNÉ DIVADLO

Nové Slovenské Národné Divadlo

Bratislava (2007)

1700 posti

Oltre allo storico Teatro Nazionle, Bratislava ha costruito, anche se faticosamente, un nuovo grande teatro.

Il progetto degli architetti Martin Kusý, Pavol Paňák e Peter Bauer è degli anni ’80, ma per la difficoltà di raccogliere i fondi necessari la costruzione è durata 21 anni, facendo così levitare a dismisura i costi previsti. ed è stato inaugurato il 14 aprile 2007.

Il nuovo edificio si estende su sette piani. Ospita oltre duemila stanze,  tre sale principali (il palcoscenico dell’Opera edel Balletto, il palcoscenico teatrale e lo studio) e un ristorante da 1.200 posti a sedere, una discoteca, un bar, un caffè e una libreria.

L’atmosfera nobile dell’edificio è ulteriormente valorizzata da una serie di opere d’arte all’aperto e all’interno. La fontana di Alexander Biľkovič, Iľja Skoček e Pavol Bauer si trova nel cortile d’onore. L’atrio d’ingresso vanta la Primavera dell’architetto Pavol Bauer e del pittore Dušan Buřil. La facciata è ulteriormente arricchita dalla cascata di Peter Roller e dalle due torri dell’architetto Pavol Bauer.

Die Walküre

foto © Brescia Amisano

Richard Wagner, Die Walküre (La Valchiria)

Milano, Teatro alla Scala, 12 febbraio 2025 (diretta streaming)

Milano, Teatro alla Scala, 23 febbraio 2025

★★★

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McVicar riacquista il suo magico tocco nella prima giornata del Ring 

Nei due decenni trascorsi dall’ingresso degli dèi nel Walhalla, Wotan non se n’è stato certo tranquillo fra le quattro mura della «selige Burg» (rocca sublime): con Erda ha generato nove vergini guerriere, le valchirie, mentre sulla Terra, come cacciatore ricoperto di pelli di lupo, da cui il nome Wolfe o Wälse, ha generato con una donna mortale la schiatta dei velsunghi, tra cui la coppia di gemelli Siegmund e Sieglinde, tramite i quali dovrebbe realizzarsi l’idea concepita da Wotan alla fine del Rheingold prima di salire sul ponte di arcobaleno: «wie von einen großen Gedenken» (come preso da un grande pensiero) dice la didascalia e in orchestra si sente per la prima volta il tema della spada, associato all’eroe che, ignaro dei patti violati, potrà riconquistare l’anello che dà il potere del mondo. E quell’eroe nascerà dalla relazione incestuosa dei due fratelli. In Die Walküre Wotan comprende come la sua grande idea possa fallire: egli stesso, minacciato da Fricka, spezza la spada di Siegmund che soccombe alla furia brutale di Hunding mentre Siegliende, che in grembo ha il frutto della relazione col fratello, deve fuggire sola tra i pericoli della foresta. 

Con l’irruzione dell’umano dopo il Mito del Prologo, Die Walküre è la più rappresentata della Tetralogia. Anche qui alla Scala: dal 1893 ad oggi la prima giornata del Ring ha avuto oltre venti produzioni diverse con direttori del calibro di Toscanini, de Sabata, Kraus, Furtwängler, Karajan, Cluytens, Prêtre, Sawallisch, Muti, Barenboim… L’attuale produzione milanese fa parte di una Tetralogia programmata per questa e la prossima stagione, affidata per la messa in scena a Sir David McVicar mentre, dopo la defezione di Christian Thielemann, due diversi direttori si alternano alla guida dell’orchestra: Simone Young per le prime tre recite e Alexander Soddy per le ultime tre. Spoiler alert, anche questa volta è il secondo che porta a casa la palma di miglior esecutore, ma entrambi si sono dimostrati di livello eccelso. Come è stato per Das Rheingold queste note si riferiscono a una doppia visione: dello streaming messo in rete da LaScalaTv (con la direzione della Young), e poi da quella dal vivo in teatro (con la direzione di Soddy). 

La tempesta con cui inizia l’opera è il simbolo del dramma che accompagna i mortali: Siegmund nella sua fuga nella notte, Sieglinde nel suo infelice matrimonio forzato. Ma prefigura anche il drammatico conflitto di Wotan con la figlia prediletta. All’inizio del primo atto le figurazioni inquiete dell’orchestra sono il banco di prova con cui ogni direttore della Walchiria si presenta, e qui con l’orchestra del teatro, sotto la guida trascinante di Alexander Soddy, queste figurazioni hanno un tono angosciosamente ansimante. Si tramuteranno poi nell’intimità del gioco di sguardi dei due giovani e infine nella loro travolgente passione. Da qui in poi è un susseguirsi di momenti di grande tensione ed altri di grande liricità, emozioni e colori ricreati da un’orchestra in grande spolvero dove un solo momento di non perfetta intonazione degli ottoni non inficia la superba esecuzione. Soddy sa guidare l’orchestra con autorevolezza e grande senso drammatico, raccogliendo alla fine, come successo personale, l’applauso entusiasta del foltissimo pubblico presente in sala.

Di eccellenza è anche il cast vocale affollato di voci femminili tra cui svetta quella della protagonista, una Camilla Nylund perfettamente a suo agio nella parte che ha portato spesso sulla scena. Il timbro luminoso e gli acuti squillanti delineano una valchiria esuberante e poi figlia che orgogliosamente rivendica le sue scelte. Il suo duetto finale col padre è un momento di grandissima tensione emotiva grazie anche al coinvolgente Wotan di Michael Volle che qui si dimostra in condizioni vocali migliori rispetto a quelle evidenziate nel Rheingold. L’autorevolezza del personaggio deve fare i conti con la frustrazione e la performance del baritono tedesco è memorabile per l’intensità dell’espressione, dove ogni frase ha uno scavo particolare e ogni parola sembra scolpita nella roccia. Mirabile il passaggio dalla furia terrificante al ripiegamento nell’amore filiale espresso con grande sensibilità. 

Elza van den Heever e Klaus Florian Vogt formano la coppia dei fratelli. La Sieglinde del soprano sudafricano, debuttante nella parte, ha un timbro particolare che connota felicemente la giovinezza della sposa che presto si trova nel ruolo di madre che deve salvare il prezioso figlio che porta in grembo. La voce ha una bella proiezione, ricca di chiaroscuri e una convincente presenza scenica. Il timbro chiaro di Vogt dà a Siegmund un tono più elegiaco che eroico, ma la luminosità del canto ben si adatta al giovane che scopre per la prima volta l’amore. Reso con sincera emozione è il momento di «Winterstürme» mentre un carattere maschile più deciso si rivela nel colloquio con la valchiria che gli annuncia la prossima morte. Okka von der Damerau ritorna Come Fricka, ma questa volta il personaggio è molto più deciso e il mezzosoprano amburghese oltre alle riconosciute doti vocali ha la possibilità di dimostrare il suo temperamento di interprete. 

Lo spettacolo inizia in ritardo perché Günther Groissböck, l’interprete di Hunding, ha avuto un incedente d’auto arrivando in teatro. Fortunatamente incolume, ha potuto indossare senza alcun problema i panni del vilain della situazione, dimostrando la sua grande professionalità e maestria vocale ampiamente ammirata in tutti i ruoli che ha affrontato nel passato. Il suo Hunding ha la giusta dose di brutalità senza eccedere nell’espressività e una magnetica presenza scenica. Precise nel loro intreccio di richiami durante la celeberrima cavalcata si sono espresse con timbri e personalità diverse le otto valchirie: Caroline Wenborne, Kathleen O’Mara, Olga Bezsmertna, Eglè Wyss, Eva Vogel, Virginie Verrez, Stephanie Houtzeel e Freya Apffelstaedt.

Sulla messa in scena di McVicar grande era l’attesa dopo la delusione della sua lettura fantasy del Prologo, ma questa volta, pur non rinunciando al taglio stilistico prescelto, il regista scozzese appronta una spettacolo senza le cadute kitsch o gli eccessi di simbolismo del Rheingold. La dimensione umana della Valchiria ispira al regista un approccio che, pur nella sua teatralità, si rivela del tutto convincente con il gioco di luci radenti di David Finn e i bellissimi costumi di Emma Kingsbury. Autore assieme a Hannah Postlethwaite delle scene, McVicar ambienta la vicenda senza età con pochi elementi. Nel primo atto il mondo barbaro di Hunding è rappresentato da possenti mura con pali conficcati nell’argilla di cui sono fatte mentre una grande inferriata scende all’alto. Il frassino al centro sta cedendo, così che altri due tronchi lo sostengono. Rozze pelli formano gli abiti di Hunding e dei suoi compagni di caccia. Nel secondo atto il paesaggio è delimitato da un cerchio di menhir, mentre nel terzo la scultura colossale di un grande volto adagiato forma la rupe che poi si apre quale ricettacolo per il sonno di Brunilde. Sobrie ma efficaci si dimostrano le proiezioni video di Katy Tucker. Ma è nel gioco interpretativo impresso ai personaggi che si ammira la regia di McVicar. Pochi esempi bastano: la brutalità di Hunding rappresentata efficacemente dai rozzi gesti con cui tratta la moglie nel primo atto; nel secondo l’abbraccio di Fricka respinto dal marito mentre la figlia distoglie lo sguardo per l’imbarazzo; nel terzo la prossemica tra Wotan e la valchiria, dettata dalla lotta dei sentimenti che agitano i due personaggi.

McVicar segue con grande fedeltà la storia e non rinuncia alla sfida posta dal libretto per quanto riguarda ad esempio la presenza di animali: i corvi di Wotan, gli arieti del carro di Fricka, i cavalli delle valchirie. Scartata quella realistica, la soluzione più facile sarebbe quella di sbarazzarsene completamente o di interpretarli simbolicamente. McVicar invece accetta la difficile sfida di mantenerne la presenza utilizzando mezzi puramente teatrali: ecco quindi Huginn e Muninn, i corvi di Odino/Wotan, rappresentati da due mimi con ali nere che prendono il volo al comando del dio; altri due mimi con testa di ariete portano in scena la moglie come schiavi incatenati; e infine i cavalli, qui giovani imbracati in una struttura che in alto termina con una testa equina e in basso ha trampoli elastici simili a quelli utilizzati per la corsa dagli atleti paraplegici, che permettono ai figuranti di saltellare in scena con efficace realismo. L’utilizzo poi di uomini permette di conferire a Grane, il cavallo di Brunilde, un ruolo di personaggio a sé: eccolo quindi spossato dopo la folle corsa, oppure placidamente seduto su una roccia per condividere il sonno della sua padrona. Un’immagine che intensifica l’emozione del finale dell’opera, emozione che si scioglie nei frenetici applausi del pubblico e nelle innumerevoli chiamate per i fautori del memorabile spettacolo.

Stagione Sinfonica RAI

Richard Strauss, Burleske in re minore per pianoforte e orchestra
Allegro vivace

Richard Strauss, Symphonia domestica, op. 53
I. Introduzione e sviluppo dei tre gruppi di temi principali:
Temi del marito, (a) gemächlich (comodo), (b) träumerisch (sognante), (c) feurig (focoso); Temi della moglie, (a) lebhaft und heiter (vivace e giocondo), (b) grazioso; Tema del figlio, ruhig (tranquillo)
II. Scherzo. Felicità dei genitori, giochi infantili, ninnananna (la pendola suona le sette di sera)
III. Adagio. Lavori e propositi, scena d’amore, sogni e preoccupazioni (la pendola suona le sette del mattino)
IV. Finale. Risveglio e allegra baruffa (doppia fuga), riconciliazione e conclusione gioiosa

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Marc Albrecht direttore, Marie-Ange Nguci pianoforte

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 20 febbraio 2025

Serata Strauss

Tutto Richard Strauss per il 13° concerto della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI. In programma due pezzi di grande impatto, il primo ancora nel XIX secolo, il secondo composto nei primi anni del nuovo secolo.

Nel 1886 Richard Strauss ha ventidue anni ed è secondo direttore, dopo Hans von Bülow, a Meinigen, alla cui corte ducale si esibisce anche come pianista. È pensando a Von Bülow che il giovane Richard scrive uno Scherzo per pianoforte e orchestra che però il vecchio maestro giudica pianisticamente ineseguibile. E così è un altro virtuoso, Eugène d’Albert, famosissimo all’epoca, ad accettare la sfida presentarlo al pubblico nel giugno 1890 col titolo Burleske. Strauss allora si era fatto un solido nome e quella sera fu ascoltato anche Tod und Verklärung (Morte e trasfigurazione), il breve ma intenso poema sinfonico sugli ultimi istanti di vita di un artista. Completamente diverso è il tono della Burleske: sono una ventina di minuti in cui il solista e l’orchestra dialogano in un brillante tempo di sonata. Vi si riconosce infatti la tipica struttura – esposizione con due gruppi tematici, sviluppo, ripresa, cadenza del solista, coda – anche se non è tutto chiarissimo con quei due temi così strettamente imparentati. Quello che è evidente è la scrittura virtuosistica del pianoforte, qui affidato alle agili dita di Marie-Ange Nguci, per la terza volta in poco tempo ospite della OSN e beniamina del pubblico per la sua presenza comunicativa. Con tecnica sicurissima e spiccato temperamento, la giovane artista franco-albanese tiene testa alla massa orchestrale in questo peculiare lavoro. In orchestra però c’è uno strumento che si impone con evidenza: è il primo a intervenire accennando alla cellula tematica da cui deriveranno i temi veri e propri e va a lui l’ultima parola nel finale in pianissimo: sono i timpani, che danno modo a Gabriele Bartezzati di emergere con evidenza trasformando il brano quasi in un concerto per timpani e pianoforte. Per quanto riguarda la pianista è forse nel fuori programma che si apprezzano ancora di più le sue mature doti di interpretazione, stupefacenti per la sua giovane età. In Une barque sur l’océan terzo pezzo dei Miroirs, si evidenzia la sua capacità di restituire le delicate sfumature emotive della impegnativa pagina di Ravel con quei grandi arpeggi della mano sinistra per evocare misteriosi scenari marini.

Con la Symphonia domestica ritorna in primo piano il direttore ospite. Marc Albrecht è particolarmente apprezzato nel repertorio del tardo Romanticismo e del Novecento, in particolare per le sue interpretazioni delle opere di Richard Strauss. Scritta tra i due poemi sinfonici Ein Heldenleben (Vita d’eroe) e Eine Alpensinfonie (Sinfonia delle Alpi), la Symphonia domesticaè un potente esempio di musica a programma, qui più minuzioso che mai, e di carattere autobiografico. Nel suo intento un po’ egocentrico il compositore vuole descrivere musicalmente una giornata della sua famiglia, un idillio borghese tra le quattro pareti di casa. Aspramente criticata a suo tempo dai fautori della musica assoluta o pura, ora viene apprezzata non tanto per la descrizione del quadretto famigliare, quanto per la ricchezza musicale ottenuta con un’orchestra mastodontica di oltre cento elementi da cui Albrecht riesce a ottenere suoni ricchi e chiaramente stratificati. 

Concepita in un solo movimento articolato nelle quattro sezioni tipiche della sinfonia – primo tempo introduttivo, scherzo, adagio e finale fugato – è un esempio di virtuosismo compositivo e di dominio della massa orchestrale magistralmente realizzato dal direttore tedesco calorosamente festeggiato dal folto pubblico.

Rigoletto

foto © Michele Monasta – Maggio Musicale Fiorentino
(non ci sono fotografie col protagonista della serata del 18 febbraio)

Giuseppe Verdi, Rigoletto

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 18 febbraio 2025

★★★★☆

Al Maggio Fiorentino riproposto il Rigoletto di Livermore

Il Rigoletto è titolo che non manca di certo nelle stagioni liriche fiorentine. Subito frequentatissimo – negli anni 1852-62 si ebbero rappresentazioni alla Pergola, al Leopoldo, al Teatro Nuovo, a quello di Borgognissanti, al Pagliano e all’Alfieri – rimase poi stabilmente in repertorio e dal 1934 sui palcoscenici del Comunale e del Verdi si succedettero venti diverse produzioni. L’attuale nuovo edificio nel 2015 ha ospitato la messa in scena di Henning Brockhaus, mentre nel 2018 e 2019 il Rigoletto di Francesco Micheli ha fatto parte del Progetto Trilogia Popolare. In piena pandemia e con i teatri chiusi al pubblico, il 23 febbraio 2021 fu trasmessa in streaming la produzione di Davide Livermore diretta da Riccardo Frizza (con Javier Camarena, Luca Salsi ed Enkeleda Kamani) che nell’ottobre dello stesso anno potè arrivare normalmente in sala in tre rappresentazioni con Piero Pretti, Amartuvshin Enkhbat e Mariangela Sicilia.

Quella produzione è ora riproposta con lo stesso Sparafucile di allora ma con tutti gli altri interpreti nuovi. Nella recita del 18 febbraio Rigoletto ha la voce di Leon Kim, baritono sudcoreano specializzato al Conservatorio Cherubini di Firenze e frequentemente presente nel repertorio verdiano (Germont, fra Melitone, Conte di Luna, Foscari, Macbeth, Amonasro, Miller, Renato, Paolo Albiani…). Voce chiara ma di grande proiezione, fraseggio variegato, accorto uso dei livelli sonori, delinea con sensibilità il personaggio e il suo «Cortigiani, vil razza dannata» va al segno anche senza eccessi espressivi. Straziante ma equilibrato è il tragico finale con lo scoprimento del cadavere della figlia. Non presenta difformità fisiche, ma è ben chiaro il suo ruolo subordinato rispetto al nobile padrone.

Il Duca di Celso Albelo è giustamente superficiale e arrogante, e supplisce con la presenza vocale a una presenza scenica non particolarmente affascinante. Il belcantista di Tenerife ha un inizio non esaltante, poi nel corso della recita migliora sempre più per quanto riguarda colori e agilità, ma il tono è quello di un interprete del passato, con gli stessi vezzi, come la n in «qual piuma al ve-n-to, muta d’acce-n-to…». Con il suo prezioso strumento vocale Albelo evidenzia la unicità del personaggio puntando alla singolarità dei suoi interventi, quasi tutti solistici in un’opera dominata invece da numeri a dialogo. «Ho ideato il Rigoletto senz’arie, senza finali, con una sfilza interminabile di duetti, perché così ero convinto», scrive Verdi, che plasma le forme dei numeri chiusi in una visione di moderna esaltazione della drammaturgia. Come avviene ad esempio nella prima scena del secondo atto, dove la tradizionale successione di recitativo-aria-cabaletta diventa una complessa scena teatrale: l’esclamazione del Duca «agitatissimo», «Ella mi fu rapita!», è seguita dal lirico «Parmi veder le lagrime» e dopo l’intervento del coro attacca la trascinante cabaletta «Possente amor mi chiama» («alzandosi con gioia», dice il libretto) con i pertichini del coro «Oh, qual pensier or l’agita». Di esempi simili ce ne sono altri in questo lavoro che allora si dimostrò in anticipo sui tempi e che nelle intenzioni del compositore doveva essere un primo passo verso la liberazione dagli schemi rigidi delle convenzioni musicali del tempo.

Il timbro di Ol’ga Peretjat’ko non è mai stato il punto forte della sua voce: un freddo metallo penetrante, compensato però da ottima intonazione, precise agilità ed efficace utilizzo dei piani sonori, con mezze voci e filati, tutti quanti impiegati nel definire il complesso personaggio di Gilda, innocente vittima dei sentimenti in una società brutale. Aiutata da una direzione di ampio respiro, il suo «Caro nome», distillato con preziosi pianissimi e belle variazioni, entusiasma il pubblico fiorentino.

 

L’interprete di Sparafucile, si diceva, è l’unico in comune con le passate edizioni: Alessio Cacciamani non sfoggia una voce cavernosa, ma delinea con efficacia e una certa eleganza la figura del sicario. Molto scuro è invece il timbro della Maddalena di Eleonora Filipponi, tanto che quasi non se ne sente la voce nel quartetto del terzo atto. Adeguati si rivelano gli altri comprimari con in evidenza il Monterone nobile e autorevole di Manuel Fuentes. Come si è già detto, la direzione di Stefano Ranzani ha tempo molto ampi a favore dei cantanti, ma è comunque funzionale allo svolgersi implacabile del dramma. Gli strumentisti dell’Orchestra del Maggio rispondono con precisione e giusti colori, così come il coro maschile, compatto ma duttile, istruito da Lorenzo Fratini.

A suo tempo la regia di Davide Livermore aveva diviso la critica: chi aveva apprezzato la cupa atmosfera e la serrata interazione tra i personaggi, chi aveva sollevato dubbi su una drammaturgia che non rispetta le indicazioni del libretto. Le scene di Giò Forma, i fantastici costumi di Gianluca Falaschi e le crude luci di Antonio Castro creano ambienti diversi e atemporali che più che la fedeltà alla lettera del libretto, interpretano lo spirito di un dramma sotto il peso della “maledizione”, con l’ineluttabile sconfitta del debole rispetto al più forte.

Il primo suono che ascoltiamo al levarsi del sipario è il rumore di una stazione della metropolitana: è qui infatti che è ambientato il breve preludio, con il cadavere di Gilda per terra e tre personaggi che prima indifferenti poi guardano con tono di condanna il quarto, il padre, sopraffatto dal senso di colpa. La «sala magnifica nel palazzo ducale» del I atto è dominata da un letto dorato per le «orgie» del depravato duca e da un grande affresco con figure e scene barocche ottenute con le proiezioni della D-Wok. Lo stesso sfondo rappresenterà poi il marciapiede visto dalla lavanderia seminterrata che è la casa e il posto di lavoro di Gilda e Rigoletto (atto II), poi un finestrone, attraverso il quale si vede il temporale, nel night club di Sparafucile e Maddalena (atto III), per poi terminare appunto nella squallida stazione della metropolitana vista all’inizio. Nella regia non mancano i rimandi cinematografici cari a Livermore, (qui il Kubrick di Eyes Wide Shut, ad esempio) con il solito horror vacui visivo e abuso di armi. Ma il taglio drammatico rimane efficace, anche se nella ripresa di Gian Maria Sposito si perde un po’ il lavoro sugli interpreti e salta fuori qualche imprecisione, come i fari luminosi sul pubblico durante gli interventi di Monterone.

Lucrezia Borgia

foto © Fabrizio Sansoni

Gaetano Donizetti, Lucrezia Borgia

Roma, Teatro dell’Opera, 16 febbraio 2025

★★★

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La principessa Negroni e il suo cocktail fatale

Solo una regista come Valentina Carrasco poteva far diventare Lucrezia Borgia quasi una proto-femminista! Nella sua lettura dell’opera di Donizetti, infatti, la figlia illegittima di Rodrigo Borgia, futuro papa Alessandro VI, e sorella di Cesare Borgia, è vista come un’eroina noir, non una donna vittima, ma una donna carnefice. «Una donna sola al potere in un mondo di uomini, una donna artefice del proprio destino» e che per una volta non muore per amore, cosa rara nel mondo dell’opera.

Tratta dalla pièce di Victor Hugo Lucrèce Borgia presentata a Parigi il 2 febbraio 1833, il 26 dicembre di quello stesso anno Felice Romani e Donizetti con Lucrezia Borgia introducono in Italia un nuovo genere: il dramma romantico, dove dramma e commedia si mescolano, si ha un «frammischiamento», come scrive Donizetti, di buffo e serio. Lo stesso ibrido di grottesco e tragico che prelude al Verdi di Rigoletto, anch’esso di Hugo (Le Roi s’amuse) e con un altro mostro, qui nella paternità, là nella maternità: «Vittor [sic] Hugo, dal quale è imitato questo melodramma, in una tragedia assai nota aveva rappresentato la difformità fisica santificata dalla paternità: nella Lucrezia Borgia volle significare la difformità morale purificata dalla maternità: il quale scopo, se ben si rifletta, rattempera la nerezza del soggetto, e non fa ributtante il [sic] protagonista», scrive il Romani.

L’elemento della maschera, fugacemente presente nel testo di Hugo, diventa predominante nella messa in scena dello spettacolo ora al Costanzi. Qui le maschere bifronti fanno riferimento a un mondo doppio, dove tutti hanno qualcosa da nascondere. Un enorme viso mascherato incombe poi per buona parte dello spettacolo. Un altro tema sviluppato nella lettura della regista argentina è la maternità: durante la sinfonia vediamo proiettato sullo sfondo l’ecografia di un feto nel ventre materno mentre Lucrezia si agita nel sonno e le viene rapito il figlioletto che ritorna – ahimè non era necessario – nel finale, quando una radiografia mostra il bacino della donna vuoto. O forse è semplicemente uno scheletro che annuncia la morte di Gennaro, il figlio da lei stessa avvelenato una seconda volta?

Come si vede, non mancano i temi forti in questa vicenda altamente romanzata del Rinascimento italiano che la Carrasco immerge in un ambiente quasi onirico, delimitato solo da tendaggi (le scenografie sono di Carles Berga) e dove la luce naturale è bandita (il gioco luci è di Marco Filibeck): è sempre notte sia nel prologo veneziano che nei due atti a Ferrara. I costumi moderni di Silvia Aymonino non distinguono i diversi personaggi e impongono gorgiere e gonne di tulle per gli uomini nel prologo. Né gli ambienti né la conduzione registica offrono una particolare tensione narrativa verso il tragico finale, tensione che manca anche nella direzione di Roberto Abbado, la quale risulta certamente corretta ma non esaltante. Eppure Donizetti la sua parte la fa: all’atmosfera notturna annunciata nelle prime note della sinfonia, con quel minaccioso rullo di timpani, il compositore alterna episodi falsamente festosi come il brindisi di Orsini «Il segreto per esser felici», cui risponde il lugubre coro fuori scena «La gioia de’ profani è un fumo passegger». Tutto è ben eseguito, ma senza quel guizzo che ci si aspetterebbe da questo peculiare prodotto del bergamasco dal tono cupo e sulfureo.

Abbado ritorna per la seconda volta alla Lucrezia Borgia: la prima volta fu al Festival di Bergamo del 1988 e ora utilizza la versione critica eseguita senza tagli, anzi propone insieme tutte le diverse versioni che Donizetti ha approntato in un lungo arco di tempo. Ecco quindi i due distinti finali qui uniti: quello con l’aria di Gennaro morente «Madre se ognor lontano» e l’altro con la cabaletta piena di agilità di Lucrezia «Era desso il figlio mio». Forse è proprio questo scrupolo di utilizzare tutto il possibile a togliere mordente e forza drammatica alla esecuzione.

45 anni dopo Joan Sutherland, Lucrezia Borgia ritorna a Roma con la voce e la figura di Lidia Fridman, che si alterna con Angela Meade. Cosa che accade anche per gli altri interpreti principali: Enea Scala si alterna con Michele Angelini nella parte di Gennaro; come Maffio Orsini abbiamo Daniela Mack e Teresa Jervolino e Alfonso d’Este è interpretato da Alex Esposito e da Carlo Lepore.

Ancora una volta è Alex Esposito a catturare l’attenzione degli spettatori con una performance come sempre maiuscola, dove il suo Alfonso d’Este vive di una foga attoriale e vocale tali da rendergli impreciso un attacco, presto aggiustato. Di Lidia Fridman si sono sempre apprezzati il temperamento e la figura scenica, un po’ meno i salti di registro e un timbro non felicissimo, che qui magari sono di aiuto alla personalità contorta di Lucrezia Borgia, ma che non sempre esprimono l’essenza del belcanto donizettiano. Nel complesso comunque la sua performance è stata apprezzata dal pubblico che dopo l’aria di bravura finale, ricca di agilità e variazioni, è esploso in grandi applausi.

I generosi mezzi vocali di Enea Scala hanno fatto di Gennaro un personaggio sofferto e genuinamente drammatico, soprattutto in questa versione completa in cui rispetto a quella originale del 1833 ci sono le due arie aggiunte per la ripresa di Londra del ’38 e di quella di Parigi del ’40. Come L’Oscar di Un ballo in maschera, anche il Maffio Orsini di Lucrezia Borgia è affidato a una voce femminile, quella di Daniela Mack, efficace e scenicamente spigliata anche se non sempre a suo agio nel registro contraltile della parte. Adeguatamente realizzati sono i personaggi minori di Jeppo Liverotto (Raffaele Feo); Don Apostolo Gazella (Arturo Espinosa); Ascanio Petrucci (Alessio Verna); Oloferno Vitellozzo (Eduardo Niave, diplomato “Fabbrica”, Young Artist Program del Teatro dell’Opera); il perfido Gubetta (Roberto Accurso); Rustighello (Enrico Casari), Astolfo (Rocco Cavalluzzi) e l’usciere (Giuseppe Ruggiero). Non meno importanti sono gli interventi del coro istruito da Ciro Visco.

Il turco in Italia

Gioachino Rossini, Il turco in Italia

Rimini, Teatro Amintore Galli, 15 novembre 2024

★★★★☆

(video streaming)

Giallo gelosia

Prima di Amazon c’era Postal Market che esaudiva i bisogni consumistici dell’Italia del boom: bastava scegliere da un poderoso catalogo e per posta arrivavano a casa i prodotti tanto ambiti.

È appunto nell’epoca del Carosello che il regista Roberto Catalano ambienta la vicenda di Fiorilla e Geronio, coppia in crisi per la routine del rapporto matrimoniale. Routine interrotta solo dall’arrivo di caffettiere ed elettrodomestici, per riempire il vuoto esistenziale della moglie, e dei dolci che soddisfano invece il marito, qui più goloso che geloso. Uno scossone a questa relazione coniugale è dato dall’arrivo di Selim, fascinoso turco sfuggito dal suo harem per trovare un frisson erotico qui in Italia, dove «l’aria, il suolo, i fiori e l’onde, | tutto ride e parla al cor».

Nella coproduzione de Il turco in Italia dei teatri di Rovigo, Ravenna, Jesi, Pisa, Rimini e Novara, ora all’Amintore Galli, le scene di Guido Buganza e i costumi, azzeccatissimi, di Ilaria Ariemme hanno come nota cromatica predominante il giallo acido negli abiti dei coniugi, negli arredi e nelle suppellettili immersi in un involucro blu che, come nel blue screen cinematografico dell’effetto chroma-key, quasi sparisce evidenziando solo gli oggetti gialli. In blu sono Zaida e gli zingari, fattorini in tuta da metalmeccanico. In nero sono invece Prosdocimo, il trascrittore degli avvenimenti, e il Turco. Quattro gemelle Kessler in piume e lustrini danno al tutto il tono da varietà televisivo di prima serata dell’epoca.

I sentimenti sono inconsistenti, vuole dirci Catalano: anche l’“amore vero” ha la volatilità di un profumo e lo scambio di merci del frenetico via vai di fattorini è ispirato dallo scambio di mogli suggerito dal libretto. La chiave di lettura del regista, col suo tocco vivace e leggero, si adatta bene alla vicenda che sembra voler ribaltare quella dell’opera precedente di Rossini, L’italiana in Algeri.

Nelle due recite riminesi si alternano due Fiorille: Giuliana Gianfaldoni ed Elena Galitskaya. Il 15 novembre è la volta del soprano russo, che ora vive tra Francia e Italia, di dar prova di vivacità ben centrando la fatuità del personaggio. Qualche acuto è un po’ stridulo, ma il fraseggio è variegato, perfetta la dizione ed efficace la presenza scenica. Il marito Geronio trova in Fabio Capitanucci un interprete di solida vocalità esibita anche nell’aria spesso sacrificata del secondo atto «Se ho da dirla, avrei molto piacere» in cui il baritono mostra l’aspetto meno remissivo del personaggio. Elegante, senza alcuna punta di caricatura, il Selim di Nahuel Di Pierro, forse fin troppo trattenuto ma di gran bella voce. Non convince vocalmente invece Bruno Taddia che punta principalmente sulle sue doti attoriali, trasformando il poeta Prosdocimo in una figura espressionista, quasi il Pegleg di The Black Rider. Efficace il Don Narciso di Francesco Brito, ma certo non per le doti vocali, mentre apprezzabili sono la Zaida di Francesca Cucuzza e l’Albazar di Antonio Garés, privato comunque dell’aria di sorbetto apocrifa del secondo atto. Non sempre preciso il Coro Lirico Veneto istruito da Alberto Pelosin mentre Hossein Pishkar a capo di un’orchestra, la Luigi Cherubini, volenterosa più che virtuosa, riesce comunque a tenere saldamente le redini e a rendere felicemente la partitura.

Stabat Mater

Tiziano Scarpa, Stabat Mater

172 pagine, Einaudi, 2008

Nella Venezia settecentesca c’erano istituzioni che si facevano carico delle bambine abbandonate alla nascita. Queste venivano accolte e si dava loro un’istruzione, per lo più musicale, per esibirle in chiesa dietro una grata che ne celava la vista al pubblico: «Noi siamo una parvenza che secerne musica. Siamo fantasmi che soffiano una sostanza impalpabile. Noi risultiamo belle perché siamo misteriose e spargiamo bellezza nell’aria, la menzogna della musica maschera la nostra afflizione». Da queste istituzioni si poteva uscire da vive solo se riconosciute dalla madre naturale, che dopo tanti anni si riprendeva la figlia, oppure per andare sposa a un vecchio o a un secondogenito che si era innamorato della voce ascoltata in chiesa.

Una di queste istituzioni era l’Ospitale della Pietà, dove incontriamo Cecilia, nome dato dalle suore a una neonata di poche ore abbandonata sulla porta. Figlia di una prostituta, o di una vedova il cui marito era morto in guerra, o di una madre con già troppi figli, Cecilia era dunque stata salvata dal destino di essere gettata appena nata in un canale. Ma la ragazza, ora sedicenne, sogna talora di cantare sott’acqua, dentro le nere acque di un rio veneziano: «Noi siamo pesci abissali, cantiamo il nostro non essere mai venuti al mondo. La musica si propaga nell’acqua nera. Gli uomini e le donne della città camminano sulle rive, scorrono sulle loro barche. Noi siamo le sirene che cantano dal fondo dell’acqua torbida, nessuno ascolta il nostro canto nero». Cecilia spera sempre di ritrovare la madre a cui scrive lettere, ora dure ora accorate, su fogli di musica scartati. Le sue parole si mescolano alle note dei Miserere o degli Alleluja, scritte di nascosto nella notte, quando è insonne e allora vaga per il silenzioso edificio.

Allorché il vecchio don Giulio viene sollevato dall’incarico, a istruire le fanciulle arriva il giovane don Antonio. Antonio Vivaldi. E la musica che le ragazze suonano diventa diversa: «In un’ora io sono stata musicalmente grandine, musicalmente afa, musicalmente gelo, musicalmente tepore, musicalmente piedi intirizziti, musicalmente pioggia leggera, musicalmente suolo ghiacciato che fa male cadendoci sopra, musicalmente prato tenero, sono musicalmente stata dentro il sonno di un guardiano di capre, dentro un cane che abbaia, dentro gli occhi di una mosca, sono musicalmente stata nuvola nera, passo ubriaco, bestia terrorizzata e pallottola che lo uccide». Il prete dai capelli rossi fa scoprire alle allieve come tramite i suoni sia possibile produrre stati d’animo a loro sconosciuti.

Singolare romanzo questo di Tiziano Scarpa, Premio Strega nel 2009. Testo di grande intensità, dalla scrittura tesa e raccontato in un crescendo implacabile. La Venezia che emerge dalle sue pagine non è la città scintillante di stucchi dorati e rutilante di colori: è una città scura, minacciosa, solcata da rii scuri dalle acque fetide. E angusta, a misura dei passi di una bambina che, confinata tra le quattro mura di un vecchio palazzo, scoprirà nella musica la forza per un atto di ribellione: Cecilia riesce a fuggire dall’Ospitale travestita da uomo e prende la via del mare sulle labili tracce della madre. Il coraggio glielo ha dato proprio quella musica.

Lingotto Musica

foto © Mattia Gaido

Maurice Ravel, Le tombeau de Couperin
I. Prélude (Vif)
II. Forlane (Allegretto)
III. Menuet (Allegro moderato)
IV. Rigaudon (Assez vif)

Maurice Ravel, Concerto in Sol maggiore per pianoforte e orchestra
I. Allegramente 
II. Adagio assai
III. Presto

Modest Musorgskij, Quadri di un’esposizione (orchestrazione di Ravel)
Promenade; 1. Gnomus; Promenade; 2. Il vecchio Castello; Promenade; 3. Tuileries; 4. Bydło; Promenade; 5. Ballet des poussins dans leurs coques; 6. Samuel Goldenberg und Schmuÿle; 7. Limoges. Le marché; 8. Catacombæ (Sepulchrum Romanum); 9. La cabane sur des pattes de poule (Baba-Yaga); 10. La grande porta di Kiev

Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo, Charles Dutoit direttore, Martha Argerich pianoforte

Torino, Auditorium Agnelli, 11 febbraio 2025

150 anni fa nasceva Ravel: lo celebrano Martha Argerich e Charles Dutoit

Nonostante sia la prima serata del Festival di Sanremo, l’Auditorium Agnelli del Lingotto è stracolmo per il ritorno, sempre attesissimo, di Martha Argerich accompagnata qui dall’ex-marito Charles Dutoit alla testa dell’Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo. 

Il programma è interamente dominato da Maurice Ravel, come compositore e come orchestratore, nel 150° dalla nascita. La serata inizia infatti con Le tombeau de Couperin, la versione orchestrale della suite per pianoforte che il musicista trentanovenne scrisse negli anni 1914-1917, una sequenza dove ogni movimento è dedicato a un amico compositore caduto in combattimento

(il seguito su Le Salon Musical)

Lingotto Musica


foto © Mattia Gaido

Edvard Grieg, Sonata in mi minore op. 7
I. Allegro moderato
II. Andante molto (do maggiore)
III. Alla Menuetto, ma poco più lento
IV. Finale: Molto allegro

Leoš Janáček, Po zarotlém chidničku (Sul sentiero di rovi) JW 8/17
I. Naše večery (Le nostre serate) – Moderato
II. Lístek odvanutý (Una foglia portata via) – Andante
III. Pojďte s námi! (Venite con noi) – Andante
IV. Frýdecká panna Maria (La Vergine di Frydek) – Grave
V. Štěbetaly jak laštovičky (Come le rondini) – Con moto
VI. Nelze domluvit! (Senza parole) – Andante
VII. Dobrou noc! (Buona notte) – Andante
VIII. Tak neskonale úzko (Indicibile angoscia) – Andante
IX. V pláči (In lacrime) – Larghetto
X. Sýček neodletěl! (La civetta prese il volo) – Andante

Fryderyk Chopin, 24 preludi op. 28
1. Do maggiore, Agitato; 2. la minore, Lento; 3. Sol maggiore, Vivace; 4. mi minore, Largo; 5. Re maggiore, Allegro Molto; 6. si minore, Lento Assai; 7. La maggiore, Andantino; 8. fa diesis minore, Molto Agitato; 9. Mi maggiore, Largo; 10. do diesis minore, Allegro Molto; 11. Si maggiore, Vivace; 12. sol diesis minore, Presto; 13. Fa diesis maggiore, Lento; 14. mi bemolle minore, Allegro; 15. Re bemolle maggiore, Sostenuto; 16. si bemolle minore, Presto, con fuoco; 17. La bemolle maggiore, Allegretto; 18. fa minore, Allegro Molto; 19. Mi bemolle maggiore, Vivace; 20. do minore, Largo; 21. Si bemolle maggiore, Cantabile; 22. sol minore, Molto Agitato; 23. Fa maggiore, Moderato; 24 re minore, Allegro Appassionato

Leif Ove Andsnes pianoforte

Torino, Sala 500 del Lingotto, 7 febbraio 2025

Un altro norvegese a Torino

Sta volgendo al termine questa intensa settimana musicale torinese: al Teatro Regio vanno in scena le ultime recite di un intrigante Elisir d’amore; al Conservatorio Giuseppe Verdi Christian Gerhaher ha presentato un raffinato programma cameristico assieme alla viola di Tabea Zimmermann e al pianoforte di Gerold Huber; all’Auditorium Toscanini la stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI ha ospitato il direttore finlandese Pietari Inken per una memorabile esecuzione della Settima Sinfonia di Dmitrij Šostakovič e ora per la rassegna pianistica del Lingotto, nella Sala 500 un altro norvegese – dopo Truls Mørk violoncellista nel concerto RAI del 30 gennaio – presenta un programma centrato sul profondo Nord e la Mitteleuropa romantica…

(il seguito su Le Salon Musical)