Aleksandr Puškin

Il gallo d’oro

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Nikolaj Rimskij-Korsakov, Il gallo d’oro

★★★★☆

Bruxelles, Palais de la Monnaie, 23 dicembre 2016

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Pelly vira in nero la fiaba musicata da Rimskij-Korsakov

Se si guarda la data c’è da restare strabiliati: nel 1909, quando Il gallo d’oro debutta a Mosca, un anno dopo la morte di Rimskij-Korsakov, regnava ancora lo zar Nicola II Romanov. Questa durissima satira politica travestita da fiaba prendeva di mira un regime autocratico che aveva represso nel sangue i tumulti del 1905 e che nel 1913 avrebbe celebrato i trecento anni della sua dinastia – prima di collassare definitivamente poco dopo, come si sa. Sulle vicende di quest’ultima opera del compositore russo si può leggere la recensione del DVD in cui viene ampiamente citato quanto sapientemente scritto al proposito da Franco Pulcini, musicologo esperto dell’opera slava.

La musica del Il gallo d’oro non fa che confermare la strabiliante maestria orchestrale del compositore russo: i colori cangianti, la voluttà delle invenzioni melodiche, l’armonia e i ritmi inafferrabili, i toni popolari e i cromatismi wagneriani. Qui tutto è reso con amore e competenza dal direttore Alain Antinoglu che tra il secondo e il terzo atto si trasforma in pianista e assieme al primo violino dell’orchestra, Saténik Khourdoian, offre un delizioso entracte musicale: la Fantasia sul Gallo d’oro di Efrem Zimbalist & Fritz Kreisler, pezzo in cui rifulge ancor più la purissima linea melodica della fascinosa aria della regina di Šemacha, qui una seducente Venera Gimadieva. Pavlo Hunka è l’oblomoviano zar Dodon, Alexander Kravets sfoggia il registro acutissimo dell’astrologo mentre gli altri interpreti, anche loro quasi tutti di lingua russa, e l’eccellente coro, personaggio principale dell’ultimo atto, portano alla buona riuscita uno spettacolo che sarà ripreso a Nancy e a Madrid.

Nella messa in scena qui al Palais de la Monnaie di Bruxelles, Pelly fa assistere al pubblico «la follia senile di un despota imbecille che assomiglia a tutti gli uomini». Non c’è nessuna fantasia orientale nella lettura di di Pelly (1): la sua è una fiaba in nero, presaga dei guai che apporterà il nuovo secolo XX. Un sogno (la parola più ripetuta nel testo) o meglio un incubo ben sostenuto dall’impianto scenografico di Barbara de Limburg – uno scenario definito «brutal, absurde et rêveur» dallo stesso regista. Il suolo è formato da una spianata di carbone che tinge dal basso i candidi costumi dei nobili, essendo quelli del popolo e dei soldati già neri per sé. Uniche concessioni al colore sono il rosso del pappagallo e il giallo oro del gallo, gli unici esseri viventi estranei alla vicenda umana, a parte il nero esercito di scimmie della regina. L’inetto zar Dodon, sempre in pigiama, non si separa mai dal letto troneggiante in scena salvo che per partire controvoglia per la guerra su un ronzino quale novello Don Chisciotte, mentre un vecchio termosifone funge da posatoio per il gallo. Nel secondo atto una struttura conica è la tenda della regina di Šemacha, certo ben lontana dalla «tenda di broccato ricoperta di ricami variopinti» del libretto, ma comunque con un che di onirico. Nel terzo atto il fondo della scena è la gigantografia di una folla che moltiplica quella inginocchiata ai lati del letto imperiale, ora montato su cingoli da carro armato. L’immagine è di chiara lettura: la sottomissione servile di un popolo (2) a un tiranno la cui autorità ha salde basi militari. L’ultima immagine dell’epilogo ci mostra il gallo che zampetta indifferente su un terreno cosparso di cadaveri. Un finale tragico che non stona con lo humour nero della fiaba rappresentata fino a quel momento in cui gli aspetti comici hanno preso sempre più intenzioni politiche.

(1) «Comincia davanti al Palazzo un corteo trionfale. Dapprima, a piedi, a cavallo, in carri, i soldati del re, con facce gonfie di sussiego, quindi il seguito della regina di Šemacha variopinto e bizzarro, come uscito da una fiaba orientale. Ci sono nani e giganti; uomini con un solo occhio in mezzo alla fronte, con le corna, con la testa di cane; arabi e arabetti; schiave velate che recano scrigni e suppellettili preziose. Il curioso splendore del corteo disperde per un po’ la pesante attesa. Tutti si divertono come bambini» recitano le didascalie del libretto del terzo atto.

(2) «Noi siamo vostri, corpo ed anima. Se veniamo battuti, è perché ce lo meritiamo […] Noi siamo felici di servirti, di fare i pagliacci per divertirti nei giorni di festa, di abbaiare, di strisciare a quattro zampe, e di prenderci a pugni per farti passare giorni felici e dormire un sonno placido […] Che cosa ci riserva il giorno che verrà? Come faremo senza lo zar?» canta il coro.

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Boris Godunov

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Modest Petrovič Musorgskij, Boris Godunov

★★★★★

Londra, Royal Opera House, 21 marzo 2016

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Il Lear Godunov di Terfel

A cinquant’anni il basso-baritono gallese Bryn Terfel si è sentito pronto per il ruolo di Boris Godunov, una delle figure più grandi del teatro di tutti i tempi. Nella sua interpretazione lo zar che ha fatto uccidere il giovane pretendente al trono assurge a personaggio scespiriano, come Lear tormentato da un rimorso che lo porta alla morte o come un Macbeth senza lady. Nella regia di Richard Jones il momento dell’assassinio che ossessiona la mente di Boris è iterato ben sei volte nella lunetta soffusa di luce dorata che forma la parte superiore della scenografia di Miriam Bluether: in alto l’appartamento dello zar, in basso la piazza con il popolo cencioso, uno spazio scuro con campane scolpite alle pareti e icone che rappresentano lo zar. Sempre presente fin dal sipario l’immagine della trottola insanguinata del piccolo zarevič assassinato.

La prima versione del Boris Godunov del 1869 possiede una struttura narrativa concentrata e una saldezza teatrale straordinaria che pongono al centro del racconto l’ascesa e la disintegrazione mentale di Boris, piuttosto che l’epica nazionale russa. La seconda versione si arricchirà di scene e interventi per personaggi che qui sono ridotti all’osso, senza un grande carattere femminile, e con un taglio di una modernità sorprendente che pone il lavoro di Musorgskij in anticipo di quasi cinquant’anni. La sua musica qui è fatta di grandi blocchi accordali asciutti e grezzi, quasi clusters sonori – quelli che Rimskij-Korsakov cercherà di levigare, accordare nella sua orchestrazione. Pappano evidenzia ogni timbro di questa versione con un’unità di lettura perfetta e un’adesione mirabile al canto degli interpreti in scena.

Come nella versione di Kent Nagano a Monaco anche qui le sette scene sono eseguite senza intervallo, ma Richard Jones non attualizza costumi e scenografie, bensì scava nella psicologia dei personaggi che vengono ripresi con intensissimi primi piani dalle luci quasi cinematografiche di Mimi Jordan Sherin e dal regista video Jonathan Haswell.

Capace di tutte le sfumature dinamiche estreme, dal sussurro al ruggito, Bryn Terfel è per la prima volta nel ruolo e in lingua russa. Non ho la competenza per giudicare se la pronuncia è corretta, ma ogni parola è scolpita e significante nel lavoro del cantante, quanto mai distante dagli esempi del passato, ma modernamente efficace grazie anche al suo timbro più chiaro rispetto agli storici Christoff e Ghiaurov che l’hanno preceduto nel ruolo.

Il cast è formato prevalentemente da interpreti inglesi di altissimo livello: dalla subdola figura del principe Šujskij di John Graham-Hall, alla sanguigna figura di Varlaam di John Tomlinson (veterano del ruolo di Boris qui alla ROH), al Grigorij di David Butt Philip, al santo folle di Andrew Tortise e al bravissimo giovane Ben Knight nella parte di Fëdor, generalmente affidata a un mezzosoprano. Estone è invece il Pimen del basso Ain Anger e lituano lo Ščelkalov di Kostas Smoriginas. Sorprendente il coro qui impegnato in pagine ardue e in una lingua ostica.

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La locandina dello spettacolo

Il gallo d’oro

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★★★☆☆

La favola ultima di Rimskij-Korsakov

«Insieme alla stesura delle memorie, Rimskij fece ancora in tempo a scrivere il suo testamento operistico, composto soprattutto nel biennio 1906-07 a un anno dalla morte. I tempi erano molto cambiati nella Pietroburgo di quegli anni, soprattutto dopo la sconfitta subita dalla Russia da parte del Giappone e dopo la rivoluzione del 1905, repressa dal potere nel sangue. Sono tempi difficili per Rimskij, sospettato dalla polizia zarista di collaborazionismo rivoluzionario. Puškin aveva scritto in versi una Storia del galletto d’oro (1) nel 1834, per criticare l’indolenza degli zar di allora, ma la parodia è efficace anche nel 1906. La fiaba del tirannico zar Dodon, che pretende di regnare dormendo, diviene molto allusiva: il paese era appena andato incontro alla distruzione della flotta e dell’esercito durante la guerra russo-giapponese. La rappresentazione dell’opera sollevò un clamoroso caso di censura: gli addetti volevano far tagliare numerose parti, ma l’autore si oppose e fece preparare una produzione francese per far eseguire l’opera a Parigi. Non tutto venne appianato e Il gallo d’oro divenne, prima ancora di essere eseguita, un simbolo della rivolta antizarista. Rimskij, innervositosi per le incertezze e l’atmosfera minacciosa, fu colpito da un attacco di angina pectoris, del quale morì senza veder rappresentata la sua ultima fatica operistica: un’inquietante fiaba malefica.» (Franco Pulcini)

Su libretto di Vladimir Ivanovič Bel’skij (lo stesso de La leggenda della città invisibile di Kitež), l’opera andò in scena il 7 ottobre 1909 al teatro Solodovnikov e il 6 novembre al Bol’šoj.

Prologo. Un astrologo annuncia al pubblico che sta per essere rappresentata una favola di fantasia, ma con una sua morale valida e attuale.
Atto I. Lo zar Dodon non riesce a dormire per i problemi che affliggono il suo regno. I figli e i consiglieri non sanno che dare suggerimenti insensati, finché l’astrologo si presenta con un gallo d’oro che segnala i pericoli. Lo zar potrà finalmente dormire tranquillo e riconoscente promette all’astrologo tutto quello che desidererà. Ben presto il sonno dell zar è interrotto dal chiccirichì del pennuto. Ad affrontare i nemici lo zar stesso si mette a capo dell’esercito.
Atto II. Tra le sventure della guerra lo zar scopre la morte dei suoi figli che si sono dati la morte a vicenda. Da una tenda appare la bellissima regina di Šemacha che seduce facilmente Dodon.
Atto III. La processione dell’ingresso dello zar e della promessa sposa è interrotta dall’astrologo che chiede come ricompensa la donna stessa. Lo zar rifiuta e lo colpisce. Il gallo d’oro fedele al suo padrone becca lo zar alla gola. Il cielo si oscura e il gallo e la regina scompaiono.
Epilogo. L’astrologo risuscitato torna in scena ricordando al pubblico che quello cui hanno assistito è solo illusione.

«Il gallo d’oro è dunque una satira politica del regime autocratico, svolta con sottile demonismo burlesco: il feticcio iettatorio e vendicativo del galletto crea infatti un clima infido, molto distante dal mondo dei balocchi infantili tipico dello Zar Saltan, precedente fiaba puškiniana. La ferocia della satira è resa acuminata dalla musica sottoposta a questa rissosa schermaglia fra marionette crudeli. In piena polemica antisentimentale, questi personaggi stilizzati cantano con forte tecnicismo strumentale: la freddezza del canto si coglie in quella bambola meccanica che è la regina di Šemacha, il cui orientalismo astratto esprime mirabilmente gli aspetti seducenti della malvagità femminile. Il libretto, di asciutto rigore ritmico, viene sorretto da uno stile musicale altrettanto pungente; l’orchestra è capace di durezze ben poco fiabesche, che già annunciano l’avvento dei grandi allievi di Rimskij destinati a maggior gloria: Stravinskij e Prokof’ev. Il gallo d’oro è pertanto opera di transizione fra il vecchio e il nuovo, nonché punto di arrivo in termini di modernità per un autore che si dimostra conservatore a parole e innovatore nella pratica.» (Franco Pulcini)

Nel 2002 molto tempo è passato dal debutto a Mosca e allo Châtelet di Parigi l’opera viene messa in scena da un giapponese, Ennosuke Ichikawa III, attore di teatro kabuki. E di origini giapponesi è pure il maestro concertatore, Kent Nagano. Questa produzione è stata creata nel 1984, a settant’anni dalla prima parigina dei Ballets Russes dove, con le scene di Alexandre Benois, l’azione era mimata da dei ballerini mentre i cantanti stavano fermi ai lati della scena.

Qui invece con i ricchissimi costumi di Tomio Mohri e la nuda scenografia di Setsu Asakura, la lettura atemporale e straniante voluta dal regista giapponese è pienamente convincente essendo la storia dell’inettitudine dei potenti sempre attuale: Puškin pensava agli zar del suo tempo (1834), Rimskij a Nicola II e alla sua pessima gestione del conflitto russo-giapponese, ma esempi di altre epoche e paesi non mancherebbero.

L’atmosfera da film di Kurosawa non stona con la musica così piena di echi orientaleggianti sia in orchestra sia nelle voci. L’impervio ruolo della regina di Šemacha richiede una tessitura tesa e molto alta, piena di melismi e vocalizzi. Olga Trifonova ha una bella voce, ma sforza negli acuti ed evita il mi del finale d’atto secondo. Cosa che non fa invece l’astrologo di Barry Banks: tutte le note sono rispettate e quelle più alte sono prese con sicurezza da questo eccellente cantante che dimostra potenza e facilità negli acuti. Molto bravi anche gli altri interpreti, compreso il gallo del titolo affidato a Yuri Maria Saenz. Kent Nagano alla guida dell’Orchestre de Paris mette magistralmente in luce i colori talora lividi della sontuosa partitura.

Nessun extra nei DVD, ma sottotitoli in italiano.

(1) Il titolo originale infatti, Золотой петушок (Zolotoj petušok), si riferisce a un galletto (петушок) non a un gallo (петух).

Aleko / Francesca da Rimini

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Sergej Rachmaninov, Aleko

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Sergej Rachmaninov, Francesca da Rimini

Nancy, Opéra National de Lorraine15 febbraio 2015

★★★☆☆

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Triangoli tragici

Da Carmen a Pagliacci a Il tabarro sembra che tra i nomadi i rapporti matrimoniali non siano destinati a durare molto: c’è sempre un elemento perturbatore, in genere giovane e bello, che viene a solleticare le voglie insoddisfatte della moglie. Aleko non fa eccezione. Fra le povere roulotte e le vecchie Citroën si è spento l’amore per Aleko di Zemfira a causa di un terzo uomo – non ha neanche un nome: è il “giovane zingaro” – e la furiosa vendetta del marito geloso non si fa attendere.

Scritta nel 1892 come saggio di fine corso al conservatorio di Mosca, l’atto unico del diciannovenne Rachmaninov è su libretto di Nemirovič-Dančenko tratto da Cygany (Gli zingari) che Puškin aveva scritto a Odessa e poi fatto pubblicare nel 1827. Rappresentato con successo un anno dopo al Bol’šoj, ebbe però la consacrazione nel 1903 quando un giovane Fëdor Šaljapin farà del ruolo di Aleko uno dei suoi cavalli di battaglia.

Ai toni da opera verista (in fondo il periodo è quello) sono contrapposti i cori (molto russi!) di cui l’atto unico è ricco e la melodizzazione esotica dell’accompagnamento orchestrale – l’azione e il tempo non sono determinati, ma il lavoro di Puškin è ambientato in Bessarabia. La regia di Silviu Purcărete prende toni felliniani e le danze non sono affidate ai gitani bensì ai saltimbanchi e all’orso, personaggio quest’ultimo che punteggia tristemente la vicenda. Eccellente per proprietà vocale e intensità espressiva è Alexander Vinogradov, un Aleko cui Rachmaninov regala una grande aria, un pezzo che viene spesso cantato in concerto dai grandi baritoni di oggi, da Il’dar Abdrazakov a Dmitrij Chvorostovskij.

Aleko è spesso abbinato, poco opportunamente, alla Iolanta di Čajkovski. Qui invece è il primo pannello di un dittico tutto Rachmaninov essendo Francesca da Rimini la seconda parte della serata. L’accostamento ci fa apprezzare da vicino la maturazione artistica del compositore da epigono di Čajkovski a un più personale e moderno stile musicale. Altra storia di triangolo amoroso che termina in tragedia su libretto di Modest Il’ič Čajkovskij fu scritta da Rachmaninov durante un suo viaggio in Italia ed è l’ultimo dei tre atti unici del compositore russo. Fu rappresentata nel 1906 assieme a Il cavaliere avaro.

La vicenda dantesca prevede due scene incorniciate da un prologo e un epilogo all’inferno. La lunga pagina orchestrale, un decimo della durata di tutta l’opera, con il coro che vocalizza ci introduce al girone infernale dove Dante e Virgilio incontrano gli amanti, Francesca ancora nel costume di Zemfira (è la stessa interprete, Gelena Gaskarova). Ricompare qui il marito vendicativo nella figura di Lanciotto, lo stesso Vinogradov, e si ripete l’assassinio della coppia.

Molto meno convincente l’allestimento di questo secondo atto unico, con quella danse macabre degli scheletri che più che Inferno dantesco ricorda un Halloween di periferia. La presenza di detti scheletri anche nelle due scene nel castello del Malatesta per mimare la vicenda di Ginevra e Lancillotto sembra poi inutile se non inopportuna, come il finale con l’arrivo all’inferno della Citroën, come se fosse così indispensabile dimostrare i parallelismi tra le due opere. La direzione orchestrale di Rani Calderon si adatta bene agli stili così diversi dei due atti unici, con un tocco particolarmente efficace negli ostinati e nella tensione del secondo.

Ruslan e Ludmilla

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★★★★☆

La seconda e ultima opera del papà dell’opera russa

L’ouverture è la pagina più conosciuta dell’opera, con quel tema dell’aria di Ruslan del secondo atto. Una pagina vivacissima tipica dello stile post-rossiniano in voga all’epoca (siamo nel 1842) in cui l’opera venne composta. La prima rappresentazione fu un solenne fiasco che fece cadere in profonda depressione il compositore, ma anche in seguito, a parte l’ouverture, l’opera fu conosciuta quasi solo per la versione coreografica del primo atto fatta da Djagilev nel 1909.

Due sole sono le opere per il teatro di Glinka: nel 1836 aveva esordito con Una vita per lo Zar, celebrante l’epopea di Ivan Susanin, eroe nazionale russo del XVII secolo. Ruslan i Ljudmila (Руслан и Людмила) era un poema epico romantico di Puškin uscito nel 1822 quando il poeta aveva 23 anni. Al libretto dell’opera di Glinka, poiché nel frattempo Puškin era morto e non fu possibile quindi coinvolgerlo nella stesura dei testi, misero mano ben cinque persone, oltre allo stesso compositore (1).

L’azione ha luogo nella Russia medievale e narra della principessa Ludmilla rapita il giorno delle nozze con il guerriero Ruslan. Come non ricordandosi del motivo dei festeggiamenti in corso, il padre principe Svetozar promette la figlia in moglie a chi dei tre pretendenti la saprà ritrovare. Si mettono dunque in viaggio l’amato Ruslan, il delicato Ratmir e il rozzo Farlaf. Nel secondo atto Ruslan scopre che il rapitore è il mago Černomor, ma è dalla strega Naina che si deve guardare. Infatti la vecchia megera ha promesso a Farlaf il suo aiuto per ritrovare Ludmilla. Attirati i pretendenti nel suo reame incantato, nel terzo atto Naina fa irretire i giovani da splendide fanciulle che soccomberebbero all’incanto se non intervenisse il mago Finn a far sprofondare quel regno di illusione. Nel quarto atto siano finalmente nel castello di Černomor il cui potere è nella lunghissima barba. In duello Ruslan taglia la barba al mago mettendo fine al suo potere. Nel quinto atto durante il viaggio verso Kiev la principessa sparisce ancora una volta ed è nuovamente Finn a fornire Ruslan di un potente strumento nella forma di anello magico. Ludmilla viene ritrovata immersa nel sonno dopo essere stata riportata nel suo palazzo da Farlaf, che però non riesce a ridestarla. Solo l’intervento dell’anello di Ruslan può porre fine alla vicenda lietamente con il popolo che festeggia la coppia finalmente riunita.

Nella trama sono presenti vari elementi fiabeschi che verranno utilizzati da quasi tutti compositori dell’Ottocento. L’ambientazione è fantastica, ma non assume i colori fiabeschi delle opere di Rimskij-Korsakov e i personaggi rimangono abbozzati nei tipi delle delle nazionalità russe. «Il padre della musica russa ha azzardato nel Ruslan una fusione originale tra l’opera fantastica di Weber e quella buffa di Rossini, pervenendo a un risultato piacevole, che traduce in una musica ammirevole l’aspirazione eroicomica del poema puškiniano» (Franco Pulcini).

Nel 1995 Valerij Gergiev dirige al Mariinskij con grande senso del racconto, ritmo nervoso e abbandono lirico un Ruslan e Ludmilla che viene registrato dalla Philips e riversato in DVD. Il cast è tra i migliori disponibili: Vladimir Ognovenko realizza qui il suo capolavoro d’artista, Larisa Djadkova en travesti è un memorabile Ratmir, mentre la Netrebko appare per la prima volta nella serie di incisioni realizzate da Gergiev al Mariinskij sfoggiando magnifico timbro e agilità belcantistiche.

La regia di Mansouri riprende il vecchio impianto scenografico e costumistico di Golovin con un sapiente impiego di proiezioni.

Come extra un’introduzione all’opera e un lungo documentario sulla carriera di Gergiev. Immagine in 16:9, tre tracce audio e sottotitoli in inglese.

(1) N.V.Kul’konic, M.A.Gedeonov, N.A.Markevič, K.A.Bachturin, V.F.Širkov

La dama di picche

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★★★☆☆

«Quest’opera ha in sé qualcosa di spaventoso»

Composta durante il soggiorno di Čajkovskij a Firenze e penultima delle sue dieci opere, La dama di picche (Пиковая дама, Pikovaia Dama) debutta al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo nel 1890. Il libretto scritto dal fratello Modest prende spunto dall’omonimo racconto di Puškin del 1834.

«L’idea di un’opera tratta dal racconto di Puškin era stata del sovrintendente dei Teatri Imperiali Ivan Vsevolozskij, che aveva commissionato il libretto a Modest Čajkovskij, fratello del compositore, e la musica a Nikolaij Klenovskij, prima incerto poi decisamente contrario alla proposta. La accettò invece Čajkovskij che, seguendo i suggerimenti di Vsevolozskij, decise di spostare l’azione dall’epoca di Alessandro I a quella di Caterina la Grande (che compare addirittura in scena alla fine della scena del ballo): un pretesto per introdurre nel rigoroso, stringato testo puskiniano qualche fastosa interpolazione da grand-opéra come l’affollatissima scena iniziale nel giardino d’estate o il ballo in maschera con intermezzo pastorale e visita imperiale. L’opera fu portata a termine con una rapidità quasi incredibile, in quarantaquattro giorni, tra il 30 gennaio e il 14 marzo 1890, a Firenze. Il compositore lavorò con tale frenesia da dover intervenire nella stesura del libretto, che il fratello non gli forniva con sufficiente velocità: sono suoi il coro d’apertura e l’aria di Eleckij “Ja vas ljublju” (‘Vi amo’) del secondo atto, l’aria di Liza “Uz polnoc’ blizitsja” (‘Già mezzanotte si avvicina’, III,2), scena a cui il compositore teneva moltissimo. Fu sempre Pëtr a suggerire al fratello l’inserimento di versi di famosi poeti russi: Zukovskij per il duetto “Uz Vecr” (‘Già sera’) di Liza e Polina (I,2); Batjuskov per la romanza di Polina “Podrugi milye” (‘Amiche care’) nella stessa scena; Karabanov, poeta di corte di Caterina, per il testo della pastorale; Derzavin per la canzone di Tomskij “Eslib milye” (‘Se le gentili fanciulle’, III,3). Nelle molte lettere al fratello, il compositore non nasconde la sorpresa e la soddisfazione per l’inatteso slancio creativo. E a proposito della scena finale: “Ho composto l’ultima scena ieri prima di pranzo: quando sono arrivato alla morte di German e al coro finale ho provato un tale dolore per lui che mi sono messo a piangere disperatamente. Un pianto che è durato a lungo e si è trasformato in una sorte di dolce attacco isterico: era così piacevole piangere. German si è trasformato da semplice pretesto per scrivere musica in uomo vivo, reale, e soprattutto simpatico”. […] Ben poco del testo puskiniano è rimasto nella versione dei fratelli Čajkovskij: nel racconto German non è innamorato di Liza e finge di corteggiarla per poter avere accesso alla contessa; Liza è la pupilla, non la nipote della contessa, e non si suicida bensì va sposa, al termine della vicenda, a un simpatico impiegato; nemmeno German si suicida, ma finisce in manicomio e continua a borbottare “Tre, sette, asso; tre, sette, donna”. Puskin non ha scritto una vicenda di passione e di morte, come risulta essere l’opera cajkovskiana, ma l’inquietante storia di un’ossessione, di un’idea fissa. Al centro dell’opera di Čajkovskij c’è invece la travolgente passione di German per Liza, che diventa appunto la nipote della contessa ed è felicemente fidanzata con il principe Eleckij, personaggio nuovo, assente nel racconto. German diventa così ‘l’uomo del destino’ sia per Liza, che viene travolta dalla sua passione, sia per la contessa, che sente in lui, nel suo sguardo di fuoco, una volontà malefica e distruttiva». (Fausto Malcovati)

Atto primo. Scena prima. È primavera e nel giardino d’estate balie e governanti si godono il bel tempo mentre i bambini giocano, si divertono. Due ufficiali, Cekalinskij e Surin passeggiano commentando lo strano comportamento dell’amico Hermann, capace di osservare per intere nottate giocatori dei tavoli da gioco senza mai partecipare. Sopraggiunge Hermann con il conte Tomskij: alla domanda perché sia così cupo risponde confessando di essere pazzamente innamorato di una sconosciuta fanciulla. Arriva anche il principe Eleckij, con cui tutti si congratulano per il recente fidanzamento, e la vecchia contessa con la nipote Liza: Eleckij si precipita a salutare la fidanzata mentre Hermann, con orrore, riconosce in lei l’oggetto del suo amore. Liza e la contessa si dicono turbate dall’inquietante aspetto di Hermann, mentre questi è atterrito dallo sguardo severo della contessa, Eleckij dallo sconcerto di Liza, Tomskij dalla reazione di Hermann. Uscite le due donne, Tomskij racconta la storia della contessa: a Parigi, ai tempi di Richelieu e della Pompadour, faceva strage di cuori e giocava accanitamente. Una volta, avendo perso una somma enorme, fu aiutata dal conte di Saint-Germain che, in cambio di una notte d’amore, le rivelò un segreto: tre carte che, giocate una dopo l’altra e poi mai più, le avrebbe restituito l’intera perdita. Così fu: la contessa rivelò il segreto solo al marito e più tardi a un amante che poi la abbandonò. Ma, una notte, un fantasma le apparve in sogno: se ci fosse stato un terzo uomo a sapere il segreto, costui sarebbe stato il suo assassino. Scoppia frattanto un temporale; tutti fuggono e rimane in scena solo Hermann, che giura di strappare Liza a Eleckij. Scena seconda. Liza è nella sua camera con alcune amiche e accompagna al clavicembalo la confidente Polina in un duetto; Polina canta poi una romanza e tutte insieme le amiche cantano e ballano un motivo popolare, ma vengono interrotte dalla governante, scandalizzata dalla volgarità del ballo. Liza resta sola: sul balcone appare Hermann, che si butta ai suoi piedi e le rivela il suo amore. All’arrivo della contessa, che ordina alla nipote di coricarsi, Hermann si nasconde sul balcone, e i due si dichiarano a vicenda il loro amore.
Atto secondo. Scena prima. Nel palazzo di un nobile pietroburghese è in corso un ballo in maschera. Cekalinskij e Surin sospettano che Hermann voglia strappare il segreto delle tre carte e decidono di prendersi gioco di lui. Eleckij fa una dichiarazione d’amore a Liza, che, profondamente turbata, dà appuntamento per quella notte stessa a Hermann nella sua camera, dandogli la chiave di un passaggio segreto. Il ballo si conclude con un intermezzo, ‘La sincerità della pastorella’, e con la comparsa della zarina Caterina. Scena seconda. Nella camera da letto della contessa entra di nascosto Hermann, che all’arrivo della contessa si nasconde in un boudoir. Stanca ma incapace di dormire, la contessa rievoca i suoi tempi d’oro. Hermann esce dal suo nascondiglio e le chiede con foga di rivelargli il suo segreto: di fronte al silenzio della vecchia, estrae la pistola minacciandola e la contessa crolla a terra morta. Entra Liza e, di fronte al suo terrore, Hermann le rivela la verità: non voleva ucciderla, ma solo conoscere il segreto delle tre carte. Liza lo caccia maledicendolo: non era dunque amore quello di Hermann per lei, ma interesse.
Atto terzo. Scena prima. Nella sua camera Hermann legge un biglietto di Liza, che gli chiede un incontro chiarificatore e ripensa al funerale della vecchia (si sente in lontananza un coro funebre): gli è sembrato che il cadavere gli strizzasse l’occhio. Dei colpi alla finestra, una folata di vento, poi appare lo spettro della contessa, che gli rivela le tre carte: il tre, il sette e l’asso, a patto che sposi Liza. Scena seconda. È notte. Liza, in attesa dell’amato lungo il canale d’inverno, esprime tutta la sua disperazione e insieme la speranza di essersi ingannata. Hermann arriva, le rivela di aver appreso il segreto e cerca di convincerla a seguirlo nella casa da gioco. Liza si rende conto che per lei ormai tutto è perduto: lo lascia partire e si getta nel fiume. Scena terza. Nella casa da gioco sono riuniti Surin, Caplickij, Narumov ed Eleckij, che annuncia di aver rotto il fidanzamento con Liza, e Tomskij, che, su richiesta dei convitati, canta una canzone. Entra Hermann e comincia a giocare: vince la prima volta, vince la seconda; quindi esprime a tutti il suo disprezzo per la vita, il suo desiderio di cogliere l’attimo fuggente. All’ultima puntata suo avversario è Eleckij, desideroso di vendetta. Hermann perde, gli appare il fantasma della contessa ed egli si spara un colpo: in agonia, chiede perdono a Liza, mentre i giocatori intonano un coro funebre.

L’adattamento di Modest Čajkovskij trasforma inizialmente la vicenda in una storia d’amore che è del tutto assente nella narrazione originale, ma poi, complice anche l’intervento del musicista stesso, la storia prende una svolta più sulfurea con quella inquietante figura della vecchia contessa e del suo segreto.

Nel secondo atto il pastiche rococo di danze con quell’accenno al tema di Papageno è un affettuoso omaggio del compositore al suo idolo Mozart e costituisce un efficace contrasto con la scena notturna dell’incontro di Hermann con la vecchia contessa.

Nello stesso teatro del debutto di cento anni prima, Valerij Gergiev e Yuri Temirkanov fanno rivivere la tragica vicenda, con grande autorità e dispiegamento di mezzi sonori il primo e con una messa in scena datata che non si stacca dalla più consolidata tradizione il secondo. Questo è uno di quei casi in cui la ricchezza dei costumi e delle scene nasconde la mancanza di idee originali o di lavoro interpretativo sui personaggi.

Gegam Grigorian e Maria Guleghina hanno fiato a sufficienza per contrastare l’orchestra, ma il primo ha un timbro non proprio piacevole. Ludmila Filatova è un’efficace vecchia contessa.

Immagine in 16:9 e due tracce audio. Qualche anno fa i DVD come questo avevano ancora i sottotitoli in italiano. Ora li hanno in coreano.

Evgenij Onegin

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★★★★☆

Una fortunata produzione

Una storia d’amore inutilmente confessato, non corrisposto, tradito, rim­pianto non po­teva trovare che in Čajkovskij il compositore ideale, mentre as­sisteva al fallimen­to del suo matrimonio di convenienza e piombava nella più cupa depressio­ne.

Il romanzo in versi di Puškin Евгений Онегин era uscito nel 1833 a San Pietroburgo quattro anni prima che il poeta morisse in duello proprio come il Lenskij del suo poema. Čajkovskij compose le sue “Scene liriche” traendole dall’opera di Puškin ma tralasciandone parecchi dettagli poiché il pubblico russo conosceva molto bene la vicenda. La prima ebbe luogo nel 1879 con la messa in scena degli studenti del Conservatorio di Mosca al teatro Malyi prima di affrontare il più impegnativo Bol’šoj.

Atto primo. Scena prima. Nel giardino dei Larin, mentre la padrona di casa con la njanja rievoca la sua giovinezza e i suoi amori, le sue due figlie Tat’jana e Ol’ga cantano un duetto sul testo di una lirica giovanile di Puskin, Il poeta. Arriva un gruppo di contadini per festeggiare la fine del raccolto: offrono un covone alla padrona e intonano due canti popolari, il primo inventato da Cajkovskij, il secondo tratto da una danza di origine popolare che le ragazze eseguono ballando in cerchio intorno al covone. Segue un arioso di Ol’ga in cui mette a confronto il proprio carattere spensierato con quello inquieto della sorella. Escono i contadini e arriva il poeta Lenskij, vicino di podere e fidanzato di Ol’ga, con un amico, Onegin, di recente trasferitosi da Pietroburgo nel podere di uno zio: i due amici e le due sorelle commentano l’incontro in un quartetto. Poi si formano due coppie: Onegin e Tat’jana conversano allontanandosi mentre Lenskij fa un’appassionata dichiarazione d’amore a Ol’ga. Rientrano Tat’jana, già palesemente innamorata e Onegin che, parlando di sé, introduce la famosa strofa iniziale del poema. Scena seconda. È notte. Tat’jana non riesce a dormire, chiede alla njanja di raccontarle dei suoi antichi amori; le confessa poi il suo sentimento per il nuovo ospite e chiede di lasciarla sola con carta e penna. Segue la lunga (dodici minuti) aria della lettera: Tat’jana confessa la sua passione totale e assoluta per Onegin, nata dal primo istante e destinata a durare in eterno. È ormai l’alba: la njanja ritorna e trova Tat’jana ancora sveglia. Nel duetto che segue, mette in guardia la fanciulla dai pericoli delle troppo rapide passioni. Tat’jana chiede alla njanja di far recapitare la lettera da un nipote. Scena terza. In un angolo del giardino un gruppo di contadine raccoglie bacche cantando una canzone. Entra Tat’jana correndo, si abbandona su una panchina e si dispera per il gesto compiuto. La raggiunge Onegin, che con parole pacate e fredde le rimprovera la mancanza di controllo e le spiega le ragioni del suo rifiuto: certo, se volesse sposarsi, sarebbe la moglie ideale, ma l’inquietudine, l’angoscia gli impediscono qualsiasi unione duratura. Poi le offre il braccio e si allontanano insieme.
Atto secondo. Scena prima. È l’onomastico di Tat’jana e in casa Larin c’è un ballo con la banda militare che suona. Onegin, irritato dalla vacuità degli invitati, decide di corteggiare Ol’ga, facendo ingelosire Lenskij. Monsieur Triquet, istitutore presso alcuni vicini, canta alcuni couplets in onore della festeggiata. Durante la mazurka, Onegin balla ancora con Ol’ga; poi ha uno scontro con Lenskij che, giunto al limite dell’esasperazione, lo sfida a duello. Scena seconda. In campagna, nei pressi di un mulino, Lenskij aspetta Onegin con il suo secondo Zareckij: presentendo la morte, canta disperato il suo amore per Ol’ga. Arriva Onegin accompagnato, invece che da un secondo, dal suo cameriere Guillot. Tutto è pronto per il duello: Onegin spara per primo e uccide Lenskij.
Atto terzo. Scena prima. Nel salone di un palazzo pietroburghese si sta svolgendo un ballo. Onegin, tornato da poco da una serie di viaggi, in un angolo esprime noia e insoddisfazione per la sua vita vacua. Entra il principe Gremin con Tat’jana, diventata sua moglie e trasformatasi in un’elegantissima dama del bel mondo. Onegin stenta a riconoscerla e chiede di lei a Gremin, suo vecchio amico. In risposta Gremin gli rivela tutta la felicità della sua vita matrimoniale. Dopo un breve e formale saluto al suo antico amore, Tat’jana, fingendosi stanca, si allontana al braccio del marito. Onegin si scopre innamorato come un ragazzo e fugge, deciso a raggiungere l’amata. Scena seconda. In una stanza del palazzo Gremin, Tat’jana legge una lettera di Onegin in cui le dichiara il suo amore. Piange, tormentata dal risvegliarsi in lei della passione. Entra Onegin, le si butta ai piedi: Tat’jana trova la forza di ammettere il suo amore ma di rifiutarlo in nome della fedeltà al marito e dà per sempre l’addio a Onegin.

L’edizione in oggetto è quella del Metropolitan Opera di New York, partico­larmente apprezzata e riproposta da tempo. Questa è la registrazio­ne del 2007 e la regia è di Robert Carsen il quale questa volta non adotta alcuna at­tualizzazione, i costumi sono filologicamente d’epoca (secondo il gusto del­la provincia russa dell’ottocento nella prima parte, molto più eleganti nel pa­lazzo nobiliare di Mosca), così come i mobili e tutte le suppel­lettili. Una re­gia che sarà piaciuta ai più tradizionalisti, ma con un’intelli­gente e attenta cura dei particolari, con efficaci e belle luci che danno vita a una scatola vuota semplicissima. Bellissima la scena della vestizione di Onegin dopo il duello, con ancora il cadavere di Lenskij a terra.

Come sempre nella regia di Carsen essenziale è il gioco attoriale degli interpreti. E qui abbiamo Renée Fleming, non più giovanissima per la parte di Tat’jana (ma non lo era neanche Mirella Freni, immensa in questa parte quando era ultrasessanten­ne), comunque ineccepibile sia vocalmente che scenicamente.

Nel ruolo del titolo un elegantissimo e inizialmente gelido Dmitrij Hvorov­stoskij che però nel corso dell’opera diventa sempre più intenso e convin­cente. Ramón Vargas è un ottimo Lenskij, così come Elena Zaremba, Olga. Nel ruo­lo di Triquet il cammeo buffo di Jean-Paul Fouchécourt. Valerij Gergiev infiamma in modo acconcio nei momenti più intensi dell’o­pera l’orchestra del MET e il pubblico risponde in maniera particolarmente calorosa.

Due dischi con extra interessanti. Ottima immagine, due tracce audio, sottotitoli anche in italiano.

Boris Godunov

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★★★★★

L’intenso Boris di Bieito

Борис Годунов (Boris Godunov) di Musorgskij è sì un ritratto della Russia della fine del XVI secolo, ma è soprattutto una riflessione su temi più universali come la natura del potere e del prezzo che si paga per ottenerlo e mantenerlo. Porre però una figura di cinquecento anni fa nel suo contesto storico non fa che rendere più distante il soggetto da un pubblico moderno, mentre l’attualizzazione del contesto rende questi temi ancora più evidenti senza tradire lo spirito dell’opera d’arte. Se poi l’operazione è fatta da un regista magari provocatore, ma intelligente, come Calixto Bieito e la meravigliosa musica viene dipanata da un maestro come Kent Nagano si è certi del successo, così come è avvenuto all’Opera di Monaco nel febbraio 2013. La produzione sarà ripresa nel marzo 2014. Un’occasione da non mancare.

Il forte impatto teatrale della rappresentazione si manifesta fin dalla prima scena, con il popolo costretto a inneggiare ai grandi della terra innalzando dei manifesti (distribuiti loro dalla polizia) su cui campeggiano le facce dei potenti – e ci sono tutti: Putin, Berlusconi, Sarkozy, Cameron… Momenti di grande intensità si succederanno poi senza tregua: l’innocente tormentato da bambini nati e cresciuti in mezzo alla crudeltà e quindi spietati a loro volta; la sua uccisione da parte di una bambina cui Šujskij mette in mano una rivoltella, un momento di violenza quasi insopportabile; la scena dei boiardi corrotti da Šujskij, la morte di Boris mentre i suoi figli (qui sono figlie) vengono trucidati. Non c’è passaggio di potere da Boris a Fédor in questa messa in scena. Il tema religioso (preghiere, benedizioni, invocazioni al cielo mentre mazzette di denaro e violenze efferate si succedono senza soluzione di continuità) hanno una tragica valenza in questa ambientazione contemporanea se pensiamo al ruolo che l’attuale chiesa ortodossa russa ha nella amministrazione Putin e nella sua emanazione di leggi liberticide.

La versione scelta da Nagano è la prima, quella del 1869. Ne seguiranno altre sei (1): la revisione di Musorgskij del 1872 che introduce elementi nuovi non presenti nell’opera di Puškin da cui deriva, le due versioni di Rimskij-Korsakov del 1896 e 1908, le due di Šostakovič del 1940 e 1959 e infine quella di Rathaus del 1952. La scarna ma possente partitura viene eseguita qui senza intervallo e ciò permette di evidenziare la fluidità dell’opera, senza togliere nulla alla sua epicità. I singoli quadri sono separati da intense lunghe pause di silenzio. (2)

Il giovane e prestante basso ucraino Alexander Tsymbalyuk è un Boris lontanissimo dai modelli della tradizione (Šaliapin, Christoff, Ghiaurov) e più nella linea del recente Boris di Orlin Anastassov. Senza gigioneggiare o strabuzzare gli occhi ci dà un ritratto intenso dello zar devastato dal rimorso. Altrettanto eccellente il Pimen di Anatoli Kotscherga, ma di buon livello anche il resto del cast.

Bellissime le scenografie e le luci. Ottima regia video di Andy Sommer. Nel disco non ci sono extra né sottotitoli in italiano.

(1) Una precisa analisi delle varie edizioni si trova ad esempio in Elvio Giudici, L’Ottocento, Volume primo della sua L’opera: storia, teatro, regia.

(2) Antefatto. Dopo la morte di Ivan il Terribile il boiardo Boris Godunov viene nominato reggente di Fëdor, fisicamente e mentalmente fragile primogenito di Ivan mentre l’altro figlio Dmitrij è ancora un infante. Otto anni dopo Dmitrij muore misteriosamente e molti pensano che sia stato Boris a ordinarne l’assassinio. Non essendoci eredi diretti al trono lui è il miglior candidato per diventare zar.
Scena I. Boris si è ritirato in un monastero e una folla si accalca fuori per supplicarlo ad accettare il trono. Boris è riluttante, dice alla folla il segretario del Consiglio dei Boiardi Ščelkalov.
Scena II. Boris è infine incoronato zar tra le acclamazioni della folla.
Scena III. Sono passati gli anni e Boris si è dimostrato un sovrano buono e saggio. Nel monastero del Cremlino Pimen viene interrotto dal  novizio Grigorij che ha avuto un incubo. Grigorij chiede a Pimen di parlargli del passato della Russia. Pimen gli racconta di Ivan, della santità di Fëdor e dell’assassinio di Dmitrij. Sentendo che la vittima gli assomiglia e avrebbe la sua stessa età, Grigorij architetta un piano per fingersi Dmitrij e scatenare la rivolta contro lo zar Boris.
Scena IV. Grigorij arriva in una taverna ai confini della Lituania dove gozzovigliano i monaci Varlaam e Missail. La guardia di frontiera ha un ordine di arresto per  Grigorij che prima svia i sospetti su Varlaam e poi riesce a fuggire.
Scena V. Nell’appartamento dello zar Fëdor studia la mappa della Russia con il compiacimento del padre Boris. Il principe Šujskij arriva con la notizia che un uomo che sostiene di essere Dmitrij è apparso in Lituania. Boris ordina la chiusura della frontiera e chiede a Šujskij assicurazioni che Dmitrij sia effettivamente morto. Il principe insinua che il corpo morto potrebbe aver preso miracolosamente vita. Boris spaventato ha allucinazioni in preda al rimorso.
Scena VI. Fuori della cattedrale di san Basilio la folla parla del pretendente mentre un santo folle intona una canzone senza senso e viene dileggiato dai bambini che gli rubano l’unico copeco che possedeva. Boris esce dalla cattedrale e la folla affamata chiede pane. Il santo folle chiede a Boris che i bambini che gli hanno rubato la moneta vengano giustiziati come lui ha fatto con Dmitrij. Šujskij lo vuole far arrestare, ma Boris invece gli chiede di pregare per lui. Il folle si rifiuta di pregare per lo “zar Erode” e piange per il destino della Russia.
Scena VII. Il Consiglio dei Boiardi è d’accordo sul fatto che Grigorij e i suoi seguaci debbano essere giustiziati. Pimen entra e racconta a Boris che dopo la morte Dmitrij è diventato un santo e ha ridato la vista a un cieco. Boris scoppia in una crisi, allontana tutti e si congeda dal figlio Fëdor consegnandogli il potere, prega di essere perdonato e muore.