Contemporanea

Il piccolo principe

Pierangelo Valtinoni, Il piccolo principe

Torino, Piccolo Regio Puccini, 12 gennaio 2024

Il malinconico principe dell’asteroide B-612

C’è chi lo adora, chi lo trova insopportabile. Comunque sia, Le Petit Prince (Il piccolo principe) di Antoine de Saint-Exupéry, pubblicato nell’aprile 1943, è da sempre uno dei libri più venduti con 505 traduzioni in varie lingue – sedici solo quelle in italiano, soprattutto dopo il 2015, anno in cui sono scaduti i diritti di traduzione originali della Bompiani.

Soggetto di innumerevoli spettacoli teatrali, numerosi sono i musicisti che ne hanno fatto un’opera, come il compositore russo Lev Knipper nel 1964, poi Rachel Portman (2003, in inglese), Alberto Caruso (2015), Enrico Melozzi (2017). Infine, nel 2022 viene presentata alla Scala la versione di Pierangelo Valtinoni, uno dei più rappresentati compositori italiani viventi, che dopo la trilogia formata da Pinocchio (2001), La regina delle nevi (2010) e Il Mago di Oz (2016), ha affrontato quest’altro classico della letteratura per ragazzi e adulti. Si tratta della sua settima opera. A marzo a Dortmund andrà in scena la sua ottava: Viaggio sul pianeta 9, tratto da un racconto di Paula Fünfeck, su libretto di Paolo Madron, lo stesso de Il piccolo principe.

Nella vicenda in primo piano sono i temi del viaggio come metafora della formazione e crescita, dell’amicizia e dell’iniziazione, ma anche temi come l’abbandono e la morte.

Il racconto si apre sul ricordo del narratore di quando a sei anni ha deciso di abbandonare una delle sue più grandi passioni, il disegno, e da quel momento si è interessato di aerei fino a diventare un pilota. Ed è allora che inizia a raccontare il suo incontro, durante una panne del suo aereo nel deserto africano, con il Piccolo Principe. Da una frase inaspettata, quanto semplice «Mi disegni, per favore, una pecora?» inizia il loro rapporto. Il piccolo principe racconta la sua storia spiegando al narratore che proviene dall’asteroide B-612 dove possiede una rosa per lui rara, che deve difendere dalla crescita di arbusti grazie alla pecora, appunto. Nei suoi viaggi che ha compiuto per istruirsi, è entrato in contatto con diversi personaggi e ognuno si è distinto per una particolarità. Per primo ha incontrato un re abituato a comandare ai suo sudditi anche se sul suo pianeta ne è il solo abitante. Sul secondo pianeta trova una donna molto vanitosa. Seguono altri pianeti, abitati da strani personaggi, come l’uomo d’affari che conta le stelle come se fossero le sue o un geografo che specula su come sia fatto il suo pianeta. Nel suo viaggiare il Piccolo Principe fa anche la conoscenza di una volpe, che ha addomesticato per poterla riconoscere, ricordare e far sì che diventi la sua unica e rara volpe. Quando è ormai passato un anno, il Piccolo Principe vuole ritornare sul suo piccolo pianeta per prendersi cura della rosa. Per poter lasciare la Terra si fa mordere da un serpente. L’indomani il suo corpo non viene ritrovato, ma ogni volta che il narratore guarda le stelle, si sente vicino all’amico dai capelli biondi e dalla lunga sciarpa.

Questa del Regio torinese è una produzione diversa da quella milanese, totalmente nuova e affidata alla cura musicale di Claudio Fenoglio e alla messa in scena di Luca Valentino, lo stesso team che aveva portato in scena, questa volta nella sala grande, Pinocchio. E il confronto è inevitabile. Il teatro musicale di Valtinoni è improntato alla semplicità comunicativa, la sua musica ha strutture formali armoniche e melodiche di grande trasparenza. Pur non disdegnando modalità armoniche audaci e originali, la sua immediatezza è per essere apprezzata e fatta propria dai fruitori, i bambini. Ma qui fanno tutto le voci bianche del coro del teatro e manca la partecipazione del pubblico dei piccoli. Per di più i temi non hanno quella orecchiabilità che ti faceva uscire dal Pinocchio canticchiandone i temi. I caratteri sono sì connotati da temi musicali, come la delicata melopea associata al protagonista affidata prevalentemente all’arpa, o i particolari colori strumentali, come il glissando del timpano, il pizzicato del contrabbasso e le sonagliere per il serpente, ma non abbastanza da evidenziare univocamente i diversi personaggi.

Strutturato in un Prologo, sette scene e un Epilogo che si succedono senza soluzione di continutà, il lavoro dura poco più di un’ora. Dopo la “trilogia della ricerca”, popolata di personaggi alla ricerca di sé nel mondo, qui Valtinoni punta piuttosto alla introspezione, alla scoperta intima del sé, tramite una vicenda fantastica che ha poco a che fare con l’immaginario infantile: come per il racconto letterario di Saint-Exupéry, saranno maggiormente gli adulti ad apprezzare una partitura che richiama il primo novecento nella raffinata scrittura orchestrale e nel linguaggio tonale e atmosferico messo in luce con sensibilità e gusto dal maestro Claudio Fenoglio a capo della non vasta compagine orchestrale – archi, due flauti, oboe, clarinetto, fagotto, due corni, tromba, percussioni e arpa. Le voci si affidano a un canto di conversazione senza grande varietà ritmica e che privilegia le suggestioni della parola. Solo in un caso, nel personaggio qui femminile della Vanitosa, il canto diventa più complesso, ricco di agilità e colorature atte a mettere in ridicolo il carattere della figura, unico momento ironico di un lavoro prevalentemente venato di melanconia.

Per l’allestimento, come s’è detto, si ricompone il collaudato sodalizio formato dal regista Luca Valentino affiancato dal fidato Claudio Cinelli per le scene e la direzione dei pupazzi animati, e da Laura Viglione per i sempre prestigiosi costumi. Con la stessa semplice eleganza delle illustrazioni originali del libro, per le immagini Valentino sfrutta la tecnica del bunraku giapponese per far muovere i pupazzi da inservienti vestiti di nero che spariscono sul fondo nero, così come era avvenuto per Ciottolino, lo spettacolo su musiche di Luigi Ferrari-Trecate presentato in questa stessa sala. Questa volta però nel nero si aprono squarci illuminati dalle magiche luce di Davide Milani per le scene più realistiche che contrastano così con quelle più fantasiose dove, con grande economia di mezzi – e di budget: siamo ben lontani dalle possibilità del teatro milanese che l’aveva commissionata! – una semplice linea azzurra rappresenta l’orizzonte del minuscolo pianeta, le lucine in alto il firmamento, un aeroplanino di carta il velivolo sui cui troverà tragicamente la morte Antoine de Saint-Exupéry due anni dopo la pubblicazione del libro.

Affascinato dai suoni e dalle immagini, il folto pubblico del Piccolo Regio ha tributato calorosi applausi ai numerosi esecutori: l’orchestra e il coro di voci bianche del teatro, gli allievi delle classi di strumento del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, gli allievi delle classi di canto e pianoforte del Conservatorio Vivaldi di Alessandria, gli animatori dei pupazzi (Irene Caroni, Lara Quaglia, Simona Tosco) e ovviamente i bravi solisti in gran parte provenienti dal Regio Ensemble. Ricordiamoli tutti: la voce fresca e luminosa del soprano Amélie Hois (Il piccolo principe) che si alterna nelle recite con Valentina Escobar; il mezzosoprano Ksenia Khubunova (La volpe e Un passante) che si alterna con Martina Baroni; il basso Matteo Mollica (Il pilota); il baritono Francesco Auriemma (Il re, Il serpente e Un passante); il soprano Irina Bogdanova (La madre, Una vanitosa molto Prima Donna e Una rosa); il tenore Paweł Żak (Il padre e L’uomo d’affari) e le voci bianche di Ludovico Rena e Nikita Zappino che si alternano come Il pilota bambino.

P.S. Grazie a Luca Valentino e a Marco Emanuele per le segnalazioni di altre versioni operistiche de Il piccolo principe.

Lili Elbe

Gerda Wegener, Ritratto di Lili Elbe, 1922

Tobias Picker, Lili Elbe

Sankt Gallen, Theater, 23 ottobre 2023

(video streaming)

La prima opera per e su una persona transgender

Commissionata per la riapertura del rinnovato Teatro di San Gallo, Lili Elbe è la prima opera su una persona transgender del passato appositamente destinata per una persona transgender di oggi. Scritta dal compositore americano Tobias Picker su libretto di Aryeh Lev Stollman, si basa sulla vita della pittrice di paesaggi Lili Elbe (nata Einar Wegener, 1882-1931) che si sottopose al primo intervento chirurgico di assegnazione del genere (gender-affirming surgery). L’opera esplora le sfide nella vita e nel suo matrimonio con Gerda Gottlieb Wegener, anch’essa pittrice, in un periodo storico in cui l’esperienza transgender era un territorio completamente inesplorato. È basata su fonti storiche, tra cui gli scritti della stessa Lili Elbe, mentre il film The Danish Girl (2015), di analogo argomento, è basato sull’omonimo romanzo del 2000 di David Ebershoff. C’è anche il Lili Elbe Show, un balletto di Riva&Repele portato in scena al Cantiere d’Arte di Montepulciano nell’agosto 2021.

Atto I. Copenaghen, novembre 1925. In questo periodo Lili Elbe si presenta come uomo e vive sotto il nome di Einar Wegener. Lili è sposata con Gerda Wegener, entrambi lavorano come artisti. La coppia assiste a uno spettacolo teatrale che racconta una versione moderna della storia di Orfeo ed Euridice. La loro amica Anna Larsen Bjørner interpreta Orfeo. Il giorno dopo Anna dovrebbe fare da modella per Gerda, ma disdice all’ultimo minuto. Gerda chiede a Lili di sostituirla per poter finire il quadro in tempo. Indossando un vestito e imitando la posa di Anna, Lili si sente finalmente se stessa e chiede a Gerda di chiamarla Lili d’ora in poi. Qualche giorno dopo Lili si presenta per la prima volta come donna alla mostra d’arte di Gerda. Gerda e Anna lo considerano uno scherzo. Lili spiega a Gerda che d’ora in poi vuole vivere solo come Lili, un desiderio che sconvolge Gerda. Decidono di trasferirsi a Parigi. Lili spera di avere più libertà di vivere la sua vera identità e Gerda spera di avere più successo con la sua arte. Parigi, qualche settimana dopo. Hélène ed Eric Allatini, amici dei Wegener, fanno visita alla coppia nel loro nuovo appartamento a Parigi. Ammirano gli ultimi capi di Gerda per i quali Lili ha fatto da modella. Vogliono disperatamente incontrare la musa di Gerda. Contro le obiezioni di Gerda, Lili rivela di essere la donna dei dipinti. Dopo qualche esitazione, le Allatine sono entusiaste di incontrare Lili e vogliono presentarla alla società. Lili visita il ballo di una contessa danese e incontra il profumiere Claude LeJeune, che flirta con lei, mentre Gerda passa il tempo con il maggiore Fernando Porta. Dopo un appuntamento romantico con Claude, Lili deve tornare in fretta a casa per incontrare i fratelli in visita. Dagmar, la sorella di Lili, non può accettarla. Il fratello Marius vuole che Lili incontri il professor Warnekros, che pensa di poter aiutare Lili con un intervento chirurgico di affermazione del genere. Lili non può credere che questo sia vero e si pone un ultimatum. Se la speranza di un corpo in cui sia felice dovesse rivelarsi falsa, porrà fine alla sua vita entro un anno.
Atto II. Dresda-Copenaghen-Vejle-Parigi-Dresda, negli anni seguenti. Il professor Warnekro opera con successo Lili nella clinica femminile di Dresda. Questo permette a Lili di chiedere al re danese Christian X di riconoscere la sua identità e di annullare il matrimonio con Gerda, poiché in quel periodo non era consentito sposare due donne. Il re esaudisce entrambi i desideri. Insieme a Marius, Lili fa visita alla madre. La donna riconosce la figlia solo quando Dagmar le dice chi è Lili e non può accettarla. A Parigi, Gerda e Fernando Porta si sposano, ma Gerda si rammarica di non poter sposare di nuovo Lili. Claude e Lili si fidanzano, ma Lili vuole aspettare a sposarsi perché vorrebbe avere dei figli. Il professor Warnekros cerca di trovare una soluzione al desiderio di Lili di poter avere figli e pensa di tentare un trapianto di utero. Una giovane paziente della clinica viene scelta come donatrice. Lili sopravvive alla rischiosa operazione, ma è debole e stanca. Non ha paura della morte, perché morirebbe felicemente. In un mondo tra realtà e immaginazione, Lili e Gerda si incontrano un’ultima volta.

Tobias Picker (nato il 18 luglio 1954) è un compositore, pianista e direttore d’orchestra americano noto per le sue opere Emmeline (1996), Fantastic Mr. Fox (1998), Thérèse Raquin (2000), An American Tragedy (2006), Dolores Claiborne (2013) e Awakenings (2022). «La mia identità compositiva è il risultato della mia eredità ebraica tedesca», dice Picker, «La sua architettura basata sulla melodia affonda le radici nell’antica musica liturgica ebraica, passando per Arnold Schönberg, Erich Korngold, Kurt Weil, Aaron Copland e Leonard Bernstein. Sono nato ebreo, gay e con una difficile condizione neurologica, la sindrome di Tourette. Sono cresciuto negli Stati Uniti in un periodo in cui ognuna di queste cose mi faceva sentire molto solo. La mia empatia verso gli altri, come le persone con esperienza transgender, coloro che la società esclude o è riluttante a far entrare, è quindi del tutto logica». Picker afferma che «Ci sono molti parallelismi tra la storia di Lili Elbe e la mia».

Diversi stili musicali sono adattati in Lili Elbe: «Ho voluto collegarmi alla musica d’avanguardia del suo tempo. Per la scena di Orfeo ed Euridice mi sono ispirato a una composizione di Anton Webern del 1925 e all’uso dello Sprechstimme da parte di Schönberg. La musica del ballo dalla contessa danese è un’espansione di un fox trot che ho composto per Fantastic Mr. Fox venticinque anni fa. La scena del matrimonio si svolge nel leggendario caffè letterario parigino Les Deux Magots. Qui faccio riferimento al tono della musica da cabaret francese degli anni Venti […] dove le arie e le diverse scene sono collegate da un arioso. Ogni strumento dell’orchestra è un personaggio a sé stante e melodicamente intercambiabile con i personaggi in scena che formano un contrappunto continuo derivato dalle arie e dai leitmotiv che raccontano e commentano la storia. Amo i cantanti perché sono strumenti musicali vivi, che respirano, capaci di amare e perdere, di essere tristi ed estasiati, pieni di tutto ciò che la vita dà e toglie, differenza degli strumenti dell’orchestra, ma come noi, nascono, vivono e muoiono.

L’allestimento è curato da Krystian Lada che si occupa anche della semplice ma efficace scenografia, i fantasiosi costumi sono di Bente Rolandsdotter e Aleksandr Prowaliński gestisce le luci espressionistiche. Un ruolo centrale in questa prima mondiale l’hanno le coreografie di Frank Fannar Pedersen con la compagnia di danza di San Gallo.

La parte eponima è affidata a Lucia Lucas che ha anche svolto il ruolo di dramaturg per il compositore e il librettista. È entrata nella storia nel marzo 2018 quando è stato annunciato che sarebbe stata la prima interprete transgender a interpretare un ruolo principale in una produzione operistica americana, il Don Giovanni della Tulsa Opera, Oklahoma. Nella sua transizione da Lukas Huber a Lucia Lucas l’artista ha mantenuto la sua profonda voce baritonale qui messa in evidenza dalla vocalità scelta da Picker per il personaggio, con ampi salti di registro e discese nelle note gravi. Molto convincenti sono risultati gli altri interpreti, primo fra tutti la fedele moglie Gerda di Sylvia d’Eramo, 

Il team creativo di questa produzione comprende il direttore d’orchestra Modestas Pitrenas che con una smilza compagine orchestrale ha messo in evidenza le caratteristiche di una partitura che ha le qualità per essere riproposta anche in altri teatri. Nel frattempo se ne può vedere la registrazione su OperaVision.

   

Lili Elbe (Einar Wegener) e Gerda Wegener in una foto d’epoca

L’orso

Bronius Kutavičius, Lokys (L’orso)

Klaipėda, Valstybinis muzikinis teatras, 22 ottobre 2022

★★★

(video streaming)

La signorina Julia e il licantropo

Nel settembre 1869 sulla “Revue des deux Mondes” viene pubblicata Lokis – Le manuscrit du professeur Wittembach, una novella fantasy-horror di Prosper Mérimée su un giovane che si sospetta essere metà uomo e metà orso. La novella tratta principalmente della doppia natura uomo-bestia e contrappone l’educazione occidentale e il cristianesimo ai rituali e alle credenze pagane lituane e, più in generale, la civiltà alla natura selvaggia e primordiale. Il titolo è una storpiatura della parola lituana lokys che significa “orso”. Centotrenta anni dopo si ritorna in Lituania con il compositore Bronius Kutavičius (1932-2021) che compone la sua prima grande opera sul libretto della scrittrice lituana Aušra Marija Sluckaitė-Jurašienė tratto appunto dalla novella di Mérimée.

Prologo. L’azione si svolge nella tenuta del conte Šemeta a Medintiltis e dintorni, in Samogizia, Lituania, nel XIX secolo. Il coro maschile canta un incantesimo pagano: “Espellerò quello spirito maligno. Esci, spirito maligno, attraverso le ossa, attraverso il cervello, attraverso tutte le vene da quell’uomo, il conte Šemeta…” Si sente una carrozza avvicinarsi. 
Atto I. Tenuta del conte Šemeta. Sala della biblioteca. Il professor Wittembach, un abile linguista e ministro protestante, amico del vecchio conte, arriva alla tenuta di Medintiltis in Samogizia, nella Lituania rurale. Pranciškus, un maggiordomo muto, lo sta aspettando. Il professore chiede quando potrà vedere il giovane padrone del maniero ed è sorpreso dal fatto che il servitore, invece di rispondere, si inchina e se ne va. Sullo scaffale della biblioteca, il professore vede un libro che cercava da tempo: Catechismus Samogiticus. Il Dottore, ex chirurgo e veterano militare, arriva in biblioteca su una sedia a rotelle per salutare l’ospite. Invita il Professore a unirsi a lui per la cena, poiché il Conte soffre di emicrania. Il Dottore gli racconta delle strane abitudini del Conte, della sua passione per la caccia notturna. Avverte anche che la madre del Conte, l’anziana contessa che sta curando, soffre da molti anni di una misteriosa malattia: è stata attaccata da un orso durante una battuta di caccia poco dopo il matrimonio e da allora soffre di mente annebbiata. La Contessa è stata salvata dal suo servitore Francis, che però è stato spaventato a morte e ha perso la parola. Prima che il Dottore possa finire il suo racconto, l’anziana contessa irrompe nella stanza con un coltello in mano. Il servo Pranciškus cerca di fermarla. Tormentata dalle sue esperienze passate, la Contessa usa il coltello per infilzare la pelle dell’orso e maledice quello che immagina essere il suo bambino non ancora nato. Il Dottore estrae un paio di grandi forbici e minaccia di tagliare i capelli della Contessa. Il Dottore e Pranciškus portano via la Contessa. Durante la notte, una vecchia con un occhio solo canta una canzone popolare. Per calmarsi, il professore apre il Catechismus Samogiticus, ma si addormenta, cullato dalla canzone della vecchia. Si sentono gli zoccoli e il nitrito di un cavallo. Il professore si sveglia dal sonno. Fuori dalla finestra vede un uomo vestito di nero e con guanti neri, che ride e scompare. Il professore, spaventato, chiede aiuto a Pranciškus. La stanza del Conte, il mattino seguente. Il Conte sta parlando con il suo riflesso nello specchio della dualità della natura, dell’attrazione della foresta, della brama di sangue e del desiderio d’amore. Entra il professore. Il Conte saluta l’illustre ospite, un amico di suo padre. Gli ricorda che il suo matrimonio con la nobildonna Julia è fra tre giorni. Il Conte porge la mano guantata al Professore. Dopo essersi giustificato dicendo che indossa i guanti a causa della sua allergia ai cani e ai cavalli, il Conte chiede come ha riposato il Professore la scorsa notte. Quando sente che è stato perseguitato, ride con la stessa risata dell’ospite notturno… Il Conte propone loro di fare una passeggiata nel bosco e di andare a trovare la signorina Julia. Il Conte e il Professore passeggiano nella foresta. Il professore chiede di Julia. Il Conte dice di essere particolarmente affascinato dalla sua pelle bianca e trasparente: quando beve vino, si può vedere il sangue che pulsa nelle sue vene, caldo e dolce… Nella profondità della foresta, la Vecchia con un occhio solo siede accanto a un fuoco fumante, cantando la stessa canzone che il Professore ha sentito nella sua visione. Quando il Conte e il Professore si avvicinano alla Vecchia, lei chiede loro di metterle in grembo una piccola moneta. Il coro intona nuovamente un incantesimo pagano contro lo spirito maligno. La Vecchia chiede un secondo pezzo d’argento, in cambio del quale promette di raccontare il futuro del Conte dalle ceneri. Dice che il Conte è al bivio: se si gira a destra, dove vive Julia, sarà nei guai. Deve andare a sinistra, dalle bestie, e diventare il loro re. Il Conte è infastidito dalle profezie della Vecchia. Conduce rapidamente il professore attraverso la foresta e gira a destra. Un lago ai margini della foresta. La dimora della signorina Julia. Julia si dondola su un’altalena e canta di una sirena, che nel mondo umano è accompagnata solo da un muto dolore. Il Conte, il suo sosia e il Professore si avvicinano a Julia. Lei porge loro dei bicchieri di vino rosso e balla a piedi nudi per loro. All’improvviso un gabbiano urla, il bicchiere cade dalle mani e si rompe. Julia calpesta i frammenti di vetro e si buca il piede. Vedendo il sangue, il Conte succhia avidamente le labbra nella ferita. Inorridita, Julia spinge il Conte lontano da lei. La scena imbarazzante viene interrotta dall’arrivo di Pranciškus. Fa cenno al Conte di affrettarsi a tornare a casa: la Contessa sta avendo una crisi. Il Conte si congeda dalla fidanzata fino alle nozze di domenica e se ne va. Julia ha un brutto presentimento.
Atto II. Giorno del matrimonio. Sala da ballo. Gli invitati attendono l’arrivo degli sposi, il conte Šemeta e la sua fidanzata Julia. Si sente il rombo di una carrozza in arrivo. Gli ospiti salutano gli sposi. L’anziana contessa vede che il conte tiene in braccio Julia e inizia a gridare «È un orso!». Cerca di sparargli. Pranciškus accorre. Il Dottore afferra la Contessa e le taglia i capelli grigi. Gli ospiti mormorano sui segni del destino avverso, l’eclissi lunare a mezzanotte con la luna piena. Il Conte si scusa con gli ospiti e invita il Maresciallo di nozze a iniziare l’orazione. Il professore unisce le mani degli sposi e pronuncia il giuramento, che viene ripetuto dal Conte e da Giulia. Il Conte brinda alla felicità di entrambi. Julia ricambia e spera che un destino speciale li attenda. Il Dottore suggerisce di bere dalla scarpa della giovane, come è usanza dei cadetti. Il Conte toglie la scarpa di Julia e fissa la macchia di sangue lasciata dal suo piede trafitto. La sua brama di sangue è difficile da reprimere. Julia è sempre più sopraffatta dall’ansia, che cerca di sopprimere affidandosi al potere curativo dell’amore. I festeggiamenti per il matrimonio stanno diventando un vero e proprio delirio. Al culmine della frenesia, una Vecchia con un occhio solo appare nella sala. Si offre di fare da sensale. La Vecchia dice di essere venuta senza invito per augurare agli sposi di non separarsi, non solo in questo mondo, ma anche nell’altro. Dice al Conte che l’incantesimo è stato lanciato: il Conte stesso ha scelto di andare direttamente dal Signore degli Inferi e lei stessa lo accompagnerà lì. La Vecchia scompare e gli ospiti riprendono a ballare, come se nulla fosse accaduto. All’improvviso, si sente uno sparo. Il Dottore si precipita in giardino con la sua sedia a rotelle per vedere cosa è successo e torna tenendo tra le braccia il cadavere di Julia con il collo insanguinato. Appare la vecchia Contessa in abito da sposa, con in mano una pistola. Entra il Conte per una ferita alla gamba. La Contessa, gridando ancora “Un orso!”, alza la pistola e spara. Il Conte cade morto.
Epilogo. Il professore lascia il maniero di Medintiltis. Dietro il palcoscenico, c’è un coro che implora il perdono e una voce che canta un addio: «Parto e non porto nulla con me, ma il cuore porta tutto sulla strada». Allo stesso tempo, le ultime frasi della novella Lokis di Prosper Mérimée sembrano riecheggiare nella mente del professore.

L’opera è entrata nel repertorio del Lithuanian National Opera and Ballet Theatre dopo essere stata commissionata al compositore dal Festival di Vilnius. Lo stile musicale di Kutavičius combina la Nuova Semplicità nordica ed elementi del neoclassicismo del XX secolo per formare un arazzo musicale multistrato ricco di contrasti fra le atmosfere atonali, i motivi popolari, le danze, gli elementi folk e linee vocali ereditate dalla Russia. Il compositore stempera la violenza della storia con una partitura ipnotica in cui ostinati quasi minimalisti, accenni al canto popolare e dissonanze acerbe si combinano liberamente per creare un idioma musicale inquietante ma molto avvincente. Anche i momenti apparentemente sereni sono percorsi da un brivido nella musica e magistrale risulta l’uso delle polifonie nella scena finale della festa.

Ecco come la Verlag Zeitgenössische Musik (Edizioni di musica contemporanea) definisce la musica di Lokys: «Il lavoro di Bronius Kutavičius trascende la sfera della musica pura per entrare in ambiti culturali molto più ampi. Scopre strati secolari di storia e risale alla preistoria per parlare con gli archetipi della coscienza mitica e religiosa. Allo stesso tempo, la sua musica è contemporanea e parla al pubblico moderno con un linguaggio nuovo. Kutavičius conosce bene tecniche moderne come il serialismo, il sonorismo, l’aleatorio, il collage, il minimalismo ripetitivo (quest’ultimo corrisponde ai principi fondamentali della musica popolare antica), l’organizzazione spaziale della musica e, di conseguenza, usa una notazione innovativa. La musica di carattere arcaico e primordiale di Bronius Kutavičius, compositore in missione di “archeologia culturale”, non è meno razionalistica e matematicamente esatta. I suoi sistemi sonori, precisi e talvolta sofisticati, sono sempre pieni di vita e di forti emozioni».

Diretta da Martynas Staškus questa premiata produzione del Teatro Musicale Statale di Klaipėda dà forma al conflitto al centro dell’opera, contrapponendo la casa padronale e i boschi oscuri, la civiltà e il caos primordiale, la cultura e la natura, la luce e l’oscurità nella convincente messa in scena da Gintaras Varnas. Mentre nel fondo si staglia l’ombra di un orso, il personaggio della Vecchia Contessa si staglia con forza aggiungendosi alla Kostelnička della Jenůfa di Janáček e alla Contessa della Dama di Picche di Čajkovskij tra i grandi personaggi del teatro d’opera. Il lavoro risulta intrigante e ben realizzato: la successione delle scene costruisce una drammaturgia efficace e la musica si rivela originale ed estremamente varia, adatta a sottolineare l’atmosfera di questo thriller mistico. Grande spazio è lasciato agli strumenti solistici di un’orchestra sempre molto trasparente che anche nei momenti drammatici non copre le voci. Notevole il ruolo del coro qui ottimamente cantato così come precisa e appassionata è apparsa la concertazione di Martynas Staškus, direttore musicale del teatro di Klaipėda.

In scena ci sono interpreti lituani i cui nomi dicono poco al di fuori del loro paese ma risultano efficaci nei rispettivi ruoli: il basso Andrius Apšega (l’inquietante  Conte Šemeta), il soprano Gunta Gelgotė (Julia), Vladimiras Prudnikovas (direttore d’orchestra che talora canta come basso-baritono come qui nella parte del Professore), il mezzosoprano Jovita Vaškevičiūtė (Vecchia Contessa), il mezzosoprano Aurelija Dovydaitienė (Vecchia guercia), il baritono Tadas Jakas (il Dottore) e l’ottimo baritono Mindaugas Rojus (il Sensale).

La registrazione video dello spettacolo è disponibile su Operavision. Con questa produzione si può dire che il lituano si aggiunge definitivamente alle altre lingue dell’opera.

Upload

Michel van der Aa, Upload

Bregenz, Werkstattbühne, 29 luglio 2021

(film opera)

Vecchie domande nella prima opera digitale

E se la nostra mente potesse vivere per sempre? I recenti progressi dell’intelligenza artificiale e delle neuroscienze indicano che presto saremo in grado di mappare i nostri ricordi e le nostre esperienze e di utilizzare questi dati per costruire una coscienza digitale identica alla nostra. Queste “emulazioni dell’intero cervello” saranno in grado di esistere indefinitamente dopo la nostra morte: una specie di resurrezione virtuale. Ma dove risiedono realmente le nostre identità? Nella nostra mente, nel nostro corpo o nelle nostre relazioni? E fino a che punto i dati della nostra vita determinano il nostro destino?

A mettere in scena queste questioni, a porre queste antiche domande in presenza delle nuove tecnologie è il film opera di Michel van der Aa, compositore olandese nato nel 1970 da una famiglia di musicisti, suo padre un attivo direttore d’orchestra e organista diplomato al Conservatorio Reale dell’Aia e sua madre una cantante a livello amatoriale. Tuttavia, Van der Aa è entrato veramente in contatto con la musica solo quando uno psicologo infantile ha consigliato, all’età di 10 anni, di fargli suonare uno strumento per superare i suoi incubi. Una vecchia chitarra in soffitta ha fornito la soluzione e da quel momento Van der Aa ha trovato nella musica il suo sfogo. Durante gli anni del liceo, suonò come chitarrista in diverse band e inizialmente non si considerava abbastanza bravo per studiare composizione, tanto che iniziò a studiare registrazione musicale al Conservatorio Reale dell’Aia e qui ha imparato a trattare la musica in modo analitico acquisendo esperienza nella manipolazione del suono. Dopo gli studi ha fondato con successo una società di registrazione, ma il sogno di comporre continuava e nel 1993 ha iniziato a studiare composizione con Louis Andriessen. Dopo aver intrapreso con successo la carriera di compositore con opere come Between, Faust, Fire, nel 2002 si è preso un anno sabbatico per studiare cinema a New York. Dopo il ritorno, ha partecipato all’International Dance Course for professional Choreographers and Composers in Inghilterra e nel 2007 ha fatto esperienza come regista teatrale al Lincoln Center Theatre Director’s Lab.

Nelle opere di Van der Aa ricorrono diversi temi e motivi. Tra i temi ricorrenti vi sono l’ego contro l‘alter ego, la teatralità, l’uomo contro la macchina, il tempo e lo spazio, la polifonia, l’effetto zap e la ripetizione. In Passage e One (2002), il protagonista è interpretato da un solista, un ensemble o un’orchestra, dopo di che viene messo alla prova da impulsi esterni. Questo “avversario” emerge come un alter ego che viene rappresentato, ad esempio, da una versione campionata su nastro o da un musicista dell’ensemble. La maggior parte delle sue opere esprime una forte immaginazione teatrale. Esiste una somiglianza tra la composizione e il teatro: Van der Aa vede il suono come qualcosa di plastico, che può assumere costantemente forme diverse, i suoi suoni hanno un forte potere espressivo.

In Upload esamina il nostro rapporto con la tecnologia, la mortalità e l’identità, attraverso la storia di un padre che, per rimanere con la figlia dopo la sua inevitabile morte, fa “caricare” i pensieri e i ricordi per ottenere una “resurrezione virtuale”. La partitura si muove tra suoni elettronici e acustici, così come la messa in scena si muove tra performance dal vivo, scene preregistrate e tecnologia di motion capture. La partitura sembra a volte una colonna sonora, che trasmette anche inquietudine ed eccitazione, con il pulsare nervoso degli archi, le percussioni dall’aspetto caotico e l’elettronica trasformata in crepitante rumore bianco. Tutto questo, però, assume un tono diverso nelle scene che riguardano il “presunto” dialogo Padre-Figlia.

L’opera, profondamente emotiva, pone antiche domande filosofiche – sul destino, sull’identità, sul costo dell’immortalità e sull’etica del progresso tecnologico che assumono un nuovo significato sullo sfondo delle tecnologie del presente e del futuro prossimo. Van der Ae è anche librettista e regista dello spettacolo che è stato presentato a Bregenz nel luglio 2021.

Michel van der Aa racconta la vicenda su due livelli. Da un lato, c’è l’incontro del padre con la figlia, dall’altro, il processo di caricamento è spiegato in forma documentaria sotto forma di registrazioni video. In una scena del film vediamo delle persone arrivare alla clinica dove viene preparato il loro upload: prima viene analizzata la loro identità biologica (movimenti, linguaggio, sensi e sistema ormonale); poi è la volta dell’identità psicologica (creazione di un mindfile, un deposito della personalità, della storia personale); infine la scansione e la mappatura completa della mente per ottenere una coscienza digitale eterna, una rinascita dopo la morte biologica. La mente, che era prigioniera di un corpo con tutte le sue fragilità, si libera di questi rischi e diventa praticamente eterna. Il che però non rende le cose facili per chi resta: la Figlia accusa il Padre: «Il tuo processo vitale non è solo tuo. A un certo punto io me ne andrò e tu sarai ancora qui». «Speravo che facessi la stessa cosa» le risponde. Ma la figlia non vuole rinunciare al suo corpo: «Scansionare una mente per copiare la personalità è come scansionare uno Stradivari per ascoltare Bach» e gli rinfaccia di avere abbandonato prima del tempo il suo corpo mentre il padre scopre che la memoria dei dolori non gli è stata tolta e questo lo fa soffrire, tanto da chiedere alla figlia di “cancellarlo” per sempre.

Non solo il tema trattato con le sue implicazioni etiche, anche la realizzazione è del tutto contemporanea: impressionante il concetto generale di Theun Mosk (palcoscenico, luci), Madelon Kooijman e Nils Nuijten (drammaturgia), Joost Rietdijk (regia visiva), Darien Brito (motion capture, grafica in tempo reale) e Julius Horsthuis (artista frattale). Grandi schermi scorrevoli ricreano gli ambienti virtuali e mostrano il back stage dell’operazione, con i macchinari e le futuristiche apparecchiature per il “transfer”, o immagini della MusikFabrik Orchestra diretta da Otto Tausk, che esegue la partitura che accompagna il canto lirico della figlia, la magnifica Julia Bullock, e del padre, Roderick Williams, entrambi profondamente immedesimati nelle rispettive parti e vocalmente impeccabili.

La versione per il palcoscenico dopo Bregenz è stata presentata a Colonia, Amsterdam e New York mentre il video è disponibile su medici.tv.

 

Cassandra

Bernard Foccroulle, Cassandra

Bruxelles, Théâtre Royale de la Monnaie, 14 settembre

★★★

(diretta streaming)

Una nuova Cassandra predice, inascoltata, la fine del mondo

«Invece di forzatamente attualizzare la lettura delle opere del passato, perché [i registi] non scrivono loro opere nuove per discutere del presente?». La proposta che i nostalgici delle regie tradizionali hanno spesso provocatoriamente posto, questa volta ha avuto una risposta affermativa. Ecco infatti un compositore – vabbè, non un regista… – prendere carta e penna e scrivere un lavoro su un tema che più impellente di questo non potrebbe essere: la catastrofe climatica che minaccia l’umanità. Come Cassandra aveva previsto la caduta di Troia senza essere ascoltata, la climatologa Sandra predice l’imminenza di una terribile tragedia, denunciando l’irresponsabilità di chi ci governa e di chi si rifiuta di riconoscere l’urgenza del problema prendendo le misure necessarie. Stavolta non è Troia a bruciare, è tutto il pianeta.

Tra queste due profetesse di ieri e di oggi, gli spiriti, eco dell’antico coro, vedono il futuro ricordando il passato, mentre le api,  simboli della vita minacciata, ronzano sempre meno forte. Citando Seneca, Eschilo, Schiller, Giovenale e Shakespeare, il libretto in inglese di Matthew Jocelyn è una miscela di serietà, umorismo e poesia, una narrazione senza soluzione di continuità in un prologo e tredici scene. 

Prologo. Da qualche parte là fuori. Voci umane risuonano dal vuoto, come echi di epoche diverse. Sono rivolte a Cassandra e testimoniano la sua frenesia, le sue previsioni e la maledizione che le è stata lanciata. Vedono Troia bruciare, come predetto da Cassandra. È allora. È ora.
Scena I – Troia brucia, Cassandra osserva. Cassandra è costretta a guardare mentre Troia brucia. Grida di disperazione. Forse questo non riguarda solo il passato, ma anche il nostro futuro? «Ciò che è stato, ciò che è e ciò che verrà».
Scena II. Chiamami Cassandra. Oggi. A una conferenza sul cambiamento climatico, la dottoranda Sandra Seymour tiene una conferenza sotto forma di stand-up comedy. Spera che questo approccio spinga i suoi ascoltatori all’azione, cosa che gli scienziati non sono riusciti a fare con fatti e cifre aride. Il pubblico la applaude, ma dopo, fuori dal palco, un attivista si scaglia contro di lei: chi, sano di mente, avrebbe avuto l’idea di scherzare sul riscaldamento globale? L’attivista in questione è Blake, uno studente di Lettere e Filosofia. Nonostante la falsa partenza, tra questi due giovani c’è un’evidente chimica.
Scena III. Mi hai sputato in bocca. Il dio Apollo ha dotato Cassandra del dono di predire il futuro, ma poiché lei non si è concessa a lui, le ha sputato in bocca, in modo che nessuno credesse più alle sue previsioni. Ora Apollo fa nuove avances, ma Cassandra resiste e fa riferimento alle varie donne che ha sedotto. Lui la sfida: pensa davvero di essere l’unica persona in grado di “vedere”? Crede davvero di essere unica? Il futuro è a portata di mano, chiunque lo voglia può vederlo. Cassandra sperimenta solo dolore e tristezza.
Scena IV. Le api. Un centinaio di api sciamano.
Scena V. Ototoi popoi da. È passato un anno da quando Sandra e Blake si sono incontrati e innamorati. Ora vivono insieme ed entrambi lavorano alle loro tesi a casa. Utilizzando degli algoritmi, Sandra mappa lo scioglimento delle calotte glaciali dell’Antartide e i conseguenti cambiamenti ambientali. Blake scrive dell’Agamennone di Eschilo, citando le parole pronunciate da Cassandra in quell’opera: «Ototoi popoi da», parole apparentemente incoerenti, che simboleggiano gli orrori indescrivibili che la profetessa vede davanti a sé. Nonostante le diverse aree di ricerca, Sandra e Blake trovano molti punti in comune. Come per Cassandra, il punto di vista di Sandra sulla crisi climatica rimane inascoltato: è un «canto profetico, non invitato (akeleustos) e non gradito (amistnos)». La loro conversazione viene interrotta dal telefono: La madre di Sandra invita Sandra e Blake alla sua festa di compleanno.
Scena VI. Cena di famiglia.Si festeggia  il 55° compleanno di Victoria con le figlie Sandra e Naomi e con Blake. L’atmosfera è allegra, le battute scorrono e si discute di diversi modi di prevedere il futuro. Ma Sandra non è affatto contenta che il suo lavoro scientifico venga paragonato all’osservazione dei cristalli. La conversazione si sposta sulla visita dei genitori in Antartide e sullo stato allarmante del continente. Alexander mette da parte le previsioni catastrofiche di Sandra sulle calotte glaciali e sottolinea le opportunità, come l’estrazione mineraria, che secondo lui si presenteranno con lo scioglimento dei ghiacci polari… Sandra e Blake sono scioccati da ciò che sentono e si preparano a lasciare la festa. Ma poi viene portata la torta di compleanno. Dopo che Victoria ha spento le candeline, Naomi può finalmente condividere la notizia della sua gravidanza.
Scena VII. Nella biblioteca dei morti. Figure del passato si aggirano nella biblioteca. Re Priamo è intento a rileggere ciò che la storia ha scritto su di lui e sulla caduta di Troia. Continua inoltre a incolpare Cassandra per la distruzione della città, senza riconoscere che in realtà lei stava cercando di avvertirlo della catastrofe. Ecuba prende le difese della figlia e gradualmente Priamo si rende conto che le parole di Cassandra erano l’antitesi di una maledizione. Quando Cassandra rimane sola nella biblioteca, ha una visione. Della sua morte? O di qualcun altro?
Scena VIII. I l richiamo della maternità. Sandra e Blake sono a casa. L’atmosfera tra loro è affettuosa ma a tratti anche inquieta: Blake sta per partire per l’Antartide per una rischiosa missione eco-interventista e ha detto a Sandra che vuole avere un figlio da lei. Lei ha sentimenti contrastanti: è saggio mettere al mondo dei bambini? Blake ritiene che stiano lottando per un mondo migliore, quello dei loro figli. In fondo, Sandra deve ammettere di sentire il richiamo della maternità, ma teme il “naufragio” di questo mondo.
Scena IX. Le api. Quindici api ronzano intorno.
Scena X. Canto della culla. Naomi canta una ninna nanna al suo bambino non ancora nato: una bambina che chiamerà Alexandra.
Scena XI. Una nave in viaggio verso l’Antartide. Sandra ha finito la sua tesi. Si esibisce per l’ultima volta nel suo spettacolo comico, ma il tono è ora molto più serio e non tutti gli spettatori lo apprezzano. Vengono lanciati insulti a Sandra e alcuni membri del pubblico lasciano la sala. Sandra annuncia di aver chiuso con il palcoscenico e il mondo accademico e di voler diventare un’attivista come Blake, che sta andando in Antartide. Non sa che tra il pubblico ci sono anche i suoi genitori e sua sorella. Mentre lo spettacolo è ancora in corso, il padre di Sandra riceve la terribile notizia che la nave degli attivisti è affondata e di Blake non c’è traccia. Appresa la notizia dopo lo spettacolo, Sandra crolla. Nello stesso momento, a Naomi si rompono le acque: il bambino sta per nascere. Sandra si ritrova sola. Poi appare Cassandra.
Scena XII. Nessuno mi toglierà mai la voce. Sandra comincia gradualmente a rendersi conto di essere in presenza di Cassandra e che i loro destini sono intrecciati. È come se Cassandra, affranta dal dolore, cercasse di confortare Sandra, riconoscendo fin troppo bene quello che la giovane donna sta passando. Prima di scomparire, Cassandra ribadisce il messaggio che nessun dio può sputare in bocca a Sandra. Nessuno potrà mai impedirle di essere “ascoltata”.
Scena XIII. Le api. Cinque api ronzano intorno, ignare di ciò che sta accadendo.

Nato nel 1953 a Liegi, Bernard Foccroulle è un organista di fama internazionale che accanto alla passione per la musica barocca (ha registrato tutte le opere per organo di Bach e Buxtehude suonate sugli strumenti storici meglio preservati) ha presentato numerosi lavori in prima mondiale di compositori quali Philippe Boesmans o Pascal Dusapin. Ultimamente ha affrontato progetti multidisciplinari che all’organo hanno affiancato la danza e la creazione video. Direttore generale de La Monnaie di Bruxelles tra il 1992 e il 2007, è poi succeduto a Stéphane Lissner alla direzione del Festival Internazionale Lirico di Aix-en-Provence fino al 2018. Le sue composizioni sono principalmente per organo, viola da gamba e voce con liriche su testi di Rilke, Verlaine, Erri de Luca, Dante. Cassandra è la sua prima opera. Commissionata dal teatro belga viene presentata in prima mondiale per l’inaugurazione della stagione con la direzione musicale di Kazushi Ono e la messa in scena di Marie-Ève Signeyrole, la scenografia minimalista di Fabien Teigné – un cubo che si apre e funge da mura di Troia, iceberg, biblioteca, alveare… – , i costumi firmati da Yashi, le luci di Philippe Berthomé e video in bianco e nero di ghiacciai e api. Accurata la direzione attoriale ed efficaci alcune immagini dello spettacolo come quelle ricorrenti delle api minacciate di estinzione. Derisoria l’immagine del cavallino di legno che rappresenta l’infanzia violentata quanto il simbolo di quello che ha portato alla distruzione di Troia.

Passato e contemporaneità sono presenti e la musica di Foccroulle li evoca con sapienza: il mondo del mito è un mondo di suoni acuti degli ottoni che ricordano l’universo barocco monteverdiano prediletto dal compositore. Per la contemporaneità utilizza la marimba per connotare Sandra e il sassofono per Blake mentre il coro omofonico degli spiriti dispiega lunghe frasi sopra strati di suoni trattenuti e respiri ventosi. Nel finale l’autore  cita il corale della Cantata BWV 26 di Bach (le isole antartiche prendono il nome dai compositori…) Ach wie flüchtig, ach wie nichtig (Ah quanto fugace, ah quanto effimera) che esprime la vanità della vita umana. Per le api, il loro ronzio è rappresentato da tremolii di archi che suonano microintervalli sul ponticello. La densa scrittura orchestrale lascia spazio a tocchi solistici che punteggiano il discorso dei cantanti o lo riecheggiano in modo imitativo. La tessitura vocale è sostanzialmente un affare individualizzato e nei pochi ensemble si sovrappongono linee che quasi mai si incontrano. L’unico vero duetto, che combina le sonorità degli ottoni, della marimba e del sassofono (in memoria di Blake), è l’incontro nella scena 12 delle due profetesse.

Anche se dice di non aver voluto fare un’opera attivista, Bernard Foccroulle non riesce a evitare una certa tendenza alla semplificazione che mina un po’ alcune scene della parte contemporanea e rende poco convincente la figura della scienziata che usa la comicità per far ascoltare le sue idee. Nelle tredici scene che compongono questo atto unico, l’alternanza tra le due eroine tende a privilegiare la figlia di Priamo, figura imponente nella sua tragica impotenza di fronte alla distruzione di Troia. Alla fine i due personaggi si riuniscono in una scena che risulta un po’ troppo ricapitolativa e semplificata, se non didascalica: forse sarebbe stato meglio terminare con il grido di Sandra quando apprende della morte del suo compagno, «Ototoi popoi da», lo stesso grido pronunciato dall’antica profetessa di fronte all’orrore della catastrofe.

Il coro bendato – non solo c’è chi non vuole sentire, ma neanche vedere – è spesso presente in scena dando voce agli spiriti. Kazushi Ono realizza con passione la preziosa partitura e concerta con precisione le voci in scena per le quali è stata creata l’opera: le due voci complementari della tragica Cassandra del mezzosoprano serbo Katarina Bradić e la Sandra del soprano americano Jessica Niles; l’Apollo necrofilo del baritono canadese Joshua Hopkins; il bel timbro chiaro del tenore americano Paul Appleby; il basso Gidon Saks come Priamo e come padre di Sandra; il soprano belga Sarah Defrise, Naomi.

Possiamo vivere in un mondo senza api, senza Bach? La domanda che ci pone Cassandra aspetta ancora una risposta da un’umanità distratta e incosciente.




Picture a Day like This

George Benjamin, Picture a Day like This

Aix en Provence, Théâtre du Jeu de Paume, 22 luglio 2023

★★★★☆

(video streaming)

Una favola sulla impossibile felicità

A dieci anni dal thriller Written on Skin e dopo il dramma psicosessuale Lessons in Love and Violence, con Picture a day like this il compositore inglese George Benjamin ritorna alle dimensioni cameristiche della sua prima opera, Into the Little Hill utilizzando anche questa volta un testo di Martin Crimp, librettista d’elezione, che dipinge il ritratto di una donna straziata dalla perdita di un figlio che cerca di riportare in vita. Per farlo, deve ottenere un bottone dai vestiti di una persona felice. In un viaggio disperato, declinato in sette stazioni, invano la donna sollecita una coppia di amanti, un artigiano, una compositrice e un collezionista, solo per scoprire che nessuno di loro è felice. Poi incontra la luminosa Zabelle e il suo giardino paradisiaco e trova la pace.

1. La pagina. «Non appena mio figlio ha iniziato a parlare con frasi complete, è morto». Una donna vede morire suo figlio. Si rifiuta di accettarlo e scopre che se riesce a trovare una persona felice e a ottenere un bottone dalla manica del suo vestito, questo semplice gesto riporterà miracolosamente in vita il suo bambino. Armata di una pagina di indicazioni, inizia la sua ricerca, piena di speranza.
2. Gli amanti. «Non ci vergogniamo. Siamo innamorati». Incontra per la prima volta una coppia di giovani amanti. Vedendo che sembrano felici e innamorati, chiede loro un bottone dell’abito, ma questo scatena una terribile discussione tra i due.
3. L’artigiano. «Posso elencare tutti i bottoni che ho fatto in vita mia». La donna incontra un artigiano e scopre che prima di andare in pensione faceva il bottoniere. Sembra quindi la persona perfetta per soddisfare la sua richiesta. Ma man mano che la scena procede, lo spirito dell’artigiano si deteriora.
4. La compositrice. «Dite che ho inventato tutte le sfumature della luce». La donna si imbatte in una famosa compositrice, accompagnata dal suo assistente, che sta per iniziare le prove. Quando la Donna cerca di far capire loro l’urgenza della sua richiesta, la compositrice è costretto a spiegare che la sua vita, invidiabile a prima vista, non è così semplice come sembra.
5. Aria. «Gli steli morti dei fiori tornano a vivere». La donna dà libero sfogo alla sua rabbia e alla sua disillusione. Nulla va come aveva sperato: la felicità le sfugge, la sua ricerca sembra destinata al fallimento.
6. Il Collezionista. «Ho stanze piene di miracoli». Dopo questo scoppio di rabbia e dopo aver perso ogni speranza, incontra il Collezionista. Nonostante il desiderio che sente per lei, egli si commuove per il suo dolore e accetta di aiutarla. Apre una porta ed entra in un giardino.
7. Zabelle. «Immagina un giorno come questo». In un giardino di grande bellezza e tranquillità, la Donna incontra finalmente Zabelle, un essere che chiaramente le assomiglia. Quando la Donna la prega di condividere la sua felicità, Zabelle le racconta una storia che la costringe a guardare il giardino – e Zabelle stessa – sotto una nuova luce.

Il libretto di Martin Crimp riprende due diverse trame: l’antico racconto popolare La camicia dell’uomo felice – in cui a un sovrano prossimo alla morte viene detto che sarà guarito se troverà la camicia di un uomo felice, ma l’unica persona veramente felice che trova è un uomo troppo povero per possederne una – e una leggenda buddista in cui una donna va alla ricerca di un miracolo per far tornare il suo bambino dalla morte. L’opera, della durata di un’ora, è per orchestra da camera e cinque interpreti. Picture a day like this è un racconto filosofico e iniziatico, «una ricerca, come Alice nel Paese delle Meraviglie o Candide di Voltaire», ha detto Crimp, «un viaggio di apprendimento che segue un personaggio dall’inizio alla fine mentre incontra una varietà di persone». Benjamin sperimenta con toni e stati d’animo molto diversi attraverso i vari incontri e di conseguenza l’opera «è come una serie di bolle» attraverso le quali passa la donna. Senza precedenti o conseguenze per ogni momento, e senza materiale cumulativo a cui fare riferimento o da spingere in avanti, ogni cambio di scena è come «iniziare quasi completamente un nuovo pezzo». Un approccio a “mosaico” ispirato dalla tecnica narrativa di Vladimir Nabokov, confessa il compositore.

Il lavoro viene presentato al Festival di Aix-en-Provence con la regia di Daniel Jeanneteau e Marie-Christine Soma, gli stessi che avevano messo in scena la prima di Into the Little Hill a Parigi e che qui fanno ricorso ai video di Hicham Berrada che ha creato giardini fantasmagorici all’interno di un acquario (realizzati tramite infiorescenze di reazioni chimiche) mentre la scenografia è limitata a uno spazio vuoto inclinato delimitato da pareti di vetro, come le “gabbie” di alcuni personaggi. Il palcoscenico è per la maggior parte del tempo immerso nell’ombra, semplici i costumi di Marie la Rocca ad eccezione di quello dell’artigiano, rutilante di bottoni.

Con un’audace economia di mezzi la scrittura musicale è sempre in fase col testo e ricca di sottigliezze. I suoni sobri ed enigmatici della partitura vengono sapientemente realizzati dall’autore alla guida della Mahler Chamber Orchestra e da un cast vocale di eccellenza. Per il personaggio principale, sempre presente in scena, la scelta di Marianne Crebassa si è rivelata vincente: il timbro caldo, drammatico ed espressivo del mezzosoprano francese ben si adatta alla sensibilità sofferta della Donna. Le fa da contrasto nel duetto finale la voce più aspra del soprano Anna Prohaska, Zabelle. Il baritono John Brancy presta il suo bel mezzo vocale e la sua espressività ai personaggi dell’Artigiano e del Collezionista. Il suo ruolo può essere definito da controbaritono in quanto la sua tessitura tocca le note del soprano raggiunte con la tecnica dei controtenori. Nella surreale coppia di Amanti e poi come Compositrice e Assistente troviamo il soprano Beate Mordal e il controtenore Cameron Shahbazi.

Dopo Aix-en-Provence lo spettacolo sarà alla Royal Opera House di Londra per 11 repliche dal 22 settembre con un altro cast e la direzione musicale di Corinna Niemeyer.



The Snow Queen

Hans Abrahamsen, The Snow Queen

Monaco di Baviera, Nationaltheater, 21 dicembre 2019

★★★★☆

(video streaming)

La favola di Andersen diventa un onirico e inquietante spettacolo

Snedronningen (La regina delle nevi) è stata presentata in anteprima nell’ottobre 2018 al Kongelige Teater di Copenaghen nella lingua del suo compositore, il danese Hans Abrahamsen. A 66 anni, è la sua prima opera lirica. Tratto ovviamente dal racconto omonimo di Hans Christian Andersen del 1844, il libretto non si scosta molto dalla fiaba che è strutturata in sette storie. (1)

Atto I. I bambini Gerda e Kay ascoltano la nonna che racconta loro della Regina delle Nevi e Kay immagina di portare la Regina delle Nevi nella stanza calda e di vederla sciogliere. Gerda racconta che il diavolo ha creato uno specchio magico che fa sembrare brutto tutto ciò che è bello e che si è rotto in un milione di piccoli pezzi. Spiega che chi si fosse procurato una di queste schegge nell’occhio o nel cuore avrebbe visto solo le imperfezioni delle cose; la freddezza avrebbe intorpidito il cuore. Quella notte, Kay è così spaventato che non riesce ad addormentarsi. Quando vede la Regina delle Nevi alla finestra è terrorizzato. Mentre Gerda e Kay guardano le rose in fiore, Kay viene improvvisamente trafitto da qualcosa nel cuore e poi nell’occhio. Da questo momento in poi, anche lui vede solo l’imperfezione dei fiori e allora si prende gioco di Gerda e fa a pezzi le rose. L’amicizia tra Kay e Gerda si indebolisce. Invece di giocare con lei, Kay preferisce giocare con gli altri ragazzi che non lo lasciano partecipare al loro gioco. Allo stesso tempo, Kay ammira la simmetria e la perfezione dei cristalli di ghiaccio. La Regina delle Nevi appare sulla sua slitta e porta con sé il ragazzo. La Regina delle Nevi vola con Kay nel suo palazzo di ghiaccio. Lo bacia sulla fronte, facendogli perdere la sensazione di freddo e dimenticando il mondo che conosceva.
Atto II. Gerda ha iniziato la ricerca di Kay e si ritrova nel giardino della Vecchia dove i fiori le cantano la canzone delle tre sorelle morte. Ma Kay, annunciano, non è morto. Gerda lascia il giardino e continua la sua ricerca. Incontrando il Corvo della Foresta, Gerda scopre che la principessa è alla ricerca di un uomo che sia alla sua altezza in saggezza. Poiché Gerda sospetta che Kay possa essere il prescelto, il Corvo della Foresta la porta al castello del Principe e della Principessa. Arrivata al castello, il Corvo del Castello permette a Gerda di entrare, ma è subito perseguitata da apparizioni sinistre e inquietanti. Quando finalmente trova la principessa e il suo principe, si rende conto del suo errore. Il Principe e la Principessa premiano i Corvi per la loro buona azione e promettono di aiutare Gerda alla quale viene concesso di dormire nel letto del Principe. In sogno vede Kay sulla sua slitta.
Atto III. Il Principe e la Principessa hanno consegnato a Gerda la loro carrozza d’oro perché possa continuare la sua ricerca di Kay. Nella foresta la carrozza cade in un’imboscata dei briganti, che uccidono tutti i viaggiatori tranne Gerda. Con l’aiuto della renna, che la porta più a nord, Gerda incontra la Donna Iinnica. La renna racconta alla Donna Finnica di come Gerda sia stata tenuta prigioniera dai briganti e dell’ipotesi che Kay sia con la Regina delle Nevi. Alla fine la Donna Finn spiega i retroscena della scomparsa di Kay. Incoraggia Gerda nella sua ricerca, ma rifiuta di dotarla di poteri speciali, poiché Gerda è già in possesso di tutte le capacità necessarie per trovare Kay. Ordina alle renne di portare Gerda nel regno della Regina delle Nevi e di tornare indietro. Arrivata nel regno della Regina delle Nevi, la renna si congeda da Gerda baciandola sulla bocca e piangendo. Il freddo la colpisce e gli avamposti della Regina delle Nevi la invitano a tornare indietro. Ma gli angeli che nascono dal suo respiro la proteggono dalla minaccia. Nel frattempo, nel palazzo di ghiaccio della Regina delle Nevi, Kay deve affrontare il compito di trovare la parola perfetta, ma è quasi pietrificato dal freddo e dalla disperazione. La Regina delle Nevi ha lasciato il palazzo. Quando Gerda finalmente lo trova, entrambi iniziano a piangere. Attraverso le lacrime, Kay viene liberato dalle schegge negli occhi e nel cuore. Insieme Gerda e Kay scoprono la parola “eternità”. Quando Gerda e Kay tornano a casa, la nonna sta ancora leggendo un libro illustrato. Ma Kay e Gerda sono cresciuti anche se sono rimasti bambini nel cuore. È di nuovo estate.

Abrahamsen negli anni Settanta aveva già concepito un brano “invernale”, Winternacht, basato sull’omonimo poema di Georg Trakl, come un pezzo per soprano ed ensemble strumentale, ma desiderava comporre un’opera teatrale. Questo progetto fu sostenuto, tra gli altri, da Hans Werner Henze, che suggerì al compositore di comporre un’opera già negli anni Ottanta, in vista della prima Biennale di Monaco. Solo nel 2008, quando sta lavorando alla composizione di  Schnee, dieci canoni per nove strumenti, Abrahamsen riprende in mano l’idea di un’opera di teatro musicale. In quel periodo era profondamente coinvolto dal tema della neve e in questo contesto legge la fiaba di Hans Christian Andersen. Abrahamsen ne associa la forma episodica al suo Drei Märchenbilder aus der Schneekönigin, basato sul brano di Robert Schumann, in cui tratta l’idea di assemblare storie da immagini. Sulla base della fiaba, il compositore ha sviluppato un libretto d’opera, in collaborazione con il drammaturgo Henrik Engelbrecht, che prende scene selezionate della fiaba pur conservandone in gran parte il linguaggio originale. Ispirato dalla collaborazione con il soprano Barbara Hannigan per la composizione Let me tell you, ciclo per voce e orchestra, è poi cresciuto il desiderio di scrivere una parte per la sua voce.

Fredda e fragile come un fiocco di neve, la partitura di Abrahamsen è adatta ad accompagnare la inquietante e un po’ sinistra vicenda ambientata tra ghiaccio e neve. La musica è molto originale, con un tocco di minimalismo. Il suo lavoro di orchestrazione di lavori del passato – Bach, Schumann, Debussy, Schönberg, Ligeti – si ritrova nella ricchissima strumentazione di quest’opera. Il paesaggio sonoro di The Snow Queen è monocromo e fermo come un passaggio innevato, ma un intreccio di linee tematiche finisce per fornire strati di schemi ritmici delicati, costantemente ripetuti e mutevoli, transizioni appena percettibili esaltate dalla varietà timbrica di un organico sterminato – 4 flauti, due oboi, corno inglese, 4 clarinetti, tre fagotti; sei corni compresa una tuba wagneriana, due trombe, due trombe basse, tre tromboni, basso tuba; timpani, xilofono, marimba, glockenspiel, vibrafono, campane tubolari, piccoli tamburi tubolari, tamburi bassi, rullante, congas, tamburelli, cimbali, tam-tam, macchina del vento, campanelli, carta vetrata, maracas, legnetti, güiro, triangolo, fruste; 2 arpe; fisarmonica; sintetizzatore, celesta e archi. Tutto questo però non serve a fornire volume, bensì una continua varietà di colori, o meglio, di sfumature del bianco. Le linee vocali sono lasciate emergere sopra la trama orchestrale e sono anche generalmente abbastanza cantabili essendo all’interno di una gamma relativamente stretta, ad eccezione di quelle di Gerda e della Principessa, entrambe scritte con alcuni salti nella stratosfera acustica. L’uso di armonici estremamente alti negli archi, di fiati gargarizzanti o di minacciose interiezioni degli ottoni nella parte inferiore della loro gamma, crea un’atmosfera di pericolo sotto la superficie fiabesca.

Questa nuova produzione della Bayerische Staatsoper segna la prima in lingua inglese dell’opera nella traduzione di Amanda Holden. La neve è protagonista nella fiaba di Andersen e lo è anche nella messa in scena di Andreas Kriegenburg, una versione per adulti della favola. Che la Regina delle Nevi sia interpretata da un basso, che chieda a Kay di venire a baciarla e di essere protetta nel suo cappotto, che Gerda si conceda uno spazio per dormire nel letto del Principe, o ancora che Gerda baci appassionatamente la renna, sono tutti elementi che indicano qualcosa di molto oscuro, una corrente di abusi che si nasconde sotto il candore immacolato delle immagini. Nella sua lettura Kriegenburg prende il rapporto personale tra Gerda e Kay e lo sviluppa in una storia di ricerca disperata di Gerda per riconquistare il suo unico vero amore, che apparentemente soffre di apatia e mutismo dopo aver subito chissà quale  trauma. Quale sia stato questo trauma infatti non è chiaro. La sua è una messa in scena che è una meditazione sulla memoria, che trascende il tempo con molteplici versioni di Gerda e Kay, da bambini, adolescenti o adulti, in ogni momento o contemporaneamente, con il Kay adulto interpretato da un attore, l’intenso Thomas Gräßle. L’ambiente ricostruito nella scenografia di Harald B. Thor è quello di un ospedale: lettini, pigiami, suore infermiere. La presenza di altri pazienti suggerisce che il trauma di Kay non è unico. I vari piani di profondità della scena sono separati da teli traslucidi e cade in continuazione neve, tanta neve. Ricchi e suggestivi i costumi di Andrea Schraad e particolarmente riusciti quelli dei corvi.

L’eccellenza della direzione musicale di Cornelius Meister era da aspettarsela e qui se ne ha la dimostrazione: le gelide ma delicate armonie di Abrahamsen sono rese con competenza e precisione e la concertazione di cantanti e coro è impeccabile. Barbara Hannigan, per la cui voce è stata scritta la parte di Gerda, si conferma la grande artista che sappiamo: presenza scenica e vocale sono oltre ogni confronto. Nella parte del Kay che si esprime Rachael Wilson offre la sua sicura tecnica, mentre Katarina Dalayman affronta con consumata abilità i tre personaggi di Nonna, Vecchia e Donna Finnica. Come s’è detto la Regina delle Nevi ha qui la voce di un basso, l’autorevole Peter Rose, anche Renna e Orologio. Nella parti esangui del Principe e della Principessa si fanno notare per la bella prova il tenore Dean Power e il soprano norvegese Caroline Wettergreen dagli acuti svettanti. Il tenore Kevin Konners e il controtenore Owen Willetts sono i due idiomatici corvi. Sugli scudi anche il coro della Bayerische Staatsoper. 

(1) Prima storia. Lo specchio e le schegge. In questa prima sezione viene narrato l’antefatto: si racconta come un troll malvagio (in alcune traduzioni il diavolo) abbia creato uno specchio capace di fare sparire tutto ciò che di bello si specchia in esso, e di accentuare e di deformare tutto il cattivo. In seguito, lo specchio si rompe in milioni di frammenti che vengono dispersi per il mondo, entrando negli occhi e nei cuori degli uomini corrompendo le loro anime.
Seconda storia. Un bambino e una bambina. Si presentano i protagonisti, il bambino Kay e la bambina Gerda. Kay e Gerda sono vicini di casa e le loro finestre, all’ultimo piano di alti palazzi, sono unite da un piccolo giardino pensile, ricolmo di rose. Un giorno, mentre i bambini sono nel giardinetto, un frammento dello specchio malvagio entra nell’occhio di Kay. Da quel momento Kay diviene cattivo e acido con tutti, persino con Gerda. Un giorno, mentre Kay gioca con lo slittino nella piazza del paese, si attacca alla slitta della regina delle nevi e viene trascinato via, senza riuscire a staccarsi. La regina delle nevi lo incanta con un bacio, facendogli perdere la memoria e impedendogli di avvertire il freddo.
Terza storia. Il giardino fiorito della donna che sapeva compiere magie. Nella terza parte Gerda, disperata per la scomparsa di Kay, decide di andare a cercarlo. Sale su una barchetta e chiede al fiume, in cambio delle sue scarpette rosse, di portarla da Kay. La barca si arena nei pressi di una casetta in mezzo a un giardino di fiori, dove vive una vecchia maga. La maga incanta Gerda facendole dimenticare Kay e fa scomparire tutte le rose del giardino sottoterra, affinché queste non le ricordino il suo amico perduto. Ciononostante, dopo qualche tempo Gerda vede una rosa dipinta, si ricorda di Kay e, dopo avere interrogato invano tutti i fiori del giardino, riparte alla sua ricerca. Nel frattempo è arrivato l’autunno.
Quarta storia. Il principe e la principessa. Nella quarta storia Gerda incontra una cornacchia, che le racconta di come un ragazzo sconosciuto abbia da poco sposato la principessa del paese. Nella sua descrizione Gerda crede di riconoscere Kay e, con l’aiuto della cornacchia, entra nella reggia e nella stanza della principessa e del suo sposo. Però questi non è Kay, sebbene gli somigli. Commossi dalla sua storia, i principi regalano a Gerda una carrozza con la quale proseguire la ricerca.
Quinta storia. La figlia del brigante. In questa sezione Gerda viene assalita dai briganti, a causa della carrozza e dei ricchi vestiti che le sono stati donati. I briganti vogliono ucciderla, ma vengono fermati dalla figlia del capo, che desidera che Gerda diventi la sua compagna di giochi. La figlia del brigante tiene prigionieri due colombi selvatici e una renna, i quali, dopo avere ascoltato la storia di Gerda, le dicono di avere visto Kay in Lapponia, nel palazzo della regina delle nevi. La figlia del brigante lascia liberi Gerda e gli animali, che partono per la Lapponia.
Sesta storia. La donna di Lapponia e la donna di Finlandia. Gerda trova ospitalità in Lapponia presso una povera donna. La donna di Lapponia le affida un messaggio – scritto su un pesce – per la donna di Finlandia, che potrà aiutarla. La donna di Finlandia, una maga, spiega a Gerda dove sia il palazzo della regina delle nevi e le spiega che non avrà bisogno di altri poteri per sconfiggere la regina oltre quelli che ha già.
Settima storia. Che cosa era successo nel castello della regina delle nevi e che cosa accadde in seguito. Qui viene raccontato come Kay sia stato soggiogato dalla regina delle nevi e costretto a comporre all’infinito parole con alcuni frammenti di ghiaccio. Solo se riuscirà a comporre la parola “eternità” potrà arrivare a essere padrone della propria vita. Mentre Gerda sta arrivando al palazzo, la regina lo lascia solo. Gerda trova Kay, lo abbraccia e con le lacrime scioglie il ghiaccio nel cuore di Kay. Kay la riconosce e si mette a piangere, facendo così uscire dall’occhio il frammento di specchio. Mentre Kay e Gerda festeggiano e danzano, le vibrazioni dei loro passi fanno muovere i frammenti di ghiaccio sul pavimento, che compongono spontaneamente la parola “eternità”, liberando Kay. I due intraprendono il lungo viaggio verso casa, durante il quale incontrano molti dei personaggi conosciuti da Gerda nel suo viaggio, tra cui la renna, la donna di Finlandia, la donna di Lapponia e la figlia del brigante, che li informa della morte della cornacchia. Giunti a casa, i due si rendono finalmente conto di essere cresciuti, mentre la nonna si crogiola al sole e legge un passo della Bibbia: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli».

 

Nixon in China

John Adams, Nixon in China

Parigi, Opéra Bastille, 7 aprile 2023

★★★★☆

(video streaming)

Il drago e l’aquila

Uno dei più terrificanti periodi del secolo passato è stato quello della Rivoluzione Culturale cinese. Nei soli ultimi cinque mesi del 1966, il cosiddetto periodo del Terrore Rosso, sono state contate cento mila vittime per mano delle Guardie Rosse, ma alla fine  dei dieci anni in cui durò la politica di Mao Zedong si stima che i civili uccisi siano stati almeno un milione e mezzo, forse molti di più.

Nel 1972 Richard Nixon aveva fatto  un importante passo verso la normalizzazione delle relazioni fra gli Stati Uniti e il paese asiatico facendo visita al capo del governo cinese Zhou Enlai. Era la prima volta che un presidente americano sbarcava sul suolo cinese. Nella settimana dal 21 al 28 febbraio i Nixon visitarono Pechino, Hangzhou e Shanghai. 

Quello che nell’opera Nixon in China di John Adams si trova sotto traccia, ossia il clima di paura instaurato dalle Guardie Rosse, nell’allestimento di Valentina Carrasco è invece chiaramente rappresentato: la scenografia di Carles Berga e Peter van Praet per la scena dell’incontro tra Nixon, Henry Kissinger, Zhou e Mao è divisa in due: sopra la libreria (con libri finti) di Mao, sotto  l’ambiente in cui vengono torturati i dissidenti – qui giornalisti e artisti – e bruciati i libri non graditi. Spezzoni di video in seguito mostreranno gli atti di violenza commessi dalle Guardie Rosse così come i bombardamenti americani sul Viet Nam. Altri momenti di tensione e violenza sono quelli vissuti da Pat, la moglie del presidente, alla rappresentazione inscenata per gli ospiti americani. Unico momento di serenità e poesia quello dell’onirico incontro con il dragone rosso dell’Opera di Pechino, una delle scene più toccanti di questa produzione della prima opera di Adams il cui libretto della poetessa Alice Goodman non può certo essere definito un esempio di efficacia drammaturgica.

Valentina Carrasco si inventa una narrazione che parte prima del viaggio: l’invito, nel 1971, della squadra americana di tennis da tavolo in Cina. Si parlò a quel tempo di “diplomazia del ping-pong” per designare il cauto avvicinamento tra le due potenze mondiali. Durante l’ouverture vediamo infatti due giocatori, uno blu e l’altro rosso, con le maschere dell’aquila e del dragone, simboli  rispettivamente degli USA e della Cina, sfidarsi a un tavolo di tennis da tavolo che si moltiplica in numerosi altri mentre una maestosa aquila scende dal cielo – l’aereo Air Force One – per scaricare la coppia presidenziale. Un’altra partita grottesca sarà poi giocata da Kissinger e Mao con le palline ferme in volo in una “tempesta di neve”. Rispetto al realismo dello storico allestimento di Peter Sellars, questo della Carrasco è più allegorico, più astratto e pieno di momenti ironici o poetici, come quando Jiang Qing, la signora Mao, viene drappeggiata nella bandiera come la Statua della Libertà ma al posto della fiaccola brandisce il Libretto Rosso o quando il violinista torturato dalle Guardie Rosse lo ritroviamo all’inizio del terzo atto in alcune scene del film di Isaac Stern Da Mao a Mozart (1979) dove il direttore del Conservatorio di Shanghai racconta le violenze e le umiliazioni subite durante la sua detenzione per aver insegnato musica occidentale

Thomas Hampson e Renée Fleming si mimetizzano in modo credibile ma non caricaturale nella coppia presidenziale con l’intelligenza e l’eleganza che conosciamo, anche se le doti vocali non sono più quelle di un tempo. Il primo ha una importante aria con cui si presenta nel primo atto, la Fleming un momento da grand opéra nel secondo con «This is prophetic», risolto  con tecnica sontuosa. Eccellente si dimostra la prova del baritono Xiaomeng Zhang come Zhou Enlai mentre John Matthew Myers è un imperscrutabile Mao Zedong e Joshua Bloom divertente Henry Kissinger. Kathleen Kim esibisce le sue stratosferiche colorature come Jiang Qing, spietata Regina della Notte cinese.

Gustavo Dudamel fornisce tensione drammatica alla ossessiva pulsazione ritmica della partitura resa con precisione dall’Orchestra dell’Opéra arricchita di quattro sassofoni, un pianoforte e un sintetizzatore.

Adam’s Passion

foto © Kristian Kruuser & Kaupo Kikkas

Arvo Pärt, Adam’s Passion

Roma, La Nuvola, 31 marzo 2023

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La tragedia del genere umano nella “cerimonia” di Pärt e Wilson

Due maestri del ralenti si incontrano, due economie simili, una sonora e l’altra visiva. Le musiche del compositore estone Arvo Pärt, che unisce tre suoi lavori Il lamento di Adamo, Tabula rasa e Miserere e ve ne aggiunge un quarto,  Sequentia, scritto appositamente per l’occasione, diventano una performance in cui gli ottantacinque minuti di musica si armonizzano perfettamente al teatro ipnotico di Robert Wilson.

Nelle parole del compositore la base di Sequentia «è la sottile linea discendente del violino, composta come una catena di tre note. Gli altri gruppi orchestrali la seguono in successione come un canone. È come un filo particolare in un tappeto. Il disegno emerge se tutti gli strati lavorano insieme». Il brano deve essere eseguito in modo dolce, portando gli ascoltatori in un mondo sonoro particolarmente fragile, in cui si incontrano movimento e quiete, tempo e atemporalità e l’esecuzione richiede archi senza vibrato. La pagina è stata creata nel 2014 appositamente per la produzione Adam’s Passion, dedicata a Robert Wilson è una specie di ouverture agli altri tre pezzi.

Il lamento di Adamo (2009) è una composizione per coro e orchestra sul testo russo del monaco ortodosso Silvano del Monte Athos (1866-1938) le cui parole recitano: «Adamo, padre di tutta l’umanità, nel paradiso conobbe la dolcezza dell’amore di Dio; così, quando per il suo peccato fu cacciato dal giardino dell’Eden e rimase vedovo dell’amore di Dio, soffrì molto ed emise un forte gemito. E tutto il deserto risuonò dei suoi lamenti». Il monologo è cantato dalle voci maschili del coro e la struttura del testo detta l’andamento della composizione dove non solo il numero di sillabe e gli accenti delle parole ma anche i segni di interpunzione vengono tradotti in suoni e pause.

Tabula rasa è formata da due movimenti “Ludus” e “Silentium”. Qui Pärt sviluppa il suo stile tintinnabuli per due voci: la prima suona le note di una scala diatonica (voce della melodia), la seconda arpeggia sulla triade tonica (voce dei tintinnabuli). Praticamente un doppio concerto per due violini, orchestra d’archi e pianoforte preparato, è stato composto su richiesta del violinista Gidon Kremer nel 1977. I due movimenti sono in contrasto tra loro sia in termini di atmosfera che di velocità. Mentre “Ludus” consiste in otto variazioni e in una vigorosa cadenza, in “Silentium” Pärt utilizza di nuovo il canone della imitazione, con le diverse voci che si muovono a velocità ritmiche diverse. Pärt ha riservato la velocità ritmica più rapida alla voce del basso e quella più lenta al primo violino solo.

I due movimenti liturgici Miserere e Dies Irae, composti negli anni 1989-1992 per coro e orchestra, formano la terza parte. La differenza dei testi si riflette anche nel trattamento musicale: la preghiera di Davide è eseguita da solisti vocali accompagnati da strumenti selezionati in varie combinazioni, mentre nelle scene che formano il giorno del giudizio dell’umanità, il coro canta insieme al tutti strumentale. Nell’attesa della redenzione, queste due prospettive sembrano fondersi in un’unica preghiera silenziosa. Oltre all’organo, agli strumenti a fiato (oboe, clarinetto, clarinetto basso, fagotto, tromba e trombone) e alle percussioni, l’orchestrazione comprende anche una chitarra elettrica e un basso.

Adam’s Passion è nato dopo un incontro in Vaticano del compositore e del regista ed è stato presentato la prima volta a Tallinn, la capitale dell’Estonia, nel 2015 in una vecchia fabbrica di sottomarini. Libero da ogni vincolo narrativo, Wilson qui crea il suo spettacolo più essenziale, più depurato. La rarefatta musica di Pärt ha un corrispettivo visivo nel palcoscenico vuoto e nel raffinatissimo disegno luci di A.J. Weissbard dove una pedana che si protende verso il pubblico è incorniciata da luci al neon mentre il fondo della scena è occupato da una batteria fari che nel finale si uniranno con la loro luce al crescendo della musica.

Nel buio più totale le note dei due violini solisti fluttuano nella sala. Un improvviso battito di xilofono fa trasalire e un fascio di luce scorre attraverso lo schermo blu del fondale: lo spazio e il tempo sono creati dal caos primordiale. Una figura maschile emerge dal blu (il colore preferito di Wilson): è Adamo, irrigidito, solo le dita della mano hanno qualche movimento. Poi avanza molto lentamente – per dare una misura dei tempi impiega quasi venti minuti per fare i 12 metri della pedana – sul tappeto vibrante di un mare di nuvole. Lo sguardo è perso all’orizzonte, le labbra sono socchiuse come nell’espressione di una scultura antica. E della statuaria greca ha la nudità. I gesti sono lenti, misurati, solo a tratti il corpo è percorso da un improvviso tremito, come una scarica elettrica. Giunto alla fine della pedana raccoglie un ramo – l’ultimo rimasto dell’albero della conoscenza del bene e del male? – e se lo pone sul capo mentre in scena è apparsa una figura femminile in un lungo abito grigio (i costumi sono disegnati da Carlos Soto). È Eva, la Donna, una ieratica Lucinda Childs, coprotagonista da lungo tempo degli spettacoli di Wilson. Intanto sono comparse altre due figure (Caino e Abele), heavy men saltellanti nei lori costumi imbottiti – il lato brutale dell’umanità? – seguiti da un bambino vestito come quello di Einstein on the Beach che in equilibrio sulla testa si pone invece un parallelepipedo bianco, un manufatto, un mattone: l’uomo ha imparato a costruire, e infatti dall’alto scende la silhouette di una casa. Adamo, questa volta vestito, entra con una scala che rimane magicamente in piedi da sola su una gamba. Purtroppo l’uomo ha imparato anche a uccidere: altri due figli di Eva entrano in scena con delle mitragliatrici di legno. Il finale è più ottimistico: il palcoscenico si riempie di figure, prima un vecchio dall’andatura stanca (e si completa così la presentazione delle diverse età dell’uomo), poi il “coro degli alberi” (gli allievi della Scuola di Danza del Teatro dell’Opera di Roma), ognuno con un ramo sulla testa – l’equilibrio raggiunto tra l’umanità e la natura? – formando una specie di foresta in movimento.

Molti sono gli interrogativi posti dallo spettacolo di Wilson, di alcuni non c’è una risposta logica che si possa trarre dalla drammaturgia di Konrad Kuhn. Ma forse non è questo l’importante: come sempre negli spettacoli dell’artista americano l’elemento essenziale è la seduzione ipnotica delle immagini e dei suoni che incantano lo spettatore. E allora è perdonabile che invece di pensare alle complesse implicazioni filosofiche che hanno ispirato il compositore, lo spettatore si distragga a contemplare le michelangiolesche nudità di Michalis Theophanous, il performer già avvistato in alcuni recenti spettacoli di Dimitris Papaioannou.

L’orchestra dell’Opera è alle spalle degli spettatori – nulla deve distrarre dalla visione – ed è diretta dal direttore estone Tõnu Kaljuste, profondo conoscitore del suo conterraneo, che dipana con sapienza i rarefatti suoni della partitura mentre il coro del teatro, più avvezzo a pagine verdiane, affronta con impegno le elusive armonie della scrittura vocale di Pärt. Più a loro agio si rivelano i solisti dell’Estonian Philharmonic Chamber Choir, cinque voci che coprono tutti i registri, soprano, contralto, tenore, baritono e basso: Yena Choi, Marianne Pärna, Raul Mikson, Rainer Vilu e Henry Tiisma.

Un pubblico attento che ha riempito tutti i posti disponibili dell’auditorium de La Nuvola del Centro Congressi ha risposto con copiosi applausi, con particolare calore per la gloriosa Lucinda Childs, l’enigmatico Michalis Theophanous e la bella figura ancora diritta, non piegata dagli anni, di Robert Wilson.

Una registrazione dello spettacolo di Tallinn è disponibile su youtube.

Powder Her Face

foto © Andrea Macchia

Thomas Adès, Powder Her Face

Torino, Piccolo Regio, 10 marzo 2023

La recensione di Orlando Perera dello spettacolo al Piccolo Regio

La vita è ades

Tutto ruota attorno alla scena quarta, nella quale la focosa Duchessa di Argyll in un grande albergo londinese intrattiene l’elettricista/cameriere nella postura erotica che, per capirci, fece irruzione sulla scena mondiale nel 1998 con il caso Clinton-Lewinski alla Casa Bianca. Il bello è che questa attività oralmente impegnativa deve essere cantata, «Be good, be discret, be brutal», geme la duchessa mentre «goes off into humming» che si può tradurre come “mormorare” o anche “cantare a bocca chiusa”: appunto. Come non ricordare l’epica scena della tabaccaia nel felliniano Amarcord: «Ma cosa fai soffi? Succhia!». Ma tant’è, la fama si costruisce sull’anomalo, se no sai che noia.

Grasse risate hanno accompagnato fin dagli esordi Powder her Face (Incipriale il viso) titolo di scostumato doppio senso (1), la deliziosa operina di Thomas Adès, tecnicamente una conversation piece, che giunge al Piccolo Regio come la luce di una stella morta, nel senso che era presente nel primo cartellone concepito nel 2019 dall’allora sovrintendente del Regio Sebastian Schwarz e annullato poi causa Covid. Ritorna quindi in quest’ultima stagione firmata dallo stesso Schwarz, stavolta come direttore artistico, nel frattempo dimissionato. Insomma il dono di qualcuno che non c’è più, o meglio, che ha solo – grazie al cielo – imboccato altre strade.

Powder Her Face (1995) è la prima opera del londinese Adès, classe 1971, nome di origine siro-ebraica, astro ben vivo nel firmamento dei compositori contemporanei. Nel 2004 è seguita una shakespeariana The Tempest in scena nel novembre scorso alla Scala di Milano con notevole successo. Infine The Exterminating Angel, ovvero L’Angelo Sterminatore dall’omonimo film di Luis Buñuel, opera che ha esordito nel 2016 al Festival di Salisburgo, ma che da noi non si è ancora vista. Affascinante anche la sua produzione strumentale. 

Qui Adès e il librettista Philip Hensher (un capolavoro di humor il suo articolo pubblicato dal Guardian nel 2008, e riportato nel programma di sala, dove spiega perché non abbia mai scritto altri libretti) non hanno scomodato nessun grande autore, solo i titoli di uno scandalo sessuale che alla metà degli anni Cinquanta scosse l’establishment aristocratico della capitale inglese e aumentò a dismisura le tirature dei tabloid. E’ la storia vera di una signora assatanata, Ethel Margaret Whigham, divenuta in secondo matrimonio duchessa d’Argyll perché moglie del nobile scozzese Ian Douglas Campbell, undicesimo duca omonimo. Una delle donne più belle ed eleganti di Londra, si diceva, e altrettanto sessualmente sfrenata, il suo bagno rivestito di specchi era una sorta di set erotico-pornografico. Ma tanto lei era libera e vitale, quanto lui brutto, squattrinato e mascalzone, ancorché charmant. E qui irrompe il tema iniziale della fellatio sotto forma di quattro scatti polaroid (tecnica oggi dimenticata, ma allora d’avanguardia) databili alla metà degli anni ‘50. Vestita con tre giri di perle e nient’altro, la bella signora vi appare inginocchiata ad appagare oralmente un uomo, di cui non si vede il volto. Poi verrà fuori che si trattava probabilmente di Edwin Duncan Sandys, uomo politico, ex-genero di Winston Churchill, nientemeno. Le quattro immagini saranno allegate all’elenco di ottantotto amanti, tra cui due ministri e tre membri della casa reale, tratto dall’agenda della Duchessa, e formeranno la prova regina per la causa di divorzio con addebito, che lo squallido Duca intenta alla ex-moglie per spremerle un bel po’ di soldi. Qualcuno dice che tra i moventi di tanto astio ci fosse anche la gelosia per un amante (Campbell era in odore di gaytudine) che la moglie gli avrebbe soffiato.

L’inevitabile sentenza di condanna porterà Margaret alla rovina economica, ma anche alla gogna sociale. Mai e poi mai la società ipocrita e maschilista del tempo avrebbe permesso a una donna di rivendicare pubblicamente la propria libertà di azione e di pensiero. Le foto oscene e l’elenco di amanti degno del catalogo di Leporello sulle conquiste di Don Giovanni sono la melma in cui gli spietati tabloid inglesi inzupperanno il pane per mesi facendo a pezzi la povera duchessa. Che tuttavia mai rinnegò le proprie scelte, mai cessò di rivendicare il suo stile di vita mondano e gaudente. Finiti i denari, fu cacciata dall’hotel dove viveva, e morì pochi anni dopo in una miserabile casa di cura. Dunque sotto la chiave lieve della farsa e dell’humor, Powder Her Face va letto anche come un atto di accusa contro la cosiddetta alta società inglese. Oggi che tutto sembra lecito pur di apparire, si fa persino fatica a comprendere il senso del moralismo di allora. Non dimentichiamo però che negli stessi anni, l’Inghilterra era scossa dallo scandalo Profumo, il ministro della difesa che frequentava la modella Christine Keeler, già amante di un diplomatico sovietico. Insomma un vero calderone, e infatti la partitura adesiana ribolle di vita, come scrisse il Sunday Times. Del resto quando andò in scena Adès aveva solo 24 anni, il librettista Hensher 30. 

La vicenda si articola in otto scene, cinque nel primo atto, tre nel secondo, ognuna delle quali si svolge in un anno diverso tra il 1934 e il 1990, ma la drammaturgia non osserva l’ordine cronologico, gli eventi si sviluppano per giustapposizione, non in sequenza, e la partitura spazia, anch’essa con morbida disinvoltura, tra i generi e le epoche, dal fox-trot al tango, alla canzone You’re the Top che Cole Porter dedicò alla signora. Evidenti ispiratori del duo Adès/Hensher la viziosa Lulu di Alban Berg e The Rake’s Progress di Igor Stravinskij. Ma le ridotte dimensioni di organico rimandano a tutto un ricco ma poco rappresentato repertorio cameristico dell’opera, dal Giro di Vite di Britten, a Hin Und Zurück di Hindemith, alla stessa Scuola dei Gelosi di Salieri vista al Regio nel maggio 2022. Tutto sprigiona energia, a partire dall’indiavolata ouverture, dove il tempo indicato è un programmatico “Avanti!”. Quindici soli esecutori, ma una strumentazione lussureggiante: un quintetto d’archi, tre clarinetti, che alternano anche i sassofoni, corno, tromba e trombone, modulati da varie sordine, arpa, pianoforte (anche preparato), fisarmonica, e un vasto set di percussioni. Non bastasse, si aggiungono strumenti imprevedibili, come mulinelli da pesca e campanelli elettrici. Alla guida degli strumentisti del Regio in questo percorso impervio l’appena 23enne novarese Riccardo Bisatti, che ne esce benissimo, con un gesto tanto intenso, quanto preciso, e un fine ammiccamento qua e là allo stile del cinema muto, sempre ispirato a una sorvegliata ironia. Grandioso il tango finale alla Piazzolla, in cui la farsa stinge mirabilmente in tragedia senza quasi che ce ne accorgiamo, salvo riconoscere con una vaga inquietudine due fugaci citazioni dal quartetto schubertiano “La Morte e la Fanciulla”, e capire che siamo di fronte alla Nera Signora. Il bello di Bisatti è che non perde mai, in nessun passaggio, un profondo senso del teatro, che ci aspettiamo di apprezzare anche in prossime prove del giovanissimo direttore.

Il cast, sempre all’insegna della massima economia di mezzi, prevede quattro cantanti per diciassette personaggi. Un soprano drammatico (la Duchessa), un soprano leggero con registro molto acuto, quasi di coloratura, che interpreta la cameriera più altri cinque personaggi femminili, un tenore (il fatidico elettricista, più altri quattro), un basso (direttore dell’Hotel più altri quattro). Tutti apprezzabili i cantanti, soprattutto considerando la particolarità dei registri e dei colori richiesti. Il soprano Irina Bogdanova, appena apprezzata come Sacerdotessa nell’Aida, dal bel timbro caldo, conferisce piena dignità, e dunque un’inattesa moralità, al personaggio sfrenato della Duchessa, e per sua fortuna non deve occuparsi di altro. Amélie Hois soprano lirico leggero deve invece affrontare ben sei personaggi, La cameriera, L’amica, La cameriera che prepara il ricevimento, L’amante del Duca, La ficcanaso, La giornalista di cronaca rosa), ma soprattutto un’insidiosa tessitura sovracuta, in cui si disimpegna onorevolmente. Il tenore Thomas Cilluffo (L’elettricista, Il gigolò, Il cameriere, Il ficcanaso, Il fattorino) si destreggia a sua volta fra psicologie molto diverse, anche lui con frequenti escursioni nella voce di testa. Tutti e tre fanno parte degli Artisti del Regio Ensemble. Infine il basso Lorenzo Mazzucchelli (Il direttore dell’hotel, Il Duca, L’addetto alla lavanderia, Un ospite dell’hotel, Il giudice), emerge in particolare, grazie anche a una vigorosa presenza scenica, nel secondo atto, come Giudice che detta alla Duchessa la sentenza di condanna senza appello, e come Direttore dell’Albergo che la sfratta in maniera altrettanto ineluttabile, con un timbro profondo da divinità infernale: «It is time to vacate… Everything is spent, madam… and now you must go» (È tempo di liberare la stanza. Avete speso tutto, signora. Ora dovete andarvene).

All’altezza della complessa macchina narrativa e musicale è la regia di Paolo Vettori, che governa con lucidità i continui slittamenti dei piani narrativi e temporali per ricondurre tutto a una superiore dimensione simbolica e allontanare così ogni sospetto di feuilleton. Molto efficace l’apparizione finale del Direttore in minacciosa silhouette, citando il Commendatore del Don Giovanni. Gli danno una bella mano (ma si vede che hanno lavorato di concerto) le scene di Claudia Boasso, un grande letto matrimoniale luogo di piaceri sfrenati, che si disgrega pian piano e si muta alla fine in banco del tribunale, in desolato sfondo della disperazione. Infine vanno segnalate le pareti grigie che aprendosi svelano immagini di nudi, scatti fotografici di Carlo Mollino, l’Architetto del Teatro Regio cui si rende così omaggio a cinquant’anni dall’inaugurazione del nuovo teatro. 

Uno spettacolo vitalissimo, di impressionante attualità, minuziosamente eseguito e curato, di grande musica.

(1) Sul programma di sala il librettista Philip Hensher, intervistato da Benedetta Saglietti, afferma che l’ispirazione per il titolo era venuta dal quadro di Georges Seurat Jeune femme se poudrant (1890) ora alla Courtauld Gallery di Londra, ma ciò non toglie che il titolo abbia volutamente un doppio (se non triplo) significato nel contesto della vicenda. [N.d.R.]