Contemporanea

Shirine

Thierry Escaich, Shirine

★★★★☆

Lione, Opéra Nouvel, 2 maggio 2022

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Le mille e una notte a Lione: prima mondiale di Shirine

Di Thierry Escaich nove anni fa l’Opéra de Lyon aveva presentato la sua prima opera, Claude. È la volta ora di una nuova creazione per il teatro dell’organista e compositore francese. Previsto per il 2020, a causa della pandemia il debutto è slittato di due anni. Nel frattempo nel marzo 2021 a Parigi, al Théâtre des Champs-Élysées chiuso al pubblico era stato presentato Point d’Orgue, un pendant de La voix humaine di Poulenc, con cui è stato abbinato, su libretto e messa in scena di Olivier Py.

Dopo l’inferno carcerario del racconto di Hugo e la claustrofobia della stanza di Elle, la vicenda di Shirine si apre ai paesaggi delle leggende orientali e le note di Escaich si vestono dei colori della musica iraniana tradizionale. Su testo dello scrittore franco-afgano Atiq Rahimi e in dodici quadri, narra degli amori impossibili della principessa cristiana d’Armenia Širin e del re di Persia Ḵosrow, vicenda tratta da un racconto persiano del XII secolo di Neẓāmi Ganjavi, coevo alla narrazione di Tristano e Isotta, un’altra sfortunata coppia di amanti.

Dopo il preludio col coro e i cantastorie Nakissâ e Bârbad, appare la scena del bagno di Shirine, sorpresa dal principe Khosrow, che è subitamente affascinato dalla sua bellezza. Quadro I. Il principe Khosrow racconta al suo amico, il pittore Chapour, la sua gioia e gli chiede non solo di trovare la bella principessa d’Armenia, ma di farla innamorare di lui. Quadro II. Nel giardino del palazzo di Shirine, c’è gioia e gioco. Shirine, la più vivace, nota un quadro appeso ai rami di un albero di melograno. Si avvicina, ne è profondamente commossa e non riesce a staccarsene, chiedendosi di chi sia e chi rappresenti. Nessuno lo sa. Chapour, travestito da mendicante, si presenta come l’autore del ritratto del principe Khosrow, che le descrive con grandi lodi ed entusiasmo, così come la sua passione per lei. Shirine chiede a Chapour come raggiungere il principe e lui le consiglia di farlo prima che arrivi Chamira, la sovrana dell’Armenia e zia di Shirine, che interroga la nipote sulla sua eccitazione. Shirine la rassicura e la avverte che l’indomani partirà per la caccia con il suo cavallo preferito Chabdiz; in realtà vuole trovare il principe Khosrow a Madaïn. Quadro III. Due messaggeri del padre, il re Hormoz, arrivano al palazzo di Khosrow a Madaïn. Le loro parole vengono riferite al principe da Nakissâ e Barbâd, e poi dal coro: il popolo è irritato dalla negligenza e arroganza del principe nei suoi confronti. Pur essendo l’unico erede della corona, il principe Khosrow viene bandito dal regno e si rifugia in Armenia dove spera di incontrare Shirine, che però è in viaggio per Madaïn. Gli amanti incrociano le loro strade una prima volta. Quadro IV. Khosrow sfoga il suo dolore di reietto e solitario con Chamira, che gli dice che Shirine è a Madaïn, nel gineceo del re Hormoz. Chamira lo trattiene, offrendogli un trono, un tesoro, un regno… e una regina. Chapour arriva ad annunciare la morte del re Hormoz: Khosrow è ora re di Persia e ha solo una cosa da fare: trovare Shirine. Chamira manda un messaggero a richiamare Shirine da lei. Gli amanti incrociano le loro strade per la seconda volta. Quadro V. Nel palazzo di Shamira, Shirine ascolta i suoi saggi consigli per usare moderazione nei confronti del principe. Un messaggero porta la notizia della sconfitta di Khosrow nella sua lotta contro l’usurpatore Bahrâm e del suo prossimo arrivo. Chamira si prepara ad accoglierlo con tutti gli onori, ma non si fa illusioni sul cuore di Khosrow. Quadro VI. In un’atmosfera festosa, i due amanti, finalmente ricongiunti, ballano fino all’alba. Chamira si è ritirata. Nel suo stato di ebbrezza, Khosrow cerca di abbracciare Shirine, che gli resiste ricordandogli la sua regalità caduta e gli ingiunge di riconquistarla. Colpito nell’orgoglio profondo, Khosrow la lascia. Oscurità. I cantastorie riportano la partenza di Khosrow verso Costantinopoli per chiedere l’appoggio dell’imperatore bizantino contro Bahrâm. L’imperatore gli concede la mano di sua figlia Maryam. Luce. Shirine assiste la zia morente che le dà le chiavi del regno. Quadro VII. Shirine, ora regina e doppiamente sofferente, sta morendo nel suo palazzo. Il suo regno sta appassendo. Chapour, inviato da Khosrow, le porta le condoglianze del re, ma anche gli omaggi della sua passione, invitandola a raggiungerlo in segreto. Shirine è arrabbiata e attacca violentemente Chapour e il suo padrone. Comprendendola, Chapour decide di restare con lei e, vista la stanchezza della regina, propone che l’architetto Farhâd venga da lei, per trapanare un canale che le porti il latte dagli altipiani lontani. Quadro VIII. Farhâd è al lavoro nella montagna di Bisoutoun. Shirine gli fa visita e lui si innamora immediatamente di lei. Dopo che lei gli offre i suoi gioielli, avviene un dolce scambio tra loro, finché la regina gli chiede di portarla in braccio alla pozza di latte che ha scavato nella montagna. Dopo la sua partenza, Farhâd scolpisce la roccia in sua effigie, quando arriva Khosrow. Geloso e curioso, interroga il suo ignaro rivale. Quando Khosrow se ne va, Farhâd torna al lavoro mentre Chapour, travestito, annuncia la morte di Shirine, che fa precipitare lo sventurato nel vuoto e nella morte. Quadro IX. Shirine è di nuovo in lutto. È molto irritata dalla lettera di condoglianze inviata da Khosrow, la cui moglie Maryam sta morendo. Quadro X. Il palazzo di Khosrow. Davanti alla bara di Maryam, il loro figlio addolorato Chiroya giura di vendicarla. Arriva Khosrow, seguito da Nakissâ che gli legge l’ambigua lettera di condoglianze di Shirine. Chiroya in preda alla rabbia strappa la lettera e litiga col padre che lo caccia dal palazzo. Quadro XI. Ai piedi della montagna Bisutoun: tre tende, una per Shirine, una per Khosrow e una per la riconciliazione. In un dibattito cortese, Khosrow e Shirine si rivolgono l’un l’altro attraverso i musici cantori e si avvicinano fino alla gioia della riunione sotto la terza tenda. Chiroya, in confusione, guarda la scena. Quadro XII, epilogo. Soli con Shirine nella loro stanza, o così credono – Chiroya sta ascoltando dietro una tenda – Khosrow racconta la sua preoccupazione per il figlio. Shirine lo calma e si ritira, mentre il re si addormenta. Chiroya ne approfitta per pugnalarlo. Al suo ritorno, Shirine scopre l’omicidio. Chiroya la trattiene e si offre di diventare suo. Shirine finge di essere d’accordo e chiede di poter dare l’ultimo saluto al re. Si inchina, e prendendo la spada di Chiroya, si uccide, poi striscia verso il corpo di Khosrow per un ultimo abbraccio. Chapour prima, poi i musicisti e il coro vengono a coprire con un lenzuolo bianco i corpi abbracciati dei due amanti, ormai entrati nell’eternità delle storie.

Escaich aveva inizialmente privilegiato nelle sue composizioni la produzione strumentale, ma negli ultimi lavori per il teatro è approdato a una scrittura vocale che raggiunge punte di edonismo in Shirine. Già nel preludio il trattamento delle voci si fa notare per originalità: i cantastorie Bârbad (basso-baritono) e Nakissâ (controtenore) ornano i loro interventi di melismi che prolungano le vibrazioni dell’orchestra. Il colore cambia da un quadro all’altro e ancora più sinuosi sono i vocalizzi di Shirine avvolti nelle note degli strumenti tradizionali del flauto nai, del duduk e del qânûn che si aggiungono a quelle di un’orchestra ricca di fiati (2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni), percussioni, arpa, pianoforte, oltre agli archi. La parola è inutile per descrivere tanta bellezza e il canto del principe Khosrow (tenore) si abbandona infatti a puri vocalismi alla visione del bagno nel lago della bella Shirine (soprano). Chapour, il personaggio manipolatore, è un baritono impegnato in un canto versatile fatto di insinuazioni, seduzioni, lusinghe, minacce, che mescola il parlato, il declamato e lo Sprechgesang. Il coro ha un ruolo preponderante e come nella tragedia antica osserva e commenta l’azione assieme ai due narratori che si presentano all’inizio per aprire il libro e alla fine per richiuderlo. Le voci sono sempre in primo piano e l’orchestra rimane trasparente anche nei momenti più drammatici accompagnati da ritmi ostinati e meccanici. Gli strumenti orientali tessono le loro volute delicate assieme agli archi spesso divisi o trattati solisticamente. Tremoli, uso della sordina, figure leggere, vibrazioni impalpabili dei timpani, la partitura di Shirine sfoggia una tavolozza di toni trascoloranti e vibratili. Tutto questo è ben reso dal maestro concertatore Franck Ollu, specialista della musica francese e contemporanea di cui ha presentato numerose prime mondiali. A capo dell’orchestra del teatro dipana i suoni iridescenti della musica di Escaich lasciando spazio agli interventi vocali di una distribuzione di eccellenza che vede nella parte della protagonista Jeanne Gérard, cantante dal timbro particolare ed espressivo. Tutto un gioco di riflessi, apparizioni e sparizioni, la donna dalla «beauté de féérie» esce ed entra nei sogni degli uomini con l’eleganza di una miniatura persiana, eleganza che ritroviamo nella bella presenza scenica del soprano francese. I trasporti erotici del «prince des plaisirs» sono affidati all’impeccabile fraseggio di Julien Behr. Il suo Khosrow è ardente, impetuoso, suscettibile, aspetti che il cantante sottolinea con eleganza e sensibilità unite alla bellezza di emissione tipica della scuola tenorile francese. Jean-Sébastian Bou, che aveva già interpretato Claude, offre la sua solida presenza al personaggio più complesso della vicenda, il pittore Chapour, risolto con la professionalità che da sempre ammiriamo nel baritono francese. Ottimi sono i rimanenti numerosi interpreti: i due cantastorie, il bravissimo controtenore Théophile Alexandre (Nakissâ) e l’autorevole Laurent Alvaro (Bârbad, che fu il più importante musico alla corte di Khosrow); Majdouline Zerari (Chamira, regina senza sposo, grande dame dell’epoca); Florent Karrer (Farhâd) e Stephen Mills (Chiroya, il figlio orfano chiuso nella sua rabbia non sopita). Il re Hormoz e la figlia Maryam sono personaggi muti.

Nella messa in scena di Richard Brunel, il nuovo direttore dell’Opera di Lione, non troviamo elementi favolistici orientaleggianti: la terra e le sterpaglie del deserto contornano la scenografia di Étienne Pluss, dominata da una struttura su piattaforma girevole che rende con efficacia i vari ambienti in cui si dipana la vicenda, un’azione che procede per sguardi più che per dialoghi: il principe spia la nudità della donna, lei è stregata dal suo ritratto, il ragazzo spia i due amanti… Il testo molto poetico e letterario di Rahimi offre pochi spazi alla drammaturgia ed ecco quindi che le pareti bianche diventano schermi su cui proiettare belle immagini di miniature persiane, il ritratto fascinoso del principe, i dettagli dell’ultimo incontro e della morte degli amanti. All’inizio si era anche vista l’immagine di una donna dalle labbra cucite. Particolarmente suggestivo per le luci di Henning Streck è l’ingresso avvolto nella nebbia dello scultore Farhâd su un costone di montagna in cui è scolpito un cavallo. Appropriati si sono rivelati i costumi di Wojciech Dziedzic e le sobrie  coreografie di Hervé Chaussard.

Lo spettacolo è stato caldamente applaudito da una sala strapiena in ogni ordine di posti da un pubblico molto giovane. Ma non si trattava delle solite scolaresche cooptate dagli insegnanti: un terzo dei frequentatori dell’Opéra de Lyon ha meno di trent’anni, mi è stato riferito.

Sleepless

foto © Magali Dougados – Grand Théâtre de Genève

Peter Eötvös, Sleepless

★★★☆☆

Genève, Grand Théâtre, 29 mars 2022

 Qui la versione italiana

Bonnie & Clyde dans les fjords

Une rencontre entre un écrivain norvégien et un compositeur hongrois : c’est Sleepless de Peter Eötvös. Coproduit par le Grand Théâtre de Genève et la Staatsoper Unter den Linden de Berlin, où il a été présenté en novembre dernier, cet opéra-ballade sur un livret écrit par son épouse Mari Mezei est basé sur Trilogie, recueil de nouvelles de Jon Fosse paru en 2014 : “Insomnie”, “Les rêves d’Olav”, “A la tombée de la nuit”.

Entre ballade – une histoire intemporelle racontée par un narrateur – et cinéma, l’œuvre d’Eötvös est divisée en deux actes composés de 12 scènes et d’un épilogue dans lesquels il raconte l’histoire d’un jeune couple d’adolescents, Alida et Asle, qui s’enfuient de chez eux parce que la jeune fille  attend un enfant mais qu’ils n’ont pas l’âge de se marier…

la suite sur premiereloge-opera.com

Sleepless

foto © Magali Dougados – Grand Théâtre de Genève

Peter Eötvös, Sleepless

Ginevra, Grand Théâtre, 29 marzo 2022

★★★☆☆

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Bonnie & Clyde tra i fiordi

Incontro tra uno scrittore norvegese e un compositore ungherese: questo è Sleepless di Peter Eötvös. Coproduzione tra il Grand Théâtre di Ginevra e la Staatsoper Unter den Linden di Berlino, dove è andata in scena nel novembre scorso, questa opéra-ballade su un libretto scritto dalla moglie Mari Mezei si basa su Trilogien, una raccolta di racconti del 2014 di Jon Fosse: Andvake (Insonnia), Olavs draumar (I sogni di Olav), Kveldsvævd (Spossatezza).

Tra ballata – vicenda senza tempo narrata da una voce narrante – e cinema, l’opera di Eötvös si divide in due atti composti da 12 scene e un epilogo in cui si narra di una coppia di giovani poco più che adolescenti, Alida e Asle, fuggiti da casa perché lei aspetta un figlio ma non hanno l’età per potersi sposare.

Atto primo. Scena 1 (in si). Nel freddo dell’autunno norvegese la giovane Alida, in avanzato stato di gravidanza, aspetta il suo compagno Asle in una rimessa per barche. I due adolescenti sono fuggiti dalle loro famiglie perché sono troppo giovani per sposarsi. La loro unica ricchezza è il violino del padre Sigvald. Non possono restare nella baracca che il proprietario rivuole recuperare e devono cercare urgentemente un nuovo rifugio. Scena 2 (in fa). La madre di Alida rifiuta di ospitarli ma controvoglia lascia che passino lì la notte. Asle propone ad Alida di andare a Biørgvin, un villaggio dal clima più clemente. Ma come fare senza soldi? Asle assicura Alida e va a prendere la barca vicina alla baracca. Al ritorno Asle è bagnato ma chiede alla ragazza di seguirlo per andare via. Arriva la madre furiosa che accusa la figlia di averle rubato denaro e cibo. Asle la difende e la fa uscire prima di raggiungerla. Partono in barca per Biørgvin. Scena 3 (in fa#). Al loro arrivo Biørgvin non ha nulla del porto che i due giovani si immaginavano. Né i pescatori né la bionda prostituta, che accoglierebbe volentieri Asle ma non Alida, né alcun altro abitante offre loro un rifugio. In quanto al taverniere, ha sì una camera, ma lo sguardo insistente su Alida li spinge a rifiutare l’offerta. Ritornano allora a bussare alla porta di una vecchia che ha loro rifiutato asilo. Scena 4 (in do). Di fronte agli insulti che ricevono, Asle entra con forza nella casa e vi si sistema con Alida, ma non riesce a dormire e Alida incomincia ad avere le contrazioni. Uscito nella notte, Asle incontra un uomo in nero e tutti e due ritornano accompagnati da una levatrice. Scena 5 (in do#). L’uomo in nero si stupisce di non vedere la vecchia nella sua casa. Alida dà alla luce un bambino, Sigvald, il nome del nonno. Asle è nervoso, si sente osservato. Allora vende il violino e si rimettono per strada. Scena 6. (in sol). Duetto di Alida e Asle.
Atto secondo. Scena 7 (in sol#). Asle incontra di nuovo l’uomo in nero, quello che l’aveva aiutato a trovare la levatrice. Questi ha qualcosa da dirgli ma Asle non lo vuole ascoltare ed entra nella taverna. L’uomo in nero lo segue minaccioso. Nella taverna Asl incontra un uomo che gli racconta come si è arricchito grazie alla pesca – e con i soldi guadagnati ha comperato un braccialetto – e gli domanda da dove viene. Da Vika, risponde Asle, ma l’uomo in nero, sempre in agguato, dice che mente, che è di Dylja dove il proprietario di una rimessa per le barche e una donna sono stati selvaggiamente assassinati di recente. Per cambiare discorso Asle chiede al pescatore di portarlo dal gioielliere: vuole comperare un anello per Alida così che tutti penseranno siano marito e moglie. Scena 8 (in re). Asle spende i soldi del violino dal gioielliere per acquistare anche lui un braccialetto e non l’anello. Scena 9 (in re#). Uscendo incontra la ragazza bionda che cerca nuovamente di irretirlo. Quando tenta di svincolarsi dal suo abbraccio ricompare l’uomo in nero che lo accusa di voler abusare della figlia e lo fa arrestare. Scena 10 (in la). Sola con il suo bambino Alida ha un soliloquio nella cucina. Scena 11 (in la#). Tutto il paese si riunisce per vedere l’esecuzione di Asle. Scena 12 (in mi). Per strada Alida viene avvicinata da un certo Asleik che racconta di averla conosciuta da piccola e la porta a mangiare nella taverna. Le propone poi di ricondurla a Dylgja e le dice che Asle è stato impiccato. Alida accetta e trova per strada il braccialetto: la voce di Asle la rassicura che sarà sempre vicino a lei e al bambino e che Asleik si prenderà cura di lei. Epilogo (in si). Molti anni dopo. Alida è invecchiata e racconta la sua vita al fantasma di Asle: ha sposato Asleik e vive a Vika in una casa vicino al mare. Il figlio Sigvald è diventato un violinista e ha lasciato per sempre casa. Quello che vuole Alida è di riunirsi con Asle, entra nell’acqua e le onde si chiudono su di lei.

Il tema del sonno, o meglio della sua privazione, domina nei tre racconti, come evidenziato dai titoli, e la parola sleep è la più frequente nel libretto. Nella loro fuga da un posto all’altro non c’è tempo per dormire e mentre la figura di Alida è sostanzialmente passiva, anche a causa della sua gravidanza, il vero motore dell’azione è Asle, che i guai se li va a cercare con giovanile incoscienza, tanto che la loro storia può essere condensata nel nome della barca che Asle ruba per attraversare il fiordo: “Here Comes Trouble”.

La suddivisione in dodici scene ha suggerito al compositore una struttura musicale molto precisa: Eötvös costruisce le scene sui dodici toni cromatici, che attestano non tanto la tonalità, quanto piuttosto il colore di base. Si parte dunque dalla prima scena sulla riva del mare, la cui atmosfera calma è suggerita dal si naturale, mentre la seconda scena, in cui ci sono già due morti, è costruita sulla tonalità opposta, il fa, tre toni sopra. La terza avanza di mezzo tono, fa diesis. Nella quarta domina il do, e così via, alternando tritoni e mezzi toni fino all’ultima scena, l’epilogo, nuovamente in si. Il ciclo è così completato. All’ascolto le scene sono quindi contraddistinte da una musica dai colori sempre diversi. I suoni sono deformati nelle scene della taverna con i chiassosi marinai e la tensione sale alla nascita del piccolo Sigvald per raggiungere il culmine all’impiccagione di Asle. La strumentazione di Sleepless è molto ricca e le armonie sempre cangianti. Nei momenti più nostalgici affiora la sonorità del violino hardanger, la versione a otto corde, strumento che dà il tono nordico all’ambientazione – come aveva fatto Howard Shore per la colonna sonora della saga cinematografica di The Lord of the Rings.

Chi meglio del compositore poteva gestire le particolarità di questa partitura? E infatti, alla guida dell’Orchestre de la Suisse Romande c’è lo stesso Peter Eötvös. Nato in Transilvania nel 1944, da sempre alterna l’attività di direttore con quella di compositore. Collaboratore di Karlheinz Stockhausen e Pierre Boulez, conobbe il suo primo successo nel 1986 con Chinese Opera per orchestra da camera e percussioni, mentre Tre sorelle è una delle opere contemporanee più eseguite al mondo. La musica di questo suo tredicesimo lavoro per il teatro è ricca e teatrale, mai troppo violenta o dissonante, ricca di percussioni si spegne col suono del violino che qui è quasi un altro personaggio.

Nell’opera contemporanea non sempre è risolto il problema della vocalità: mentre negli strumenti la ricerca di nuove sonorità è sempre presente, per quanto riguarda le voci non c’è altrettanta ricerca e i compositori si rifugiano in un declamato che spesso risulta più anonimo della musica che lo accompagna. Qui Eötvös è l’eccezione, anche se solo nei personaggi femminili: i vocalizzi e il registro acuto della prostituta, il lirismo di Alida, i canti delle “sirene” fuori scena apportano il loro contributo alla ridefinizione della voce nell’opera d’oggi. Meno interessanti invece, a livello vocale, gli interventi maschili, anche se il tenore olandese Linard Vrielink definisce con una sicura linea di canto il personaggio di Asle, con i suoi astratti furori, gli “incidenti” di percorso e la tragica fine. Vocalmente più complessa la parte di Alida, il bravo soprano norvegese Victoria Randem, la prima voce che ascoltiamo ad apertura del sipario e l’ultima nella scena d’epilogo, quando vecchia racconta allo spirito del compagno morto del figlio che, anche lui violinista, ha lasciato il paese. Poi entra nel mare e si ricongiunge così con l’amato Asle. Sarah Defrise è la Ragazza bionda che bazzica coi marinai. La sua performance vocale è altrettanto disinibita, con colorature e agilità acute efficacemente realizzate. In un glorioso cammeo la mitica Hanna Schwarz fornisce un surplus di drammaticità alla parte della Vecchia signora e l’Uomo in nero ha in Tómas Tómasson un interprete di grande autorevolezza. L’ossessione dell’autore per il numero dodici e i suoi divisori si riflette anche nelle dodici voci che, come nel coro greco, commentano la storia e danno consigli: sei sono i marinai, l’universo maschile di Asle, sei le voci femminili fuori scena, i pensieri di Alida. Tre sono anche i corni e tre i clarinetti in orchestra.

Ungherese è anche Kornél Mundruczó, attore, regista di teatro e di cinema, che si occupa della messa in scena dello spettacolo. Assieme alla scenografa Monika Pormale, che disegna anche i costumi, crea uno spazio a metà tra iperrealismo e surrealismo, dove un enorme salmone funge da ambientazione: la parte convessa, con le scaglie, gli esterni; la parte concava, con le interiora e la lisca, gli interni. Sempre minaccioso è il grande occhio vitreo. Senza rifugiarsi in un incongruo astrattismo, la scelta di Mundruczó sembra la più coerente col mondo narrativo di Fosse, in equilibrio tra concretezza e favola. Il regista ha spesso trattato nei suoi film situazioni di individui ai margini della società come il personaggio di Asle, figlio di una famiglia disfunzionale e di una società che l’ha rifiutato. Lo stesso è per Alida e il regista ce lo mostra molto chiaramente con la figura della madre, anch’essa messa al bando dalla società. Cionondimeno non si riesce a provare molta empatia per questi personaggi, soprattutto per Asle, comunque un pluriomicida. Se la parabola di Asle e Alida ha le reminiscenze religiose di Maria e Giuseppe, è però più la vicenda della coppia di assassini Bonnie e Clyde che viene alla mente.

Lo spettacolo è stato seguito con attenzione da un folto pubblico che ha applaudito con calore tutti gli artisti.

Tres sombreros de copa

Ricardo Llorca, Tres sombreros de copa

Madrid, Teatro de la Zarzuela, 27 novembre 2019

★★★☆☆

(registrazione video)

La zarzuela del XXI secolo

Tres sombreros de copa (Tre cappelli a cilindro), presentato il 26 novembre 2017 al Teatro Cardoso di São Paulo, è l’ultimo lavoro per le scene di Ricardo Llorca, compositore nato ad Alicante nel 1958. Basato sull’opera omonima del 1932 di Miguel Mihura, conserva il tono della fonte letteraria, un pezzo di teatro dell’assurdo. La vicenda, raccontata dal compositore, è piena di risvolti surreali nei personaggi e nelle situazioni.

Il sipario si alza e, mentre la musica sfuma, vediamo la stanza di un hotel di seconda classe in una capitale di provincia nel nord della Spagna. L’anno è il 1932. Dionisio e Don Rosario, il proprietario dell’hotel, entrano in scena. Dionisio indossa un cappello, un cappotto, una sciarpa e porta una cappelliera. Dionisio e Don Rosario intraprendono una conversazione in cui parlano delle luci che si vedono dal balcone della stanza e del futuro matrimonio di Dionisio. Don Rosario ricorda con tristezza un figlio deceduto che fece “pin” e cadde in un pozzo. Aria di Don Rosario. Don Rosario dà la buonanotte a Dionisio. Rimasto solo, Dionisio si diverte a giocare con i cappelli a cilindro che ha preparato per il suo matrimonio. Nel mezzo del gioco, Paula entra dall’altra porta, bloccando la strada di Buby. Ognuno di loro da un lato della porta si impegna in una discussione. Scena della lotta. Quando smettono di litigare, Paula scopre di non essere sola e inizia un interrogatorio sulla vita di Dionisio, capendo che è un collega professionista che si esibirà come loro nel circo il giorno dopo. Paula spiega a Dionisio che lavora come ballerina nel circo. Valzer della ballerina. Alla fine entra Buby e ne consegue una conversazione tra i tre. Paula decide da sola che la stanza di Dionisio sarebbe perfetta per una festa serale con il resto della troupe del circo. Paula e Buby se ne vanno e Dionisio, una volta solo, si mette a letto aiutato da Don Rosario, che è tornato nella stanza per suonare una ninna nanna con la sua tromba e ottenere così che Dionisio si addorment. Nocturno e Ninna nanna. In piedi davanti a Dionisio ma con le spalle al pubblico, Don Rosario suona la tromba, completamente assorbito dalla sua arte. Le luci si spengono ma rimane una luce fioca che mette in evidenza Dionisio, che si è addormentato con il suo cappello a cilindro. Un’altra luce illumina la stanza dalla porta a sinistra, che è stata lasciata aperta e dalla quale la troupe del circo entrerà lentamente nella stanza di Dionisio portando bottiglie di vino, whisky, gin, lattine e borse di cibo, pacchetti di sigarette, ecc. Dionisio, che dormiva a letto con il suo cappello a cilindro, viene svegliato dalla folla inaspettata che si diverte nella sua stanza. Dionisio è pronto a raggiungere i suoi nuovi amici, una volta che si è ripreso dallo shock iniziale. La porta a sinistra rimarrà aperta e i personaggi entrano ed escono con assoluta familiarità. Una volta finita la ninna nanna sentiremo la musica di un pianoforte che suona un Charleston. Scena del Charleston. La folla – compresi Dionisio e Paula – inizierà a ballare. Tra loro ci sarà un gran numero di personaggi del circo che si esibiscono in un coro assurdo e straordinario. Quando il piano inizia a suonare sentiremo la gente parlare, le bottiglie che vengono aperte e il tipico rumore che si sente in una grande festa. Tutto il rumore scompare quando Valentina e l’Anziano Militare – e più tardi Catalina e il Cacciatore Astuto – iniziano il loro dialoghi. Valentina balla con l’anziano militare il cui petto è coperto di medaglie. Più tardi, Catalina apparirà ballando con il Cacciatore Astuto, che ha quattro conigli appesi alla cintura, ognuno con una piccola etichetta del prezzo. Valentina e l’anziano militare entreranno per primi, conversando mentre ballano. Una volta finito il charleston, Buby e Paula scoprono l’inganno del pubblico: il litigio tra i due è stato simulato per cercare di ingannare l’ospite nella stanza accanto, un tentativo a cui rinunciano quando si rendono conto che si tratta di un collega professionista in una situazione simile alla loro. Improvvisamente appare un maestro di cerimonie che annuncia a gran voce l’apparizione della grande star dello spettacolo: Madame Olga . Le tarantelle di Madame Olga. A un certo punto Paula e Dionisio si ritrovano soli. Paula vede in Dionisio il compagno non ancora rovinato dalla sordidezza dell’ambiente con cui può fuggire. Paula e Dionisio si abbracciano e si baciano. Aria di Dionisio. . Attraverso la porta a sinistra appaiono tutti i membri del circo, portando bottiglie e formando una conga line, bevendo e facendo molto rumore. In quel momento, Buby entra in scena colpendo Paula sulla testa, lasciandola distesa sul pavimento priva di sensi. Dionisio raccoglie Paula da terra nello stesso momento in cui appare Don Sacramento, il futuro suocero di Dionisio. Quando Don Sacramento arriva, Dionisio nasconde Paula, svenuta, dietro il letto. Don Sacramento accusa Dionisio di essere un poco di buono, avvertendolo che deve essere una persona onorevole per sposare sua figlia Margarita. Aria di Don Sacramento. Mentre Don Sacramento se ne va, Paula emerge dal suo nascondiglio, ora cosciente e consapevole della vita di Dionisio. Scena finale. Don Rosario li interrompe e Paula si nasconde dietro un paravento. La carrozza dello sposo sta aspettando. Don Rosario e Dionisio escono. Paula esce dal suo nascondiglio. Si avvicina alla porta e guarda fuori. Poi corre verso il balcone e guarda di nuovo attraverso il vetro. Paula saluta dietro la finestra. Poi si volta indietro. Vede i tre cappelli a cilindro e li raccoglie… All’improvviso, proprio quando sembra che stia per diventare sentimentale, lancia i cappelli in aria e lancia il grido della pista da ballo: «Hoop!» Sorride, saluta il pubblico e cala il sipario.

Ecco, nelle parole dell’autore, la nascita della composizione: «Tres sombreros de copa mi ha richiesto tre anni di dedizione quasi totale, interrotti solo dal mio insegnamento e dal mio lavoro di compositore in residenza presso varie istituzioni americane. Io sono molto lento e ho bisogno di tempo e tranquillità per potermi concentrare. In altre parole, sono il tipo di compositore che scrive e il giorno dopo cancella tutto quello che ha scritto la sera prima, poi scrive qualcos’altro e lo cancella di nuovo, e così via per giorni e giorni, finché finalmente arrivo a comporre qualcosa di cui sono completamente convinto. La maggior parte degli interpreti che mi hanno commissionato dei lavori si sono disperati per quanto sia lento e meticoloso: non consegno mai un pezzo finché non ne sono completamente convinto e questo è quello che mi è successo con Tres sombreros de copa. Nel 2014, dopo la prima a São Paulo della mia opera Las horas vacías, la New York Opera Society mi ha offerto di scrivere una nuova opera da presentare in anteprima in Brasile durante la stagione 2017-2018. Prima di decidere ho letto diversi testi e alla fine ho scelto questo di Miguel Mihura, anche se fin dall’inizio mi sembrava impossibile tradurlo alla lettera in una zarzuela. Per questo motivo ho dovuto cambiare alcuni aspetti del testo originale per dare al lavoro un formato più lirico. Alcuni personaggi e situazioni sono stati rimossi o cambiati per renderli più accettabili alla sensibilità di oggi. Quello che nell’opera originale di Miguel Mihura era un gruppo di cabaret – il balletto di Buby Barton – nella mia opera è stato trasformato in un circo italiano in tournée nel nord della Spagna. Ho anche aggiunto altri personaggi per dare alla troupe del circo un aspetto più stravagante e dinamico: il ventriloquo Monsieur Garibaldi, suo figlio Peppino, i forzuti tedeschi, i clown e così via. Musicalmente, e dato che stiamo parlando di un circo italiano, ho usato come fonte di ispirazione tematica elementi tratti dalla musica del sud Italia. Inoltre ci sono elementi di musica circense e la fisarmonica è molto presente in tutto il lavoro. Ci sono anche assoli di tromba, molti ottoni e molte percussioni, qualcosa che è già una costante nel mio lavoro».

Oltre alla fisarmonica e alla tromba in scena c’è anche un violino in questa produzione che arriva per la prima volta in Spagna. La messa in scena, con alcuni momenti morti malgrado la vivacità dell’impianto, è di José Luis Arellano che utilizza una struttura su una doppia piattaforma rotante di Ricardo Sánchez Cuerda e con i costumi di Jesús Ruiz costruisce con efficacia l’ambiente felliniano in cui viene calata la vicenda.

Le 17 parti in cui è suddiviso il lavoro mescolano dialoghi e numeri musicali i quali si insinuano anche nel parlato che spesso è sulla musica. Lo stile eclettico, ma nello stesso tempo personale, del compositore è ben reso dalla bacchetta di Diego Martin-Etxebarria che sottolinea i modi antichi della scrittura di Llorca e la verve della sua musica che attinge a walzer, charleston, conga, tarantelle. Particolare è la vocalità, con uno sfoggio di agilità quasi belcantistiche non frequenti nell’opera d’oggi, in cui si confrontano gli interpreti Rocío Pérez (una vivacissima e trascinante Paula, quella con il ruolo vocalmente più impegnativo), Emilio Sánchez (Don Rosario), Jorge Rodríguez-Norton (lo stralunato Dionisio) e l’immancabile Enrique Viana, barbuta Madame Olga, che alterna vocalizzi a dialoghi, non dei più divertenti questa volta.

La proposta del Teatro de la Zarzuela è indubbiamente curiosa e interessante, ma l’opera di Llorca non si può certo definire coinvolgente con le sue lungaggini, la musica anche se ben costruita non memorabile e lo spettacolo non risolve le incertezze dell’opera.

La casa de Bernarda Alba

Miquel Ortega, La casa de Bernarda Alba

Madrid, Teatro de la Zarzuela, 18 novembre 2018

★★★☆☆

(registrazione video)

Messo in musica il «drama de mujeres» di Federico García Lorca

Questa volta la sala della Calle de Jovellanos non risuona dei temi così idiomatici della zarzuela o dell’operetta spagnola, bensì del dramma in musica che accompagna il lavoro scritto da Lorca nel giugno 1936, due mesi prima del suo assassinio, e andato in scena solo nel 1945 a Buenos Aires.

Questa è la storia di donne praticamente imprigionate da una madre prepotente e dura che le costringe le giovani a un lutto rigoroso per otto anni. Lo scrittore ha usato questa trama per criticare la religiosità soffocante, l’ipocrisia, la violenza, il desiderio represso, il controllo della sessualità femminile e la relegazione delle donne a uno status secondario: Bernarda Alba è rimasta vedova per la seconda volta all’età di 60 anni e decide di vivere i successivi otto anni nel lutto più rigoroso. Le cinque figlie di Bernarda – Angustias (39 anni), Magdalena (30), Amelia (27), Martirio (24) e Adela (20), la nonna María Josefa e due domestiche (una di 50 anni e l’altra, Poncia, di 60, la stessa età di Bernarda) vivono con lei. In tutto, otto donne.

Atto primo. La vicenda si apre con la morte del secondo marito di Bernarda Alba, Antonio María Benavides. La gente va a casa della vedova a fare le condoglianze, anche se a lei si dimostra insofferent enei loro riguardi. Le sorelle parlano dell’eredità che il padre ha lasciato loro: Angustias, la maggiore e figlia del primo marito, ha la parte più cospicua e ha anche la fortuna di essere corteggiata da Pepe el Romano, anche se lei ha 39 anni e lui 25 l esta dietro solo per i soldi. La madre impone alle figlie un rigoroso periodo di lutto di otto anni per la morte del padre, il che significa che devono ricamare e stare in casa il più a lungo possibile senza poter parlare con nessuno, tranne Angustias, perché il suo matrimonio è vicino. Adela, la figlia più giovane, libera la nonna, María Josefa, che è rinchiusa perché sta perdendo la testa. La povera donna affronta sua figlia Bernarda e le dice che vuole sposarsi per andarsene.
Atto secondo. Tutte le sorelle, tranne Adela, stanno preparando il corredo per il matrimonio di Angustias. Adela non dorme e dice di non sentirsi bene. Si dice che Pepe el Romano e Angustias si vedono al cancello e che lui torna a casa verso l’una e mezza di notte. Ma Poncia e Martirio sanno che parte più tardi. Più avanti, Angustias dice che una delle sorelle ha rubato una fotografia di Pepe che teneva sotto il cuscino: è stato Martirio. Dice che voleva fare uno scherzo a sua sorella. Ma Poncia sa che tra le figlie ci sono rancori passati e il desiderio mal indirizzato gioca brutti scherzi. Inoltre, Martirio è stata corteggiata da un ragazzo della famiglia Humanes, anche se la relazione è finita. L’atto si conclude quando una giovane ragazza del villaggio, che ha partorito senza essere sposata e ha ucciso il neonato, viene perseguitata e lapidata dalla gente. Adela è l’unica a chiedere clemenza per lei.
Atto terzo. È notte, Bernarda chiede ad Angustias di parlare con Martirio di quello che è successo con la fotografia in modo che possano fare pace. La figlia dice a sua madre che il suo ragazzo non verrà quella sera perché non è in città. Adela vuole stare fuori tutta la notte, affascinata dalle stelle, ma Bernarda manda tutte le figlie a letto. Le cameriere rimangono sveglie a parlare delle cose che sono successe nella casa fino a quando Adela le interrompe. Non si aspettava di trovarle sveglie, ma dice che ha sete. Esce nel cortile. Martirio la insegue e la chiama: Adela torna e la sorella urla per quello che scopre, ossia la sua tresca con Pepe el Romano. Questo scatena l’ira di Bernarda che cerca un fucile per uccidere l’uomo. Pensando che la madfre abbi aammazzato Pepe, Adela scappa e si chiude in una stanza e si suicida. Sua madre la vede e afferma che sua figlia è morta vergine.

Degli innumerevoli adattamenti in musica del dramma di Federico García Lorca, soprattutto balletti, questo è il primo come opera in spagnolo. Aribert Reimann aveva fatto una sua versione, Bernarda Albas Haus, su libretto in tedesco presentata a Monaco di Baviera nel 2000 mentre nel 2006 ebbe la prima a New York The House of Bernarda Alba di Michael John LaChiusa. È il compositore Miquel Ortega, nato a Barcellona nel 1963, a cimentarsi con questo testo preparatogli da Julio Ramos, giovane artista scomparso nel 1995. Ramos si è fedelmente attenuto al testo originale solo sopprimendo alcune scene e alcuni personaggi secondari.

La composizione ha avuto una lunga gestazione, come racconta l’autore: «La mia memoria non è così lontana da poter ricordare quando sono rimasto affascinato da Federico García Lorca. Ricordo che al liceo presi una copia de La casa di Bernarda Alba in un’edizione che ne conteneva un’ampia analisi. Avevo già composto qualche opera, se quello che facevo a quell’età poteva essere chiamato comporre, e l’idea di tradurre questo lavoro in musica mi ossessionava. Anni dopo, alla fine degli anni ’80, chiesi al mio librettista, Bruno Bruch, di scrivere un libretto adattato da Bernarda per trasformarlo in un’opera. Dopo qualche riluttanza accettò di intraprendere il lavoro di adattamento con dei cambiamenti, tra cui quello che il personaggio di María Josefa fosse interpretato da un’attrice. Bruno, un grande conoscitore del genere operistico, sapeva che c’erano precedenti in diverse opere classiche per personaggi parlati e riteneva che questo avesse una grande forza drammatica. Ero d’accordo con lui. A metà del 1991 Bruno aveva quasi tutto il libretto pronto e ho iniziato a metterlo in musica. Purtroppo, Bruno Bruch si ammalò gravemente e poco dopo aver iniziato la composizione del libretto morì nel 1995, quando ero solo a metà del secondo atto. Aveva 35 anni e, consapevole dell’avvicinarsi della sua fine, mi chiese di inserire nel libretto il suo vero nome, Julio Ramos, e non lo pseudonimo artistico con cui tutti lo conoscevamo. Ho finito la musica nel 1999, ma l’orchestrazione in una versione per orchestra sinfonica non avrebbe visto la luce fino alla metà del 2006, quando avevamo già in mano un progetto per la prima al Teatro dell’Opera di Brasov (Romania) nel dicembre 2007. La mia prima idea per l’orchestrazione di Bernarda fu di farla per orchestra da camera, seguendo l’esempio di Benjamin Britten in alcune delle sue opere, opere che già ammiravo all’epoca, ma dopo aver iniziato a lavorare in quel formato fui informato che c’era la possibilità, come ho detto, di presentarla in anteprima a Brasov e il teatro preferì usare l’intero organico sinfonico». L’opera arrivò in Spagna solo due anni dopo ai Festival di Santander e di Perelada.

Ora, al Teatro de la Zarzuela viene presentata nella versione per orchestra da camera, quella dell’idea originale, diretta da Rúben Fernández Aguirre. Il lavoro inizia in modo molto suggestivo, con il rintocco delle campane e le armonie cupe degli archi e dei legni che accompagnano i preparativi per la visita delle vicine cordoglianti, mentre fuori scena si sente la voce della vecchia María Josefa che chiama la figlia, inutilmente. Il pianoforte scandisce l’ingresso della vedova e delle figlie e il lamento iniziale della serva e del coro non è lontano dal carattere andaluso, ma subito dopo, l’intervento di Bernarda riporta lo stile vocale a un declamato neo-verista che non abbandonerà l’opera. L’impianto tonale non è messo in discussione se non in alcuni punti e si possono individuare vari Leitmotive tra cui quelli che appartengono a Bernarda: il primo quando appare per la prima volta sulla scena, il secondo è quello del suo potere nella casa, che appare poco dopo nella stessa scena, il terzo quello della crudeltà, che suonerà quando proclama la “sentenza” degli otto anni di lutto. Tre forme distinte sono anche quelle del motivo di Pepe el Romano, personaggio che non appare mai ma è onnipresente. C’è poi un motivo ansioso quasi sempre legato ad Adela e a Martirio: una specie di ostinato di note ripetute che salgono e scendono. Un altro motivo di carattere leggermente andaluso è quello della premonizione del dramma, breve, molto caratteristico, che viene quasi sempre suonato sul corno. Infine il tema, più che motivo, di María Josefa, molto melodico, che si muove in una progressione continua, occupando gran parte della scena finale del primo atto e un frammento del suo intervento nel terzo atto. Frequenti sono i momenti di danza inseriti nel flusso narrativo, soprattutto il tango, con il suo tono malinconico quando una delle figlie esprime la sua nostalgia per il mondo esterno.

Una particolarità di questa ripresa dell’opera è il ruolo vocale di Poncia, affidato a una voce maschile, un’idea particolarmente interessante e ben realizzata dal baritono Luis Cansino. Le rimanenti interpreti formano un insieme coeso ma ben differenziato: Nancy Fabiola Herrera, dai tratti del volto marcati da un’espressione di disgusto per la vita, sostiene con efficiacia scenica e vocale la parte di Bernarda; Carmen Romeu è una tormentata Adela; Carol García è Martirio; Marifé Nogales Amelia; Belén Elvira Magdalena; Berna Perlas Angustias, la figlia maggiore, e Milagros Martín la seconda serva. Nel ruolo parlato di Maria Josefa impone la sua forte presenza scenica Julieta Serrano, indimenticabile interprete dei film di Almodóvar.

La regia di Bárbara Lluch, le scene di Ezio Frigerio, i costumi di Franca Squarciapino e le belle luci di Vinicio Cheli creano uno spettacolo realistico, forse troppo, tutto vissuto in un unico ambiente su due piani che rappresenta l’ampio patio di una casa colonica, non troppo distante da quello suggerito da Lorca: «Habitación blanquísima del interior de la casa de Bernarda. Muros gruesos. Puertas en arco con cortinas de yute rematadas con madroños y volantes. Sillas de anea. Cuadros con paisajes inverosímiles de ninfas o reyes de leyenda» (Stanza imbiancata nella casa di Bernarda. Pareti spesse. Porte ad arco con tende di juta rifinite con corbezzoli e ruches. Sedie fatte di giunco. Dipinti di paesaggi improbabili con ninfe o re delle leggende).

Le baruffe

Esquisse de la scène de Paolo Fantin

Giorgio Battistelli, Le baruffe

★★★☆☆

Venise, Teatro La Fenice, 22 février 2022

 Qui la versione italiana

Le baruffe chiozzotte de Goldoni : une fresque vocale mise en musique par un compositeur d’aujourd’hui

Les comédies à décor vénitien que Goldoni écrit au début des années 1760 représentent l’apogée de la maturité artistique du dramaturge : le comique de caractère et de situation y trouve sa plus haute expression avec I rusteghi (Les rustres), La casa nova et, précisément, Le baruffe chiozzotte (1762), la dernière comédie écrite en Italie avant son départ pour Paris. Il s’agit d’une comédie « de conversation », où le mot, ici dans le dialecte de la ville de Chioggia, devient un extraordinaire instrument d’expression théâtrale. Dans Le baruffe, Goldoni renoue avec le monde populaire et pittoresque qu’il avait négligé au profit de cadres bourgeois et aristocratiques mis en scène dans ses œuvres précédentes ; il ne cherche pas cependant le pittoresque à tout prix dans sa peinture de personnages certes sanguins, mais également empreints de mélancolie…

la suite sur premiereloge-opera.com

Le baruffe

Bozzetto della scena di Paolo Fantin

Giorgio Battistelli, Le baruffe

★★★☆☆

Venezia, Teatro La Fenice, 22 febbraio 2022

bandiera francese.jpg Ici la version française

Le baruffe chiozzotte di Goldoni: un affresco vocale messo in musica da un compositore d’oggi

Le commedie di ambientazione veneziana che Goldoni scrive nei primi anni 1760 costituiscono il punto d’arrivo della maturità artistica del commediografo: qui la commedia di carattere e di ambiente ha la sua più alta espressione con I rusteghi, La casa nova e, appunto, Le baruffe chiozzotte (1762), l’ultima commedia scritta in Italia prima del suo trasferimento a Parigi. È una commedia di conversazione, dove la parola, qui nel dialetto della città di Chioggia, si fa straordinario strumento di espressività teatrale. Ne Le baruffe Goldoni recupera un mondo popolare e pittoresco che aveva trascurato nelle ambientazioni borghesi e nobiliari messe in scena nelle sue opere precedenti, senza però scendere nel pittoresco a tutti i costi nella delineazione di personaggi sanguigni, ma nello stesso tempo intrisi di malinconia.

La commedia di Goldoni è già stata trasposta in musica, tra gli altri, da Gian Francesco Malipiero, un altro veneziano, come terza parte di una trilogia goldoniana comprendente La bottega del caffè e Sior Todero brontolon andata in scena a Darmstadt nel 1926. Ora ci riprova il compositore romano Giorgio Battistelli che, assieme a Damiano Michieletto, ha scritto il libretto tratto dal testo goldoniano, libretto che sul programma di sala è stampato con la traduzione in italiano a beneficio di chi non è del posto.

Quadro primo. A Chioggia. In strada, donna Pasqua, moglie di padron Toni, pescatore, e Lucietta, sorella di lui, ricamano merletti. Dall’altra parte della strada, intente allo stesso lavoro, ci sono Libera, moglie di Fortunato, altro pescatore, insieme alle due giovani sorelle Orsetta e Checca. Giungono Canocchia, venditore di zucca, e il battelliere Toffolo: quest’ultimo offre la zucca appena sfornata alle donne. Lucietta invita Toffolo a sedersi al suo fianco, mentre le altre commentano con riprovazione il loro conversare. Segue un bisticcio in cui tutti utilizzano con sprezzo i cognomi e i soprannomi degli altri: Ricotta, Marmottina, Meggiotto, Padella, Cialtrona… Checca dichiara che riferirà quanto accaduto a Titta-Nane, fidanzato di Lucietta. Don Vicenzo, pescatore rimasto a terra, annuncia che è arrivata la barca di padron Toni. Mandato via Toffolo, le donne si riappacificano e decidono di tacere sugli avvenimenti del mattino. Vicenzo si accorda con Toni per acquistare da lui del pesce. Toni saluta sua moglie, mentre Lucietta, parlando con suo fratello Beppo, gli confida maliziosamente che Toffolo ha conversato con Orsetta, con la quale lo stesso Beppo è fidanzato. Il giovane si sdegna, afferma di non volerla più sposare e di volerle restituire l’anello di fidanzamento che le aveva comprato. Fortunato e Titta-Nane scendono dalla barca: mentre il primo parla con la moglie Libera, il secondo conversa con Checca e Orsetta, le quali insinuano in lui il dubbio che Lucietta se la intenda con Toffolo. Titta-Nane, indignato, promette vendetta. Beppo incontra Toffolo: si insultano e vengono alle mani, il battelliere lancia sassi al pescatore che estrae un coltello. Un sasso colpisce padron Toni, accorso per calmare le acque. La lite si allarga, Titta-Nane, che nel frattempo è arrivato, minaccia Toffolo con uno spadone. Sopraggiungono le donne cercando di riportare la calma. Toffolo se ne va via minacciando di denunciare i suoi aggressori alle autorità.
Quadro secondo. Nella Cancelleria criminale, Toffolo denuncia al coadiutore del cancelliere, Isidoro, l’aggressione ricevuta da Titta-Nane, accusando Beppo, Toni e Titta-Nane e chiedendo per loro la galera. Nel frattempo, in strada, donna Pasqua cerca di riappacificare, senza risultato, Lucietta e Titta-Nane. Entrambi i giovani aspettano che sia l’altro a fare la prima mossa e a chiedere scusa. Titta-Nane, al colmo dell’ira, annuncia a donna Pasqua l’intenzione di lasciare la sua promessa, la quale per tutta risposta gli restituisce i doni da lui ricevuti. In cancelleria, Vicenzo cerca di convincere Isidoro a lasciar perdere la causa legale, e il coadiutore accetta di tentare una mediazione, dopo aver sentito i protagonisti dello scontro. La prima a essere interrogata è Checca, che racconta la sua versione della controversia. Isidoro si informa sulla situazione sentimentale della giovane, che gli confessa di avere delle simpatie per Tata-Nane, ritornato libero dopo aver lasciato Lucietta. Isidoro promette che indagherà con il giovane per lei. Beppo ha un duro scontro con la sua innamorata Orsetta, in cui sfoga la sua gelosia nei confronti di Toffolo. Vicenzo, sopraggiunto, afferma che il battelliere non è disposto alla conciliazione. Segue un alterco che coinvolge tutte e cinque le donne: tra offese e insulti reciproci si giunge quasi alle mani. Il peggio é evitato dall’arrivo di Fortunato, che cerca di riportare la calma.
Quadro terzo. Nella Cancelleria, Isidoro sonda la propensione di Titta-Nane verso Checca, ma il pescatore afferma di essere ancora innamorato di Lucietta, pur se in collera con lei. Isidoro intanto continua nel suo lavoro di riappacificazione, e parla con Toffolo, condotto lì da Vicenzo. Il battelliere dice di temere per la propria vita, ma il funzionario fa promettere a Titta-Nane e a Beppo di lasciarlo stare. I due innamorati gelosi acconsentono a patto che Toffolo stia a distanza da Lucietta e Orsetta. Toffolo afferma di non pensare né all’una né all’altra, essendo interessato a Checca e desiderando sposarla. Giustifica inoltre i suoi atti dicendo di aver voluto fare un dispetto a tutti, ma di essere seriamente intenzionato nei confronti di Checca. Isidoro si compiace e organizza in fretta e furia il matrimonio tra i due, mentre la pace sembra tornare a regnare sovrana tra gli abbracci degli uomini. Sopraggiunge però padron Toni, raccontando che le donne si sono accapigliate, e che con ogni probabilità le ostilità non sono ancora terminate. La confusione dilaga nuovamente, e ciascuno vuole difendere la propria donna. Segue un acceso scambio verbale tra Lucietta e Orsetta, che si conclude con gli insulti usuali. Titta-Nane, infuriato perché padron Toni e Beppo, a causa del suo temperamento lo scacciano da casa loro e gli impediscono di imbarcarsi, dichiara di volersi vendicare con le armi, al che Toffolo e il coro di chioggiotti scappano via impauriti. Isidoro discute con Fortunato e Libera, perorando la causa di Toffolo nei confronti di Checca. La ragazza, interrogata dalla sorella e dal cognato, risponde che accetterebbe di buon grado di sposarlo. Isidoro si accinge a celebrare il matrimonio. Orsetta obietta però che, come sorella maggiore, spetterebbe a lei il diritto di convolare a nozze per prima. Isidoro allora persuade lei e Beppo a fare la pace, suggellandola con un altro matrimonio. Lucietta si adira con il fratello, accusandolo di sposare chi ha calunniato lei e donna Pasqua. Ancora una volta Isidoro cerca di appianare la baruffa, e manda a chiamare Titta-Nane, mentre mette pace tra Orsetta e Lucietta. Padron Toni, a sua volta, convince energicamente donna Pasqua a riappacificarsi con le altre donne. Titta-Nane, dapprima recalcitrante, vedendo Lucietta piangere scende a più miti consigli, e chiede la mano della sua innamorata. Isidoro, felice, invita tutti a ballare e a far festa, e il coro gli si affianca gioioso nel lieto finale.

La composizione di Battistelli vede la luce in prima mondiale al Teatro la Fenice in occasione del 60° anniversario della casa editrice veneziana Marsilio che cura l’edizione nazionale dei lavori di Goldoni. La sua 35esima composizione per il teatro conferma lo stile compositivo già espresso nelle precedenti ultime opere Richard III, Co2 e Julius Caesar, tutte contrassegnate da un raffinato disegno orchestrale e un uso della strumentazione evocativo e pregnante – qui è la fisarmonica che dà il tono locale e la preponderante percussione che sottolinea i baruffanti animi e la natura inclemente. Il colore è scuro e serpeggia una tensione che si scarica in fortissimi seguiti da oasi di pace. Per la vocalità invece non si va al di là di un generico declamato ritmico che non caratterizza i personaggi, che cantano quindi tutti alla stessa maniera, soprattutto quelli femminili.

L’opera inizia con un preludio formato da un tappeto di suoni brulicanti, un rumore bianco, un fondo indistinto dalla cui nebbia emergono i fonemi del coro che elenca le cose di questa povera gente che si gioca la sopravvivenza con quanto il mare offre loro avaramente («sfoggi, barboni | boseghe, rombi | granzi, bisatti»), le verdure, i sentimenti («spàsemi, bissabuova | travaggi, stramanio | tremazzo, batticuore»), i colorati improperi, i vari tipi di imbarcazioni e il sempre presente «sirocco de sottovento». Il coro, ovviamente assente nel lavoro originale di Goldoni, qui è trattato come un’inedita installazione sonora a cui segue il grido del venditore ambulante di zucca al forno, la causa di tanto trambusto. Da questo momento inizia un concertato che senza distendersi in una linea melodica forma una rete di voci sempre al limite, con salti di registro e una foga espressiva spesso esagerata – si tratta pur sempre di «zucca barucca», non di morti tragiche o ammazzamenti… È la performance vocale femminile quella che più soffre di questa impostazione, soprattutto nei tre caratteri di Lucietta, Orsetta e Checca affidati alle voci di Francesca Sorteni, Francesca Lombardi Mazzulli e Silvia Frigato rispettivamente alle quai è richiesto di esprimersi a ringhi, a parole spezzate, con i suoni onomatopeici del dialetto chiozzotto. Più efficaci, per una volta, gli interpreti maschili dei personaggi di Padron Toni (Alessandro Luongo), Titta Nane (Enrico Casari), Beppo (Marcello Nardis), Padron Vicenzo (Pietro di Bianco), Toffolo (Leonardo Cortellazzi) e Padron Fortunato (Rocco Cavalluzzi) che «parla presto e non dice che la metà delle parole, di maniera che gli stessi suoi compatrioti lo capiscono con difficoltà», come lo descrive Goldoni. E infine Isidoro (Federico Longhi), l’unico a esprimersi in veneziano, l’outsider, il deus ex machina che risolve la litigiosa situazione combinando non due ma ben tre matrimoni in una volta sola. Tutti hanno ben meritato gli applausi del folto pubblico che ha salutato con calore questa singolare prima della stagione lirica veneziana.

Il lavoro di Battistelli consta di 37 microscene, un preludio corale e un epilogo strumentale. Il tutto è suddiviso in tre quadri che formano un atto unico senza intervallo della durata di circa 100 minuti. Nel magma sonoro si coagulano a tratti devastanti temi melodici, sghembi temi ballabili, come all’arrivo dei pescatori. Nel finale, la parte migliore della partitura, le percussioni, che hanno anche troppo imperversato fino a quel momento, si incantano su un grottesco zum-pa zum-pa nella apoteosi della succulenta «zucca barucca». Alla guida dell’orchestra del teatro Enrico Calesso concerta le voci e gli strumenti con passione e competenza rendendo al meglio i particolari colori orchestrali e la densa struttura di questa complessa partitura.

Se qualche perplessità può essere espressa da quanto viene ascoltato, nulla si può dire invece per la parte visiva dello spettacolo, affidata al veneziano d.o.c. Damiano Michieletto di cui poche ora prima si è ammirato, fino quasi a cadere nel deliquio, l’installazione immersiva “Archèus. Labirinto Mozart” al Forte Marghera, di cui si riferisce a parte. Come là, è la realizzazione scenica quella che più colpisce anche ne Le baruffe. Paolo Fantin ha tradotto il tono e l’atmosfera della commedia goldoniana ideando un insieme di cinque «macchine emotive o dell’inquietudine», come le ha volute definire lui: la prima è il teatro stesso nella sua nudità; la seconda è il vento, lo scirocco che infiamma gli animi, concretizzato da tre grandi pale di ventilatori; la terza è il legno delle strutture che definiscono i diversi ambienti, un legno corroso dall’acqua e dal sale come quello delle barche o delle bricole che punteggiano la laguna, strutture che vengono distrutte per fornire le “armi” a questi poveri belligeranti, le assi, e il rumore fragoroso di quando queste si abbattono a terra; la quarta è la nebbia della laguna, con le macchine dei fumi, le ombre; la quinta è la luce, magnificamente ricreata da Alessandro Carletti. Sergio Metalli si occupa delle atmosferiche proiezioni video mentre Carla Teti provvede i come sempre perfetti costumi, qui settecenteschi ma logori e declinati nelle mille tonalità del grigio sporcato d’azzurro, verde o terra. Il gioco di pieni e di vuoti in scena, il movimento delle masse e la recitazione attoriale dei singoli sono gestiti in maniera magistrale da Michieletto che firma uno spettacolo più scarno del solito, ma sempre coinvolgente.

Per il debutto di una sua opera Battistelli invece di Robert Carsen questa volta ha scelto un regista che lavora soprattutto sulle immagini come Michieletto, che senza le coccole di un lezioso Settecento ha saputo restituirci un Goldoni brusco e moderno. Lo spettacolo è stato ripreso ed è disponibile su youtube.

Il diario di Anna Frank

 

foto Andrea Macchia © Teatro Regio Torino

Grigorij Frid, Il diario di Anna Frank

Torino, Teatro Regio, 27 gennaio 2022

Il dovere di ricordare

Come previsto il Regio di Torino riapre puntualmente dopo la prima fase di lavori che hanno rimesso a nuovo le strutture del palcoscenico, e lo fa per una importante occasione: la celebrazione del Giorno della Memoria.

Con il patrocinio della Comunità Ebraica di Torino e nell’ambito delle manifestazioni realizzate in collaborazione con il Comune e il Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra e dei Diritti e della Libertà, il teatro mette in scena Il diario di Anna Frank, un monodramma in due parti che Grigorij Frid (1915-2012) ha completato nel 1969 e che nei suoi ultimi anni di vita è stato il lavoro di un compositore vivente più rappresentato al mondo. Eseguito nel 1972 con il solo pianoforte, ha poi conosciuto una versione per tre strumentisti, poi nove e infine 27, quella che viene ora presentata nell’adattamento musicale di Eddi De Nadai e con la traduzione del testo in italiano di Rino Alessi.

Compositore e grande divulgatore, Frid ha diretto il Club di Musica dei Giovani di Mosca presentando le opere di Sofia Gubaidulina, Edison Denisov and Alfred Schnittke e si è anche fatto conoscere come rinomato pittore. Il diario di Anna Frank è la prima delle sue due opere da camera, l’altra essendo Le lettere di Van Gogh (1975) e in entrambi i casi ne ha scritto anche i testi.

Due concerti, tre sinfonie, due cicli di musica vocale, numerose composizioni da camera e anche musica per film e trasmissioni radiofoniche sono tra i lavori di un compositore il cui stile è mutato nel tempo: dai primi lavori improntati al realismo socialista, a 55 anni si è convertito alla dodecafonia e, anche se in maniera non rigorosa, in questo suo monodramma affiora una serie di dodici suoni in un impianto complessivamente atonale che però non rinuncia alla melodia, una in particolare, bellissima, che viene annunciata all’inizio della seconda parte per poi ritornare nell’ultimo intervento vocale dell’unica interprete. Nel corso della rappresentazione ascolteremo anche un nostalgico richiamo a un valzer, uno al jazz e c’è pure un momento di quasi aleatorietà, quando nel finale agli strumentisti è dato di scegliere la lunghezza delle note in un fragoroso pieno orchestrale. L’ensemble strumentale si compone di una cospicua parte di strumenti a fiato, percussioni, pianoforte e celesta. Gli archi – in numero di 5 violini, 4 viole, 3 violoncelli e 2 contrabbassi – suonano in stile cameristico, quasi solisticamente.

I cinquanta minuti di musica si suddividono in una serie di scene che iniziano con tono gaio, quando per il suo tredicesimo compleanno, il 12 giugno 1942, Annelies Marie Frank riceve come dono un diario, che diventa il suo compagno inseparabile nella autoreclusione, soltanto un mese dopo, in un rifugio segreto – unica scelta per sopravvivere ai rastrellamenti della Gestapo nella città di Amsterdam dove la famiglia Frank si era trasferita da Francoforte nel ’33 per sfuggire alle leggi razziali dei nazisti che però avrebbero occupato i Paesi Bassi nel maggio 1940.

La musica di Frid evoca con grande sensibilità ed efficacia l’atmosfera claustrofobica del rifugio, la quotidianità e i primi trasalimenti amorosi della giovane, la nostalgia per la natura e la libertà spiata dal sottotetto in cui si rifugia assieme a Peter, il figlio dell’altra famiglia coabitante.

Alla guida dell’orchestra del teatro Giulio Laguzzi realizza la partitura con precisione e sensibilità, seguendo le intermittenze psicologiche di un personaggio che trova una intensa partecipazione in Shira Patchornik, la vincitrice la scorsa estate a Innsbruck del concorso Cesti di musica barocca. L’impegnativo compito di essere sempre presente vocalmente in scena non è un problema per il giovane soprano israeliano la cui immedesimazione con Anna Frank è totale, ma ciò non le impedisce di evidenziare la sua personalità, un timbro fresco e una notevole padronanza delle esigenze di una parte che utilizza tutte le forme espressive – declamato, parlato, canto melodico, recitativo – per delineare una figura di cui abbiamo tutti in mente l’immagine che passa dall’ingenuità dell’infanzia alla consapevolezza del destino di morte di cui nella musica è solo fatto un accenno nel finale: un forte in orchestra rappresenta il momento in cui il rifugio viene scoperto e prima che la Gestapo faccia irruzione nell’ambiente. Subito dopo un tragico silenzio ci lascia con l’angoscia di quello che sappiamo essere avvenuto: le flebili speranze appese agli annunci radiofonici dell’avanzata dei Russi, o al risveglio di quel brandello di natura golosamente spiato, tutto crolla quel 4 agosto 1944 quando la famiglia viene arrestata: trasferita in un campo di concentramento, Anna morirà assieme alla sorella Margot nel campo di Bergen-Belsen tre mesi dopo.

La messa in scena di Anna Maria Bruzzese ambienta la vicenda dentro il diario stesso: nella scenografia di Claudia Boasso, dietro un velario su cui sono proiettate le frasi del libro e la scrittura autografa della ragazza, vediamo la sua camera, un lettino e un tavolino a destra, una libreria a sinistra. Quello che colpisce è la mancanza di finestre, ma sullo sfondo le proiezioni di Controluce Teatro d’Ombre ci fanno intravedere delle immagini, spesso inquietanti, dell’esterno o degli incubi di Anna, come quando vediamo le torce elettriche di quelli che si avvicinano minacciosamente al rifugio la prima volta. La regia è molto lineare e ben definisce la figura del personaggio qui vestito da Laura Viglione. Alcuni tocchi visivi impreziosiscono la rappresentazione, come le foglie che cadono dall’alto per segnare il lento trascorrere del tempo, foglie che alla fine diventano le pagine del diario che si spargono sul pavimento dell’appartamento ormai vuoto mentre  sul fondo si proietta l’immagine di Anna che ruota felice con la sua gonna di tulle. In un’altra dimensione forse ha trovato la felicità nella libertà.

Gli applausi hanno spezzato la forte, palpabile emozione che ha provato il folto pubblico di questa sobria “inaugurazione” della stagione. Molti gli allievi delle scuole presenti. Loro hanno bisogno di conoscere, tutti noi di non dimenticare.

Prima dello spettacolo la regista ha letto questa lettera della senatrice Liliana Segre: «Saluto tutti i partecipanti alla rappresentazione de Il diario di Anna Frank, opera di Grigorij Frid dal diario di Anne. Bene ha fatto il Teatro Regio di Torino a programmare l’esecuzione dell’opera, anche in diretta radiofonica, in occasione del Giorno della Memoria 2022, perché il Diario di Anne è veramente l’opera per antonomasia della Shoah. Di testimonianze, scritte e orali, ne furono prodotte molte, non solo dopo il 1945, ma persino durante la detenzione, da parte di scrittori, poeti, musicisti. Nessuna ha però l’impatto emotivo del Diario di Anne. Si tratta infatti di una narrazione in presa diretta delle paure, delle pene, ma anche delle speranze e dei sogni di un’adolescente nei due lunghi anni trascorsi a nascondersi prima di essere scoperta e destinata a morte, con la sua famiglia, nel campo di Bergen-Belsen. Le angosce e le pene di quell’adolescente furono anche le mie, per questo è con particolare commozione e partecipazione che mi accingo a seguire questa rappresentazione. Un sentito ringraziamento al Teatro Regio di Torino e a tutti coloro che hanno reso possibile un evento simile».

Les éclairs

Philippe Hersant, Les éclairs

★★★☆☆

Parigi, Opéra Comique, 8 novembre 2021

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Il dramma melanconico di un visionario

Basato sul curioso romanzo di Jean Echenoz Des éclairs (2010, Les Éditions de Minuit), «fiction sans scrupules biographiques» sulla vita di Nikola Tesla, il libretto di Les éclairs scritto dallo stesso romanziere in versi viene rivestito di suoni dal compositore Philippe Hersant (nato a Roma nel 1948) per la sua terza opera. Anche le sue precedenti erano basate su opere letterarie: Le Château des Carpathes (1991) da Jules Verne, Le Moine Noir (2005) da Čechov, così come le musiche per il balletto Wuthering Heights dal romanzo di Emily Brontë Cime tempestose. Qui il protagonista si chiama kafkianamente Gregor, ma la vicenda è chiaramente quella del geniale e visionario fisico, ingegnere e inventore che voleva regalare all’umanità una fonte di energia gratuita e inesauribile.

Atto I. [1884]. Sul ponte di un transatlantico, il giovane ingegnere Gregor arriva in America con una raccomandazione per il potente industriale Thomas Edison. La traversata gli dà l’opportunità di dimostrare il suo talento riparando le dinamo della nave, danneggiate da una tempesta. Intervistato da Betty, la prima giornalista donna del New York Herald, Edison si dimostra pieno di ambizione e cinismo. È disposto a ricevere Gregor, ma a sfidarlo a migliorare il suo principio generatore. Quando Gregor riuscì a decuplicare la potenza della macchina, Edison lo licenzia invece di pagarlo e promette di ostacolare la sua carriera. Qualche tempo dopo, Betty scopre che Gregor è diventato un manovale per sopravvivere. Raccomanda questo genio singolare a Parker, un ricco imprenditore in cerca di buoni investimenti. Parker prende Gregor sotto la sua ala.
Atto II. [Qualche anno dopo]. Grazie a Parker, Gregor ora vive nel lusso e può continuare le sue ricerche mescolandosi con l’alta società di New York. Ad una funzione, incontra il filantropo Norman Axelrod e sua moglie Ethel. Norman si affeziona a Gregor mentre sua moglie si innamora di lui. Edison decide di infangare la reputazione delle invenzioni di Gregor e in particolare quella della corrente alternata. Organizza folgorazioni pubbliche di animali e, più tardi, il primo test della sedia elettrica su un condannato a morte. I giornalisti, Betty compresa, sono invitati a fare la cronaca dell’evento. Nell’opinione pubblica, Gregor conduce ancora la battaglia, ma le espressioni di apprezzamento lo opprimono e decide di partire per il Colorado per continuare le sue ricerche.
Atto III. [1910]. Convinto di aver stabilito una comunicazione con le civiltà extraterrestri, Gregor torna dal Colorado desideroso di sviluppare un’energia grauita a beneficio dell’umanità. Il genio comincia a sembrare un eccentrico, nonostante l’impegno di Ethel a tenere testa alla stampa. Betty sente di essere l’unica giornalista che lo capisce. Lo scompiglio causato, unito all’altruismo di Gregor, sta infliggendo danni agli affari e Parker ritira il suo sostegno, ponendo fine al loro contratto.
Atto IV. [1943]. Gregor ora frequenta solo gli Axelrod. Norman lo vede ancora come un uomo di grandi visioni. Ethel gli dichiara il suo amore e gli offre di portarlo in Europa per rilanciare la sua carriera, ma Gregor rifiuta di tradire Norman. Le ricerche di Gregor non generano più reddito. Passa il suo tempo a dar da mangiare ai piccioni del suo quartiere mentre l’impero tecnologico di Edison prospera. Ethel finalmente confessa a Norman il suo amore per Gregor e lo lascia ma, nella sua squallida stanza d’albergo, Gregor ha dato l’addio al mondo.

Nell’opera di Hersant i personaggi femminili hanno un ruolo importante, mentre nel romanzo originale sono quasi trascurabili: lì viene accentuato il carattere misantropo di Gregor che alla compagnia degli umani preferisce quella dei volatili («Les oiseaux sont toujours mes alliés singuliers») tanto da innamorarsi di una colombella! Sono gli stridìi dei gabbiani a salutare il suo arrivo nel Nuovo Mondo, così come il tubare dei piccioni di Central Park, testimoni della sua fine. Il titolo si riferisce alla fascinazione di Gregor per i lampi che vede dalle finestre della sua camera d’albergo quando i temporalisi abbattono su New York, gli stessi lampi che egli replica con gli strumenti elettrici di sua invenzione nei suoi applauditissimi spettacoli.

La partitura ha il tono di uno spettacolo di Broadway, una commedia musicale dal gusto eclettico (jazz, folklore balcanico e irlandese, i versi degli uccelli) e il canto è un declamato melodico, piuttosto monotono nel caso del protagonista. Ottimi il cast e la direzione attenta e partecipe di Ariane Matiakh alla guida della Orchestre Philharmonique de Radio France: Gregor nella suadente voce del baritono Jean-Christophe Lanièce una prova di grande sensibilità; anche baritono è l’Edison di André Heyboer, ma il colore è molto più scuro per adattarsi al vilain della situazione i cui interventi sono accompagnati dagli ottoni bassi come se si trattasse del Commendatore di Mozart; terzo baritono è Jérôme Boutillier, Parker, l’imprenditore che guarda solo al guadagno e che abbandona Gregor quando vede che non ne può sfruttare le idee; tenore è invece Norman, il sensibile François Rougier. A un livello altrettanto eccellente sono le interpreti femminili: il soprano Elsa Benoit, Betty, il personaggio che manca nel romanzo e che qui incarna con suo canto fiorito quello degli uccelli prediletti di Gregor; il mezzosoprano Marie-Andrée Bouchard-Lesieur presta il suo bel mezzo vocale per la seduttrice stanca del matrimonio borghese e innamorata dell’infelice inventore – e qui il libretto si contraddice con la realtà di un Gregor 87enne… Apprezzabili gli interventi del coro Ensemble Aedes istruito da Mathieu Romano.

Nella messa in scena di Clément Hervieu-Léger la scenografia di Aurélie Maestre rimanda alle illustrazioni in bianco e nero dei giornali e dei libri d’epoca, con la silhouette di Manhattan dai grattacieli che crescono, così come evolvono nel tempo i costumi di Caroline de Vivaise.

Era destino che l’Opéra Comique – la prima sala di spettacolo illuminata dalla elettricità nel 1898 – dovesse ospitare quest’opera sull’elettricità. Les éclairs però non fa scintille: al libretto mancano la singolarità e lo humour del romanzo e la musica sembra guardare al passato piuttosto che al presente.

The Life and Death of Alexander Litvinenko

Anthony Bolton, The Life and Death of Alexander Litvinenko

★★★☆☆

West Horsley, Grange Park Opera, 17 luglio 2021

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Un coraggioso atto di denuncia, ma un’opera debole

Peculiare personaggio Anthony Bolton: rampante speculatore e investitore finanziario classe 1950, quando è andato in pensione, dopo aver arricchito molti azionisti negli anni ’90 e 2000, si è scoperto compositore. Dopo alcuni lavori di musica da camera e vocali – A Garland of Carols, Black Sea (un ciclo di 5 canti), Impromptu per arpa e My Beloved, Song of Solomon – e orchestrali – la suite The Seven Wonders of the Ancient World – ha conosciuto la biografia di Alexander Litvinenko, l’ufficiale del KGB divenuto dissidente il cui omicidio ebbe luogo a Londra nel 2006 dopo essere stato avvelenato con il polonio, e ha sentito il dovere di tradurre la vicenda di potere, politica, amore, tradimento, assassinio in un’opera su libretto di Kit Hesketh-Harvey.

Atto 1. Prologo: il coro canta sul polonio; Sasha (Alexander Litvinenko) pronuncia il suo famoso discorso sul letto di morte. Sono passati sei anni dal loro arrivo nel Regno Unito. Sasha e Marina ricordano il loro primo incontro e il suo periodo con il Servizio Federale per la Sicurezza della Federazione Russa (FSB, il servizio segreto russo) che nell’ottobre 2002 usò il sequestro di massa al teatro Dubrovka di Mosca per diffondere il sentimento anti-ceceno. La giornalista Anna Politkovskaya aiuta a negoziare con i terroristi. C’è un tentativo di far saltare in aria l’auto dell’oligarca Boris Berezovsky; Sasha lo salva dal successivo arresto. Sasha viene inviato in Cecenia per aiutare a spazzare via la resistenza dei terroristi. Le truppe russe mal vestite hanno un equipaggiamento inadeguato, mentre i generali russi si dimostrano inefficaci e sono ubriachi per la maggior parte del tempo. Avendo visto la sincerità dei giovani combattenti ceceni, Sasha torna a Mosca come un uomo cambiato. Quando gli viene chiesto di assassinare Boris Berezovsky, Sasha rifiuta. Fa un video che critica l’FSB e mette in evidenza la corruzione endemica. Viene mostrato alla TV russa e Sasha viene imprigionato. Si rende conto che la Russia non è più sicura per lui. Deve fuggire all’estero.
Atto 2. Come ringraziamento per avergli risparmiato la vita, Boris Berezovsky aiuta la famiglia di Sasha a fuggire dalla Russia e la finanzia a Londra. Boris ospita la sua festa di 60 anni a Blenheim Palace e Sasha incontra un vecchio collega, Andrei Lugovoy. Decidono di mettersi in affari; Sasha non si rende conto che Lugovoy lavora ancora per l’FSB. Putin approva una legge secondo cui i traditori russi possono essere uccisi ovunque nel mondo. La giornalista Anna Politkovskaya visita i Litvinenko a Muswell Hill e racconta a Marina le sue esperienze in Cecenia. Consegna una notizia agghiacciante: l’FSB sta usando un’immagine del volto di Sasha per il tiro al bersaglio. I Litvinenko sentono che Anna è stata uccisa fuori dal suo appartamento di Mosca il giorno del compleanno di Putin. Con il pretesto di assistere a una partita di calcio, Lugovoy arriva a Londra. Si incontra con Sasha e gli offre del tè corretto con il polonio. Sasha rifiuta all’inizio ma, abbassando la guardia, beve. Quella sera si sente male. Ci vuole tempo per identificare il polonio altamente tossico. Emette una radiazione alfa che lascia una traccia fino alla città di Sarov in Russia. Abbiamo un flashback dell’incontro con il capo dell’FSB in cui Sasha espone la corruzione dell’FSB. Sasha è in ospedale. Sul letto di morte incolpa Putin ma crede che la Russia risorgerà. Muore. Marina canta un ultimo lamento con l’accompagnamento di una preghiera funebre russo-ortodossa.

Con l’ausilio di Sibelius, il programma notazionale per l’editing digitale di spartiti musicali, quello che è sempre stato per Bolton un hobby secondario è diventato un lavoro su grande scala, il suo più ambizioso: sette solisti, un coro, un’orchestra di 52 elementi, due atti per oltre due ore di musica. La composizione ha avuto la collaborazione di Marina Litvinenko, autrice del libro Morte di un dissidente ed è stata incoraggiata da Wasfi Kani del Grange Park Opera. A Londra una pièce di Lucy Prebble, A Very Expensive Poison, era sta presentata all’Old Vic e la Royal Opera House aveva avuto l’intenzione di commissionare a Mark-Anthony Turnage un’opera su Litvinenko, ma il progetto non si è concretizzato. L’opera di Bolton arriva con un ritardo di un anno a causa della pandemia.

La partitura è tonale ed eclettica e dopo aver reso omaggio in certi momenti e nell’orchestrazione a Benjamin Britten, ingloba musiche di Rachmaninov, Šostakovič e Čajkovskij, oltre al coro di una squadra di calcio russa, un canto di marcia dell’esercito russo e l’inno ceceno. La storia è raccontata in flasback dopo la prima scena dell’ospedale dove Litvinenko sta morendo. La medesima ambientazione si troverà nell’ultima scena, con il famoso testamento alla stampa del dissidente russo. Lo stesso Putin, chiamato in causa quale mandante dell’assassinio, vi appare come ex capo del KGB ed è interpretato da un controtenore, cosa che non sarebbe presa troppo bene in Russia dove non si scherza col machismo del suo leader, ma non c’è pericolo che The Life and Death of Alexander Litvinenko possa essere vista là.

L’indubbio messaggio di denuncia del lavoro non ha però altrettanta forza drammaturgica a causa di un libretto verboso che non fa che raccontare, essendo la scena della occupazione del teatro Dubrovka l’unica azione coinvolgente. I personaggi non hanno spessore psicologico e peso drammaturgico e non basta una musica che ha una sua efficacia a rendere il lavoro interessante. La messa in scena di Stephen Medcalf è efficace, ma i video di Will Duke che offrono immagini d’archivio diventano ridondanti visto che i personaggi stanno raccontando le stesse cose. Anche il monologo di Marina dopo la morte del marito suona addirittura prosaico. Il carattere agiografico del testo da cui è tratto il lavoro è la causa di questa assenza di tensione narrativa.

La BBC Concert Orchestra (una delle cinque del servizio pubblico radiotelevisivo!) è stata precedentemente registrata e viene trasmessa in teatro dagli altoparlanti. Il direttore Stephen Barlow concerta dal vivo gli interventi degli interpreti in scena che si esibiscono in uno stile vocale declamatorio piuttosto monotono. Lode comunque ai cantanti che hanno imparato una nuova opera che ha una sola replica: tra essi il tenore Adrian Dwyer (Alexander Litvinenko), il soprano Rebecca Bottone (Marina Litvinenko), il bassobaritono Stephan Loges (Boris Berezovsky), il controtenore James Laing (il capo della KGB), il soprano Olivia Ray (Anna Politkovskaya) e il baritono Edmund Danon (Andrei Lugovoy).