Camille du Locle

Don Carlo

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 Giuseppe Verdi, Don Carlo

Vienna, Staatsoper, 3 ottobre 2024

(video streaming)

★★★★☆

Serebrennikov e i costumi del Don Carlo

Sorprende che un teatro così tradizionalista come la Wiener Staatsoper chiami un regista come Kirill Serebrennikov a mettere in scena Don Carlo. Nella registrazione di Arte si sente uno spettatore esprimere la sua disapprovazione prima ancora che sia stata suonata una sola nota e senza nemmeno aspettare di vedere quali siano le intenzioni del regista. Se non è pregiudizio questo! Ma scommetto che alla ripresa nella primavera 2025 questo sarà lo spettacolo più acclamato della stagione.

L’edizione scelta è quella italiana in quattro atti del 1884, quella in cui l’elemento politico della vicenda è più evidente. Il regista e cineasta, riparato in Europa dalla Russia, sceglie un’ambientazione contemporanea ma con rimandi alla vicenda storica nei costumi che costituiscono la chiave della sua lettura. L’occasione è raccontata dal regista stesso ed ispirata dalla sua visita al museo del costume di Kyoto. Siamo infatti nel laboratorio dell’Istituto di Ricerca sul Costume di San Yuste, dove gli scienziati studiano l’abbigliamento storico e ricreano gli abiti dell’epoca di Filippo II. Elisabetta, una scienziata del laboratorio, è tormentata dal matrimonio con il padre di Carlo, il tirannico direttore dell’Istituto che ha una tresca con Eboli. Essi vedono riflessi nel passato le loro stesse vite e i loro problemi. Nel libretto molta importanza viene data all’abbigliamento e all’aspetto: Rodrigo ed Eboli discutono della bellezza e della grazia delle donne francesi, mentre su uno schermo vengono proiettate immagini dei dettagli dei costumi. I personaggi principali hanno infatti il loro specchio nei modelli storici con cui vengono vestiti degli attori e vediamo infatti i ricercatori addobbare con ricchi costumi i personaggi di Filippo II, del figlio Carlo, di Isabella di Valois e della principessa di Eboli – ma non Rodrigo, una figura non storica inventata da Schiller – con l’obiettivo di presentarli in una mostra. Verrano poi spogliati quando viene rivelato il loro vero io. I quattro personaggi attuali sopra gli abiti di tutti i giorni indossano, spesso controvoglia, dei prototipi neri imbastiti quando entrano nei loro ruoli e si rendono conto delle motivazione delle loro controparti storiche.

Attraverso Carlo, Elisabetta, Filippo II e anche Rodrigo ed Eboli noi sperimentiamo i conflitti umani in un mondo che pone ostacoli sul cammino, ostacoli che non devono necessariamente includere la conquista delle Fiandre: l’orrore della guerra è qui paragonato allo sfruttamento delle fabbriche asiatica di abiti a basso costo e alla catastrofe ambientale che ne consegue. Carlo indossa una semplice maglietta con lo slogan “Libertà” attaccato con del nastro adesivo mentre quella di Rodrigo recita “Salviamo la nostra terra”, Posa infatti è un attivista che protesta contro le condizioni di sfruttamento dei lavoratori a basso costo, una figura anacronistica nel suo proclamare la sua idea di umanità in un mondo che non l’accetta. Qui non viene ucciso dal solito colpo di pistola, ma facendolo diventare un altro anonimo lavoratore, senza faccia, che fa parte integrante del sistema.Questi messaggi sono ciò che è veramente importante e qui acquistano una forza reale nelle immagini che sono altrettanto efficaci, come l’autodafé messa in scena dagli attivisti che interrompono la storica sfilata di moda per protestare contro la distruzione dell’ambiente. Il rogo qui è il rogo del pianeta.

Che poi un’opera come il Don Carlo di Verdi abbia bisogno di una interpretazione complessa che aggiunge ulteriori livelli a quelli già presenti è da discutere, ma la forza teatrale e la coerenza della lettura di Serebrennikov sono fuori questione. «Verdi non rende facile la vita del regista», scrive Serebrennikov, «È difficile mettere in scena le sue opere in modo razionale e c’è il serio rischio di trovarsi in un vicolo cieco concettuale. Un capolavoro così compatto e dalla struttura accattivante come il Don Carlo parla quasi da solo, resistendo a tutta una serie di tecniche di produzione moderne. Come regista, quindi, mi sono trovato ad affrontare una grande sfida. La seguente considerazione è diventata la chiave del mio concetto: Schiller stesso una volta ha descritto l’opera come “un ritratto di famiglia in una casa principesca”. Questo significa che dobbiamo guardare all’ambientazione storica e sociale della sua storia e dei suoi personaggi. Ma ho dovuto trovare il mio accesso artistico a tutto questo perché l’opera fosse un vero teatro e non un “concerto in costume”, come descriviamo gli spettacoli d’opera con una messa in scena statica e la mancanza di interpretazione drammatica e questo significava che dovevo drammatizzare i costumi stessi e abbiamo deciso di ricostruire i costumi degli attori storici con un elaborato processo. I costumi ufficiali degli originali storici dei personaggi dell’opera […] sono documentati in una serie di ritratti a figura intera del XVI secolo, questi ritratti e le loro rappresentazioni sono soprattutto rappresentazioni di potere».

La partitura di Verdi è resa con vigore da Philippe Jordan alla guida dei Wiener Philharmoniker in grande forma. Nelle note sul programma di sala il direttore svizzero spiega la sua preferenza per questa versione –che aveva comunque eseguito nella versione originale francese in cinque atti a Parigi – «Ho una particolare predilezione per la versione di Milano: quella francese è sicuramente più coerente e logica, tuttavia, la drammaturgia del Don Carlo italiano sembra più equilibrata, soprattutto nella versione in quattro atti, che non inizia nella foresta di Fontainebleau ma nel monastero. In primo luogo, si crea un arco più efficace dall’inizio alla fine dell’opera, che si svolge anch’essa nel monastero, e in secondo luogo, l’impressionante autodafé e la scena con il Grande Inquisitore vengono spostate al centro dell’azione, rendendo la struttura più uniforme. Si assiste a un meraviglioso crescendo dal primo atto a un finale altamente drammatico, in cui il tema atmosferico e commovente della nostalgia della morte può essere vissuto ancora più chiaramente». Già l’inizio lascia già presagire una grande interpretazione: quattro corni all’unisono e perfettamente intonati armonizzano fin dalle prime battute e da quel momento in poi l’orchestra dimostra una lucentezza che avvolge tutto, fino all’intimo assolo di violoncello che decide l’atmosfera degli ultimi due atti. 

Cast di eccezione dominato dalla intensissima Elisabetta di Asmik Grigorian che debutta e ne fa uno dei ruoli più splendenti della sua luminosissima carriera. «Tu che le vanità» sono dieci minuti di canto intensissimo e regale che coronano una performance sconvolgente. Molto bene anche il mezzosoprano Ève-Maud Hubeaux, splendida Eboli qui a Vienna in tempo di pandemia e a Ginevra l’anno scorso, figura dalla magnetica presenza scenica e vocale che, dopo una maiuscola interpretazione della Canzone del velo con tutti gli abbellimenti richiesti, ha consegnato un «O don fatale» festeggiatissimo dal pubblico. Magnifico anche il sensibile e umano Posa del baritono Étienne Dupuis mentre troppo teso e fuori stile il Carlo di Joshua Guerrero. Gloriosamente ben delineato il Filippo II di Roberto Tagliavini e giustamente minaccioso il Grande Inquisitore di Dmitrij Ul’ianov, Filippo II l’anno scorso a Ginevra.

Don Carlo

 

 

 Giuseppe Verdi, Don Carlo

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2023

(diretta televisiva)

«Imbarazzante concerto in costume». «Spettacolo da ascoltare, non da vedere». «Serata bicefala tra vista e udito»

Non c’è recensione dello spettacolo inaugurale della stagione milanese che non riporti questa dicotomia tra una “regia musicale” di grandissimo livello e una “regia visiva” a dir poco conservativa, tanto che chi si fosse messo a guardare la diretta televisiva del 7 dicembre 2023 avrebbe pensato di trattarsi di un Sant’Ambroeus di cinquant’anni fa.

Terzo Don Carlo nel giro di pochi giorni in teatri non distanti tra loro – dopo quello del Circuito Emiliano e quello dell’OperaLombardia, anche il Teatro alla Scala inaugura per l’ottava volta la sua stagione con il capolavoro di Giuseppe Verdi – rigorosamente nella versione italiana del 1884 in quattro atti, vista ben 204 volte nella sala del Piermarini, ancora si aspetta di ascoltarne la versione originale in francese e in cinque atti, comunemente rappresentata invece nei teatri d’oltralpe, come è successo a Ginevra pochi mesi fa.

La trasmissione televisiva è stata fortemente disturbata per il maltempo nella zona in cui mi trovavo, tanto da non poterne fare una cronaca attendibile. Riporto quindi le opinioni di alcuni critici presenti in teatro di cui condivido l’opinione su quello che sono riuscito a vedere. Sulla regia di Lluís Pasqual così scrive Domenico Ciccone di OperaClick: «Limitandoci agli allestimenti visti negli ultimi 30 anni, dopo l’ipertrofismo folclorico di Zeffirelli, il concettualismo dei doppi di Stephane Braunschweig e il minimalismo in saldo di Peter Stein, abbiamo ora l’appagante didascalismo di Lluís Pasqual. Appagante, beninteso, per tutti coloro che continuano a invocare il ritorno all’Epoca d’Oro del Melodramma dove lo strapotere dei registi era di là da venire e si metteva in scena solo ed esclusivamente quello che l’autore voleva. E qui l’occhio viene per l’appunto appagato dai magnifici costumi di Franca Squarciapino, splendenti di oro e di un nero abbagliante (perdonateci l’ossimoro), con gorgiere e gioielli che evocano tutto il fasto della corte spagnola di metà seicento. Soluzioni di pregio vengono anche dall’impianto scenico di Daniel Bianco, una grande torre di alabastro che ruotando su sé stessa si apre a rivelare i vari ambienti librettistici, con contorno di cancellate istoriate, statue, busti e una gigantesca pala d’altare barocca dove alla fine dell’Autodafè troveranno posto Filippo ed Elisabetta (e grande merito va riconosciuto alle maestranze scaligere nella realizzazione pratica dell’impianto scenografico). Ma a fronte di tutto ciò la regia propriamente detta latita parecchio, se non del tutto, e quando qualcosa si vede, si vede proprio male. Pasqual ha in più occasioni dichiarato di aver voluto addentrarsi nelle quinte del potere e anche per questo mostrare l’Autodafé non come una sfilata di regime ma facendone vedere il backstage, la preparazione. Francamente non abbiamo trovato nulla di tutto ciò in una regia estremamente rinunciataria, dove lo sfarzo di corte verrebbe evocato con citazioni più o meno palesi dei dipinti di Velazquez, specialmente nella scena di San Giusto al primo atto che vede un ballo con tanto di nani e meninas reali a parodiare quanto si ascolta nella canzone del velo. Per il resto, il coro viene regolarmente lasciato ai lati del palco a mo’ di contorno fisso, i personaggi davanti al proscenio più o meno fissi anche loro, in piedi o stesi in terra. Una mano registica propriamente detta dovrebbe poi fare in modo che non si verifichino cose come Filippo II che intima a Posa “Restate!” avendolo avuto sempre alle sue spalle (e quindi con evidenti poteri divinatori nel sapere che stava andando via), o l’ingresso anticipato dello stesso Posa nella scena del carcere mentre sta scendendo la grata che dovrebbe delimitare il carcere stesso, tale che lo si vede attendere pazientemente prima di avanzare e aprire un cancelletto. Ma il culmine si raggiunge proprio nella scena dell’Autodafè, quando sotto il coro “Spuntato ecco il dì d’esultanza” entra una pletora di dame di corte e frati domenicani che si stendono informalmente a terra modello scampagnata, mentre gli eretici incappucciati vengono scortati da guardie reali a precipitare dentro una botola (metafora dell’averno infernale?) nella quale entrano con fin troppo evidente saltino effetto “Oplà!”. Botola che poi si incendierà nel finale davanti alla pala d’altare umana succitata, con effetto barbecue di campagna; una cosa francamente imbarazzante che giustifica da sola i sacrosanti fischi indirizzati al regista nelle uscite finali».

Non molto diverso è quanto scrive Alessandro Mormile su Connessi all’Opera: «Stupisce che, in tempi in cui il dibattito fra tradizionalisti e sostenitori del Regietheater si fa sempre più acceso, chiedendosi dove debba posizionarsi l’ago della bilancia per trovare un giusto equilibrio, questo allestimento, che nasce forse con l’intento di accontentare tutti, fallisce il suo obiettivo, confermando come attenersi alla tradizione sia talvolta più difficile che provocare. Questo Don Carlo nasce infatti seguendo una linea d’intenti giusta, quella di mettere in evidenza la rivalità fra due poteri forti, quello dello Stato e della Chiesa, che condizionano anche i personaggi, smarriti e soli dinanzi all’incomunicabilità dovuta a contrasti politici e alle conseguenze di amori impossibili o non corrisposti; il tutto frutto di un dolore che diviene smarrimento d’anime. Ecco perché scegliere la via della tinta scura e monocroma potrebbe sembrare plausibile, se non fosse che regia e impianto scenico stesso appaiono troppo rigidi e monotoni: nulla altro che una torre centrale in finto alabastro che aprendosi a spicchi su una pedana girevole mostra cancellate finemente intarsiate e microcosmi spaziali, avvolti per lo più nelle tenebre, dove la vicenda si svolge. Neri sono anche i costumi in stile rinascimentale e l’oscurità è rotta solo da pennellate auree che, soprattutto nella scena dell’autodafé, si palesano nel gigantesco retablo dorato che domina la scena come segno di potere, fino a quando gli eretici sanguinanti vengono buttati in una botola e poi abbrustoliti con un improbabile fuocherello da caminetto artificiale mentre in sala vengono date le mezze luci al momento in cui la voce dal cielo invoca la pace divina per le «povere alme» sacrificate. Per altro anche le coreografie che mostrano, nel secondo quadro del primo atto, le ancelle della Principessa d’Eboli danzanti con un gruppo di nani lasciano alquanto a desiderare. La staticità dell’impianto, pur nella continua modulazione degli ambienti, trasmette freddezza, tanto che il tentativo di far tradizione viene a perdersi in quadri viventi che, come appunto quello dell’autodafé, seguono schematismi confusi nel credere che la pomposità della cerimonia debba esaurirsi in un cartone preparatorio del quadro stesso. Fra le molte scelte registiche discutibili ne citiamo due: quando Filippo II appare, ad apertura di sipario sul terzo atto, non solo ma con Eboli in vestaglia che gli consegna il cofanetto a prova del tradimento di Elisabetta, e quando il Grande inquisitore si presenta come fosse un porporato mentre dovrebbe essere un frate in abiti umili seppur detentore di un potere così grande da condizionare tutto e tutti. Segno che, in ambito registico, provocare è facile, ma se all’opposto si sceglie, come in questo caso, la via della tradizione allora bisogna saperlo fare bene». 

Rincara la dose Elvio Giudici: «Ma la tendenza della Scala attuale di scoperchiare sepolcri e riesumare gente come Kokkos, Marelli, De Ana, o riconfermare una Irina Brook firmataria d’uno spettacolo come Il matrimonio segreto (per non dire dell’orripilante regia appena vista all’Elfo d’un brutto testo pasticciato dal Gabbiano), e si potrebbe continuare: tendenza riprovevole, che traccia un percorso che neppure è passatista, semplicemente non è percorso, solo mesto pellegrinaggio in un cimitero. Come si possa pensare di fare del buon teatro accoppiando grande se non grandissimo esito musicale a un totale nulla sul palcoscenico, francamente non riesco a capirlo e tanto meno ad accettarlo. I bui anni del non-teatro durante la gestione Muti paiono sempre più essere la stella polare della Scala, all’insegna della colossale idiozia “la regia non deve infastidire la musica”, frase che in quei diciannove anni abbiamo sentito fino a farci disintegrare le orecchie (e non solo), negazione del concetto stesso di Teatro».

La direzione di Riccardo Chailly è elogiata ma con alcuni distinguo, come quelli di Stefano Jacini sul Giornale della musica: «Fin dalle prime battute Chailly ha ottenuto dall’orchestra il giusto colore brunito, talvolta misterioso. Straordinaria la sezione dei violoncelli, come esemplare il lungo preludio del quarto atto d’impressionante impatto sonoro, ma nitido in ogni particolare. La puntigliosità del direttore nel leggere ogni più piccolo dettaglio della partitura ha però creato talvolta effetti forse non voluti coi cantanti, un solo caso per tutti: il terzetto del primo atto dopo l’arrivo di Rodrigo e il suo “Ecco il regal suggello, i fiordalisi d’oro”. Lo scambio mondano e disinvolto tra i personaggi, che dovrebbe risultare frizzante e giocoso, è rimasto penalizzato da un’analisi talmente dettagliata, che ha comportato un rallentamento dei tempi, appesantendo il tutto, e perdendo di vista la tensione dell’intero arco drammaturgico. Squilibri che si sono ripetuti più volte nel corso dell’opera». 

Unanimi invece i consensi sulle due interpreti femminili. Anna Netrebko (Elisabetta) sfoggia il suo glorioso strumento di cui non si sa se ammirare di più la sontuosità del timbro, l’eleganza delle mezze voci o la varietà di sfumature espressive. Il suo «Tu che le vanità» viene giustamente osannato dal pubblico. Come Eboli ritorna ancora una volta Elīna Garanča, vocalmente perfetta sia all’inizio con le galanterie e le agilità della “canzone del velo”, agguerrita poi nel terzetto, infine in «O don fatale» domina la tessitura più grave con grande agio. Il Don Carlo di Filippo Meli rivela luci ed ombre: fraseggio ricercato e timbro luminoso ma i suoni sono un po’ ondeggianti e gli acuti non sempre raggiunti in modo naturale. A Luca Salsi manca l’eleganza del Marchese di Posa, ma l’interprete è sempre attento alla parola ed espressivo. Non in perfetta forma vocale è Michele Pertusi (Filippo II) e infatti nell’intervallo il sovrintendente Meyer annuncia che, pur indisposto, il cantante continua la recita. Il suo «Ella giammai m’amò» risulta più che convincente per la tecnica che permette al basso parmense di raggiungere un risultato di eccellenza nonostante il problema alla gola e le ovazioni del pubblico lo ricompensano dello sforzo. L’Inquisitore, originariamente affidato ad Ain Anger, viene sostituito all’ultimo momento da Jongmin Park, Frate nel primo atto, dalla estensione maggiore in alto che nel grave. Ottimi gli altri interpreti secondari e così pure il coro. 

Opportunamente, Michele Gerardi non ha potuto fare a meno di dire la sua sull’azzardata miscela di ospiti del palco reale: «Purtroppo il palco reale offriva uno spettacolo desolante. Chissà cosa può aver pensato gente simile quando ha assistito alle riflessioni di Filippo II, al duetto con Posa e con l’inquisitore, al meraviglioso finale, solo apparentemente una scena del soprannaturale, in realtà un messaggio che parla all’umanità di ogni tempo: dal 1867!».

Don Carlos

foto © Magali Dougados

Giuseppe Verdi, Don Carlos

Ginevra, Grand Théâtre, 15 settembre 2023

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

La produzione ginevrina mette in discussione l’attualizzazione a tutti i costi di una vicenda storica

L’anno scorso la stagione del Grand Théâtre si era aperta con La Juive, i cui temi erano il fanatismo e l’intolleranza religiosa. Quest’anno, con il titolo “Giochi di potere”, la stagione di Ginevra inizia ancora con un altro grand opéra dominato dall’ingerenza religiosa negli affari politici e politica in quelli personali: il Don Carlos, la stessa opera che a dicembre inaugurerà la stagione del Teatro alla Scala, là nella versione italiana, qui invece nella versione originale francese completa in cinque atti e con i ballabili. Un titolo tormentato su cui Verdi ritornerà più volte tanto da lasciarci con numerose versioni, ognuna con i suoi pregi e i suoi difetti: in questa prima versione la complessità dei temi esposti giustifica le quattro ore e mezza di spettacolo, con un solo intervallo, ma i tagli apportati nelle versioni seguenti renderanno il lavoro più drammaturgicamente efficace.

Qui assistiamo all’opera come fu scritta per l’Esposizione Universale del 1867 di Parigi con la quale Verdi ritornava al suo autore preferito, Friedrich Schiller, per mettere in musica il suo Dom Karlos, Infant von Spanien del 1787, un dramma che incarnava perfettamente lo spirito dello Sturm un Drang con la sua contrapposizione tra Rodrigo, Marchese di Posa, simbolo della libertà e della tolleranza contro l’assolutismo monarchico di Filippo II di Spagna. A Verdi piaceva il contrasto tra genitore e figlio, così come il conflitto tra Stato e Chiesa, impersonata qui dalla figura del Grande Inquisitore. La libertà di trattamento dei fatti storici a favore della complessità dei personaggi ha portato Verdi a scrivere un lavoro dove il grado di elaborazione degli elementi e il respiro concesso all’orchestrazione fanno di Don Carlos un assoluto capolavoro.

A Ginevra per la terza volta consecutiva alla direzione musicale di un grand opéra dopo Les Huguenots di Meyerbeer e La Juive di Halévy, Marc Minkowski affronta il titolo verdiano con una concertazione precisa e ricca di colori ma non esasperata: i contrasti sonori non sono mai portati all’eccesso, anzi. Sotto la sua guida l’orchestra della Suisse Romande si esprime con morbidezza, i suoni dei legni e degli archi hanno una eleganza e una trasparente chiarezza, il dramma non si esplicita per il volume sonoro, ma per la tensione che si innesta in un discorso musicale sempre fluido e senza asperità. Il coro, protagonista essenziale in questo dramma, trova nella compagine del teatro uno strumento duttile ed espressivo, sia che si tratti del popolo oppresso dalla guerra del primo atto, sia dei lugubri canti dei religiosi.

Ricco di forti personalità il reparto vocale, a partire dal meraviglioso Stéphane Degout, sensibile Rodrigo dalla grande proiezione e perfetta articolazione della parola, alla Elisabetta di Rachel Willis-Sørensen dalla voce ricca di sfumature e soavità di timbro. Charles Castronovo è un Don Carlos di sicura presenza vocale e scenica che cerca di dare spessore a un personaggio non trascinante. Qualche intemperanza espressiva di Dmitrij Ul’ianov trasforma il suo Filippo II in un despota dai tratti talora volgari, coerenti se non altro con la scelta registica, come vedremo, dal possente registro basso ma dalla discutibile dizione in cui prevale l’accento slavo. Quella che viene a mancare è la regalità del personaggio e il confronto con Grande Inquisitore impressiona meno del solito anche per somiglianza col timbro del basso Liang Li. La principessa Eboli trova in Ève-Maud Hubeaux un’interprete di grande temperamento che però sa anche gestire le esigenze belcantische del ruolo. Ena Pongrac (Thibault), William Meinert (un Monaco), Julien Henric (Conte di Lerma), Giulia Bolcato (Voce dal cielo) e il sestetto di deputati fiamminghi completano degnamente il ricco cast.

Sembra che nell’agonia della morte Filippo II di Spagna si sia pentito di non avere sterminato un maggior numero di eretici. Nella produzione affidata a Lydia Steier l’esecuzione capitale di questi è presente fin dalla prima scena dell’atto di Fontainebleau con l’impiccagione di un meschino che rimarrà lì a penzolare durante il duetto d’amore dei due giovani e anche all’arrivo della notizia della destinazione al padre Filippo della principessa francese. Poi, nel quadro dell’auto da fé a quelli già appesi al lampadario si aggiungeranno i sei deputati fiamminghi e nel finale anche Don Carlo ed Elisabetta finiranno col cappio al collo.

L’ambientazione scelta dalla regista tedesco-americana è trasferita dal XVI secolo agli anni della DDR sotto il controllo della Stasi: vediamo infatti che, travestiti da monaci, numerosi funzionari spiano i personaggi dalle intercapedini dei muri attrezzate con microfoni e apparecchi di registrazione. Nella scenografia di Momme Hinrichs domina il grigio nella immancabile struttura rotante, nei video in bianco e nero, nelle luci ossessionatamente fisse di Felice Ross, nei lugubri costumi di Ursula Kudma. Filippo veste come un dittatore d’un regime totalitario, stivali, pantaloni, giacca e mantello tutti di cuoio nero e ricoperti di medaglie. Le spoglie di Carlo V riposano in una nicchia dorata che serve anche da consolle o addirittura da giaciglio per Eboli che ha passato la notte col re tradendo doppiamente la regina con il trafugamento del suo cofanetto di gioielli. Questa non è una novità registica, ma qui la donna rimane presente anche durante «Elle ne m’aime pas», riducendo il possente monologo allo sfogo/giustificazione di un marito che ha appena tradito la moglie. Eboli continua a essere presente, nascosta dietro una colonna, anche durante il successivo incontro col Grande Inquisitore e se contiamo anche i due accompagnatori, ben cinque persone affollano una scena che fa dello scontro fra due personaggi soli la sua assoluta grandezza. Altre cadute registiche rendono meno efficace il dramma, come avviene nella scena dei deputati fiamminghi ai quali il cappio al collo viene messo e tolto varie volte con effetto non esattamente tragico, o nel finale, poco convincente nel libretto e ancora meno nella realizzazione scenica della Steier. Due invece i momenti che si staccano volutamente dall’atmosfera lugubre della vicenda: il primo la scena nel giardino con Eboli e le dame della regina che, chissà perché, vengono fatte salire su una bilancia e la più magra premiata dopo la “chanson sarrasine”; il secondo il momento dei ballabili del terzo atto, trasformati in un’orgia stile Eyes Wide Shut comprese le maschere, con la struttura che ruota in maniera vertiginosa e un assassinio, totalmente gratuito, alla fine. 

Proprio pochi giorni fa Le Temps, il quotidiano di Ginevra, ha ospitato nella sezione Dibattiti un intervento di Emiliano Gonzalez Toro dal titolo “Quand l’opéra doit réapprendre le respect” in cui il cantante deplora come «troppi registi maltrattino i cantanti, le opere e il pubblico con produzioni elitarie e tutte uguali […] A forza di rincorrere l’anticonformismo e la modernità, il Regietheater appare sempre più banale, convenzionale, una forma di moderno accademismo». Il tenore svizzero dà così voce ad artisti che si sentono sempre meno a loro agio in produzioni che cercano quasi solo la provocazione e in cui la visione del regista è predominante e non rispetta né la partitura né il libretto. Non è il caso di questa produzione ginevrina la quale, nonostante qualche incongruenza e caduta di gusto, ha incontrato il favore del pubblico che alla prima ha risposto con intensi calorosi.

Però… chissà quando potremo assistere di nuovo a una produzione intelligente e intrigante ma ambientata nei tempi previsti dalla vicenda e dal libretto? Sta diventando cosa sempre più rara – e proprio per questo desiderabile.

Don Carlo

 Giuseppe Verdi, Don Carlo

Napoli, Teatro di San Carlo, 29 novembre 2022

★★★★☆

(live streaming)

Un possente Don Carlo inaugura la stagione del San Carlo

La stagione del San Carlo si inaugura col Don Carlo nella versione italiana e in cinque atti a 150 anni dalla serata napoletana del 1872. Si tratta grosso modo della versione di Modena, una delle cinque (o sette?) versioni esistenti di questo sofferto capolavoro. Questo è uno dei rari casi in cui la traduzione, di Achille de Lauzières, non solo non tradisce l’originale, ma ne è addirittura superiore in certi punti. Saltata la prima per lutto a causa della sciagura di Ischia, la replica del 29 novembre è trasmessa in streaming, purtroppo in una registrazione con molte pecche.

Nella intrigante messa in scena di Claus Guth ci sono forti rimandi visivi: il pavimento a scacchiera, un evidente omaggio alla città di Napoli, è quello della Cappella Vasari di Sant’Anna dei Lombardi; il reliquiario che accompagna l’ingresso di Filippo II è quello della mano di Santa Teresa d’Avila che il Generalissimo Franco teneva nella sua camera da letto (grazie a Giuseppe Imparato per queste informazioni); il quadro di Francisco Goya Carlo IV di Spagna e la sua famiglia pende un po’ sbilenco sullo sfondo, a mano a mano si scurisce e nel finale viene staccato dal muro e diventa pietra tombale e poi botola in cui sparisce Don Carlo; Il buffone Sebastián de Morra di Diego Velázquez è invece il modello per il nano di corte, il quasi sempre presente in scena e bravissimo attore Fabián Augusto Gómez che è ora un alter ego di Carlo, ora un grottesco Cupido, ora il “munaciello” – lo spiritello dispettoso delle case napoletane – unico elemento di disturbo in un mondo freddo, rigido e brutale.

La scenografia di Étienne Pluss ricrea le severe atmosfere dell’Escurial in una grande sala attorniata da un coro ligneo cinquecentesco. Tutto è cupamente claustrofobico, non ci sono esterni, anche il primo atto ricrea «l’orror della foresta» di Fontainebleau in una tinta scura. I bellissimi costumi di Petra Reinhardt appartengono a tre epoche: il Cinquecento per Elisabetta ed Eboli, l’Ottocento e la contemporaneaità per Carlo e l’Inquisitore, che qui non è un vecchio frate cieco ma un grigio burocrate simbolo di un potere, non solo religioso, che si avvale di figure nere e incappucciate. Il bianco e nero sono i non-colori di un allestimento illuminato dalle luci radenti di Olaf Freese che creano le lunghe ombre dei personaggi che così sembrano prigionieri di un potere implacabile, di una ragion di stato contro la quale non possono opporsi. La regia di Guth, debuttante sul palcoscenico napoletano, è intensa e piena di idee, non tutte nuovissime magari – come quando si vede Eboli lasciare il letto di Filippo («L’error che v’imputai, | io… io stessa aveva commesso!» confessa a Elisabetta) e quello stesso letto diventa il lettino da psicanalista per il re davanti al Grande Inquisitore – ma sono efficaci e di bellissimo impatto visivo. La struttura di una famiglia lacerata è analizzata da Guth con la consueta profondità e la capacità attoriale degli interpreti dà a questo Don Carlo il carattere di un dramma psicologico. Don Carlo è sempre presente in scena e il regista lo dipinge come un adolescente turbato, segnato da un’infanzia senza madre, dalla presenza di un padre imperioso e dall’amicizia con il coetaneo Rodrigo, compagno di giochi di infanzia come vediamo nei nostalgici video di Roland Horvath, sorta di flashback ricorrente.

Interprete belcantista, Matthew Polenzani non ha tratti eroici ma la voce del tenore americano è perfettamente adatta alla visione del regista: i suoi momenti migliori sono quelli lirici o introspettivi, quando usa mezze voci sussurrate e piani legati in un fraseggio trasparente e leggero. Ancora più forte è così il contrasto col padre, un Michele Pertusi ineguagliabile nel delineare Filippo come monarca combattuto dai rimorsi: ancora una volta il baritono parmense dà una preziosa lezione di interpretazione con mezzi che non vogliono accusare la stanchezza dell’età, tanto che col Grande Inquisitore, il basso Alexander Tsymbalyuk, riesce a reggere e superare il confronto vocale. Altra voce mschile di eccezionale livello quella di Ludovic Tézier che ritorna ancora una volta nella parte del Marchese di Posa con nobiltà, bellezza di timbro, eleganza e sensibilià che raggiungono l’apice nei duetti con Carlo e nella scena dell’addio vita. Ailyn Pérez compensa con il temperamento una voce un po’ leggera per il ruolo di Elisabetta, mentre Elīna Garanča si dimostra ancora una volta una Eboli di straordinaria presenza vocale e scenica. Su livello decisamente inferiore invece il Tebaldo di Cassandre Berthon mentre si dimostrano efficaci gli altri comprimari (i sei deputati, il Conte di Lerma e l’Araldo membri del coro e dalla Accademia del teatro la voce dal cielo, qui invece in carne e ossa sul palcoscenico che attraversa inopinatamente vestita da Madonna) e il coro del teatro diretto da José Luis Basso. Corretta ma non delle più trascinanti la direzione di Juraj Valčuha e con piccole sbavature nell’orchestra, ma nel complesso si è trattato di una performance di grande impatto e accolta da prolungati applausi, particolarmente calorosi nei confronto di Pertusi, Tézier e Garanča.

Don Carlos

 

Giuseppe Verdi, Don Carlos

★★★★★

Vienna, Staatsoper, 4 ottobre 2020

(video streaming)

Vienna sfida la pandemia con un Don Carlos integrale

È la versione francese in cinque atti con balletto (ma vedremo quale balletto…) quella del Don Carlos ora proposta a Vienna. Una produzione mastodontica con un cast stellare. Mascherinato e distanziato il pubblico può entrare e rendere più viva la rappresentazione con la sua presenza, cosa attualmente negata in molti altri teatri nel mondo. L’Austria al momento è un’isola felix da questo punto di vista – finché dura.

L’allestimento di Peter Konwitschny interpreta modernamente il grand opéra rendendone attuale il gusto, con il suo divertissement coreografico totalmente avulso dalla vicenda tragica in cui si inseriva, qui trasformandolo con umorismo. Infatti, nella scenografia di Johannes Leiacker i pochi colori dell’atto di Fontainebleau spariscono negli atti successivi lasciando spazio solo al bianco e nero dei costumi in un ambiente spoglio e claustrofobico, di un bianco più lugubre del nero, su cui si aprono mille porte. Ma i colori ritornano nella scena del “sogno di Eboli” sulle musiche del balletto che apre l’atto terzo: una pantomima ironica che mostra la desiderata vita coniugale della donna incinta di Carlos, col marito che rientra dal lavoro in un soggiorno dalle pareti tappezzate a fiori e la tavola apparecchiata. La coppia  si lancia in un goffo pas de deux trascurando l’arrosto in forno. L’arrivo dei suoceri (!) con i regali (un peluche e una culla per il nascituro) e Di Posa con la pizza che sostituisce l’arrosto bruciato completano l’ironico quadretto famigliare: il sogno di potere della principessa si è ridotto a un tinello borghese. L’idea del regista è uno shock per una parte dell’ultraconservatore pubblico dell’Opera di Stato che probabilmente considera i ballabili drammaturgicamente irrinunciabili. Beata ingenuità.

Ma non è finita. Con l’atto dell’auto da fé (parte II del secondo atto) tutti sono in abiti attuali e uno schermo ci fa vedere l’arrivo del corteo dell’imperatore a teatro, salutare il pubblico dal palco di proscenio e salire sul palcoscenico, mentre i condannati al rogo sono trascinati per lo scalone sotto i flash dei fotografi. Il tutto come in un reportage della televisione spagnola, comprese le foto dei massacri di civili che vengono distribuite da Carlos a sostegno della causa delle Fiandre. La voce dal cielo fuori scena è quella di una diva in abito di lamé che canta al microfono.

Col quarto atto si ritorna ai costumi. Filippo canta «Elle ne m’aime pas» tra le braccia di Eboli con la quale ha passato la notte. All’arrivo dell’inquisitore la donna non riesce a recuperare il vestito perché il vecchio cieco ci ha messo un piede sopra ed è costretta a rimanere, tanto quello con vede! Questo è uno dei momenti ironici dello spettacolo, come quello del monaco del secondo atto che alle parole di Carlos «À cette voix, je frissonne! | J’ai cru voir, o terreur! | l’ombre de l’Empereur | sous le froc cachant sa couronne» effettivamente tira fuori dal suo saio una corona e se la mette in testa ammiccando agli spettatori. E sarà lo stesso monaco che nel finale apparirà come spettro di Carlo V a salvare la giovane coppia.

Si diceva del cast stellare. Tra Kaufmann, appassionato e poi ironico Carlos, e Malin Byström (Elizabeth) l’intesa è perfetta e il loro sublime duetto nel finale tutto mezze voci e trepidanti intenzioni vale da solo il prezzo del biglietto. Ma c’è anche Michele Pertusi, un Filippo memorabile per l’immedesimazione con il vecchio perdente monarca. Rodrigo è l’ottimo Igor Golovatenko ed Eboli una splendida Ève-Maud Hubeaux. Roberto Scandiuzzi è un autorevole e inquietante Inquisitore, Dan Paul Dumitrescu il Monaco qui burlone e Virginie Verrez un efficace Thibault. Alla guida dell’orchestra la sicura mano di Bertrand de Billy dipana le quasi cinque ore di musica senza cali di tensione. Non è sempre coeso l’immenso coro in scena.

Don Carlo

Giuseppe Verdi, Don Carlo

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 17 aprile 2013

Il Regio celebra i suoi primi quarant’anni

Opera che dà la possibilità ai costumisti di sfoggiare le loro creazioni più ricche e sontuose, agli scenografi di allestire i grandiosi e cupi ambienti del Siglo de Oro spagnolo, ai cantanti di affrontare ruoli tra i più leggendari del mondo lirico. Tutto questo è il Don Carlos/Don Carlo, tra i lavori più imponenti di Verdi e uno dei vertici della sua gloriosa carriera.

A questo si aggiunge però il problema di quale delle tante versioni scegliere. Per celebrare i quarant’anni dalla sua apertura il (Nuovo) Teatro Regio di Torino ripropone lo spettacolo di Hugo de Ana già visto nel 2006. La versione è quella nella traduzione italiana e in quattro atti, mancano quindi l’episodio di Fontainebleau e i ballabili del terzo atto, ma ci guadagnano concisione e forza drammatica. Gianandrea Noseda mantiene in perfetto equilibrio l’orchestra e il palcoscenico, privilegiando le atmosfere più rarefatte e cameristiche rispetto a quelle più enfatiche suggerite dalla partitura. La sua è una lettura di una certa asciuttezza e come sempre attenta è la concertazione delle voci che qui formano un cast non del tutto omogeneo. Accanto alle prove maiuscole di Il’dar Abdrazakov e Ludovic Tézier – rispettivamente un Filippo imponente ma credibile sia nei monologhi sia nei numeri di insieme e un Rodrigo di grande eleganza – si sono sentite sulla scena voci non pienamente convincenti come quelle di Ramón Vargas, un Don Carlo un po’ manchevole nel registro acuto; Daniela Barcellona qui non a fuoco come Principessa d’Eboli; Barbara Frittoli Elisabetta cui manca più potenza; Marco Spotti Grande Inquisitore un po’ spento. Di buon livello le altre parti con Roberto Tagliavini (un frate), Erika Grimaldi (una voce dal cielo), Dario Prola (Conte di Lerma).

Lo spettacolo di Hugo de Ana, che firma regia, scene e costumi, è così descritto da Giancarlo Landini: «Fedele al tempo dell’azione, De Ana costruisce una scena grandiosa che rivive con raffinato gusto visivo la monumentalità oppressiva dell’Escorial. Mentre la illustra con soluzioni di singolare fascino, la eleva a correlativo-oggettivo della claustrofobia morale dei personaggi, vittime di contrapposte tensioni, a cominciare da Filippo stesso prigioniero prima che signore della reggia e del sistema che egli ha voluto. Le grandi colonne, che fungono da quinte e che muovendosi modificano la prospettiva, incombono sul palco. Creano gli enormi spazi del Convento di San Giusto, dove i personaggi si muovono smarriti in un’atmosfera arcana, percorsa da cori en coulisse e da misteriose presenze. Si ritraggono per lasciare spazio alla gran piazza, chiusa dalla grande facciata marmorea di Nostra Signora d’Atocha, concepita secondo lo stile architettonico di un Rinascimento fiammeggiante, che fa da vetrina allo splendore di una monarchia indiscutibile. Si fanno incombenti nello studio di Filippo e nella scena del carcere. Le luci sapienti di Sergio Rossi avvolgono la scena in una penombra che, con l’ovvia eccezione del Finale del III Atto, contribuisce a rendere il clima dell’opera. Proprio per la capacità di ricondurre ogni elemento alla sua funzione drammatica, sarebbe ingiusto e decisamente sbagliato ritenere lo spettacolo di De Ana meramente illustrativo, come se la regia debba necessariamente ridursi all’applicazione di soluzioni alternative al teatro di tradizione. Al contrario il regista è sempre presente. Lo si coglie nello scavo dei personaggi e nel disegno dei loro rapporti. Basterà qualche esempio: Eboli che spia l’incontro tra Posa e Filippo; la consumata abilità con cui Posa distoglie Eboli che con caparbia determinazione vuole avvicinarsi alla regina intenta a scorrere la segreta missiva di Carlo; l’episodio della contessa d’Aremberg. Il risultato è una lettura fluida, sempre efficace». Il pubblico torinese ha dimostrato con gli applausi di aver apprezzato.

Don Carlo

Giuseppe Verdi, Don Carlo

Venezia, Teatro La Fenice, 24 novembre 2019

★★★★☆

(live streaming)

Don Carlo, storia nera quanto mai nella lettura di Carsen

La stagione della Fenice parte nonostante l’acqua alta che non molti giorni prima ha allagato alcuni locali dell’edificio e bloccato la città. Il Don Carlo nella versione italiana in quattro atti del 1884 viene proposto nell’allestimento di Strasburgo di Robert Carsen, che sceglie un’ambientazione moderna e rigorosamente minimalista tutta basata sul nero dei semplicissimi costumi di Petra Reinhardt (anche il popolo è in nero ed è tutto un andirivieni di preti e suore) e sul grigio antracite dell’impianto scenografico di Radu Boruzescu, una scatola fissa e opprimente («la vôlta nera […] dell’Escurial» sembra pervadere tutta l’opera) con alcune aperture per suggerire i diversi ambienti. Un non-luogo astratto e claustrofobico che fa del vuoto scenico la chiave di lettura della regia di Carsen dove anche il giardino è una distesa di gigli recisi sul pavimento nero o di bare (ben 24!) nella scena del chiostro. Le luci, dello stesso regista e di Peter Van Praet, non attenuano il nero essendo sempre radenti, con i volti illuminati quasi sempre soltanto a metà. Nella visione di Carsen non c’è nulla dell’opulenza e dei colori di una corte spagnola, l’atmosfera è bensì quella cupa della corte di Danimarca e l’Infante Don Carlo ricorda il principe Amleto – volto pallido, t-shirt e pantaloni neri – teschio compreso. I rapporti personali qui sono soffocati dalla ragion di stato e dal predominante conflitto tra il potere temporale e la Chiesa con la storia d’amore tra Carlo ed Elisabetta governata da un profondo senso di colpa. La mancanza dell’atto di Fontainebleau rende ancora più distante, quasi onirico, quel momento da loro rimpianto. Sempre di gran livello è la regia attoriale, con efficaci movimenti delle masse e una gestualità stilizzata per i protagonisti.

Il problema dell’irrisolto finale del Don Carlo è affrontato da Carsen in maniera molto spregiudicata. Nel testo originale Schiller stupisce per la fulminante conclusione:

CARLO Addio, Madre! […] Alcun mistero | più tra noi non sarà; né voi gli sguardi | temer del mondo più dovrete. È questo | l’ultimo inganno mio. (in atto di riprendere la maschera, il Re si pianta fra loro)
RE E l’ultimo! (la Regina cade svenuta)
CARLO (accorre e la riceve fra le sue braccia) È morta? | O Re del cielo!
RE (freddo e tranquillo al Grande Inquisitore) Cardinale, al mio | debito satisfeci; or fate il vostro! (parte. Cala il sipario)

Questo nella traduzione del Maffei che conosceva Verdi, il quale però volle un finale diverso e sia nel libretto originale francese sia nella traduzione italiana si ha quindi un lieto fine con una poco convincente irruzione del soprannaturale:

INQUISITORE Guardie!
DON CARLO Dio mi vendicherà! | Il tribunal di sangue sua mano spezzerà! (Don Carlo, difendendosi, indietreggia verso la tomba di Carlo V. Il cancello si apre, apparisce il Frate. È Carlo V col manto e co’ la corona reale)
UN FRATE (a Don Carlo) Il duolo della terra | nel chiostro ancor c’insegue, | solo del cor la guerra | in ciel si calmerà!
INQUISITORE È la voce di Carlo!
CORO È Carlo quinto!
FILIPPO (spaventato) Mio padre!
ELISABETTA Oh, Ciel! (Carlo V trascina nel chiostro Don Carlo smarrito. Cala la tela lentamente)

Nella versione francese dopo il «Gran Dieu!» di Elisabetta si sentono ancora i monaci fuori scena che riprendono il coro («Charles Quint, l’auguste empereur, | n’est plus que cendre et que poussière.») con cui era iniziato il secondo atto.

Carsen invece mette in scena uno stravolgente finale di cui si avevano avute due avvisaglie: la prima quando Carlo affida all’amico le carte compromettenti e il pubblico aveva visto Rodrigo sbirciarle di nascosto per poi passarle all’Inquisitore; e la seconda quando, dopo essere stato ucciso, si era rialzato da terra e aveva stretto la mano all’Inquisitore con aria di intesa. È stata tutta una congiura, dunque, e nel finale il Frate spara sia a Don Carlo che a Filippo, mentre sul fondo avanza Rodrigo con le stesse pesanti bardature che avevamo visto mettere addosso a Filippo per la sua incoronazione. Un’altra pedina in mano al potere ecclesiastico.

Il capovolgimento del ruolo del marchese di Posa di per sé ha una sua logica e risolve in maniera definitiva il finale altrimenti ambiguo, ma così toglie significato al bellissimo duetto nella prigione di Carlo e la nostra sincera commozione viene così messa in ridicolo, trattandosi di una presa in giro. Non tutto il pubblico veneziano ha preso molto bene la soluzione accogliendo con alcuni dissensi l’uscita del regista alla fine.

La parte musicale, affidata alla bacchetta dell’amato (qui a Venezia) Myung-Whun Chung, si dimostra coerente con il rigore della drammaturgia scelta, con l’esaltazione dell’aspetto sinfonico di questo lavoro verdiano così particolare e originale e un ritmo incalzante. L’orchestra risponde in maniera eccellente con pienezza di suono e una ricca tavolozza timbrica. La concertazione delle voci è sempre di alto livello pur svolgendosi con tre debuttanti nei ruoli maschili principali. Piero Pretti si esprime efficacemente nell’impegnativa parte titolare rivolgendo la sua relativamente debole espressività attoriale per delineare un Infante introverso e sfortunato. Voce bella e generosa, anche troppo talora, quella di Julian Kim, qui infido Marchese di Posa. La presenza scenica di Alex Esposito è tenuta sotto controllo dall’impostazione registica e del baritono ci si “accontenta” di ammira la bellezza vocale, il fraseggio scolpito, la ricchezza espressiva. Marco Spotti ripropone il suo Inquisitore approfondendo ancora più il personaggio. Non del tutto a fuoco vocalmente risulta invece il Frate di Leonard Bernad. Nel reparto femminile la sensibilità e il controllo vocale di Maria Agresta fanno di Elisabetta di Valois un personaggio del tutto convincente soprattutto nei momenti lirici. La Principessa d’Eboli di Veronica Simeoni più che nella “canzone saracina” dà il meglio di sé per temperamento nel duetto con Elisabetta alla fine della parte prima del terzo atto. Il coro preparato da Claudio Marino Moretti fornisce ottima prova in un lavoro impegnativo non solo per i solisti.

Don Carlo

fotografie © Rocco Casaluci

Giuseppe Verdi, Don Carlo

★★★☆☆

Bologna, Teatro Comunale, 6 giugno 2018

Anche stavolta è meglio chiudere gli occhi

Come ricorda Giorgio Pestelli nel suo intervento nel programma di sala, l’Italia musicale della seconda metà del l’Ottocento era in crisi: «La nuova produzione è in depressione ciclonica e sta per essere sostituita dal cosiddetto repertorio, cioè dalle opere già conosciute riprese con favore crescente; i teatri d’opera, da vetrina del presente, si avviano a divenire musei dei capolavori del passato». Suona stranamente attuale, vero?

Verdi allora si rivolge alle commissioni straniere: San Pietroburgo (La forza del destino), Il Cairo (Aida) e appunto Parigi dove il Don Carlos debutta l’11 marzo 1867 alla Salle le Peletier, in cinque atti e ovviamente in francese. L’opera giunge poi in Italia il 27 ottobre proprio qui al Comunale.

Ora è di nuovo a Bologna, ma nella seconda versione, quella in italiano e in quattro atti con numerose varianti, l’eliminazione del primo atto e dei ballabili del terzo. È in questa versione, la preferita nel nostro paese, che venne data alla Scala nel 1884.

La stesura in quattro atti era stata preparata senza entusiamo dal compositore stesso per Vienna: «In questa città, voi sapete che alle dieci di sera i portinai chiudono la porta principale delle case, e tutti a quell’ora mangiano e bevono Birra e Gâteaux. Per conseguenza il Teatro, ossia lo spettacolo, dev’essere allora finito […] Dal momento che mi si dovevano tagliar le gambe, ho preferito affilare ed adoperare io stesso il coltello» scrive Verdi il 3 dicembre 1882 a Giuseppe Piroli. Poi però il compositore se ne dimostrò soddisfatto: «Il D. Carlos è ora ridotto in quattro atti e sarà più comodo, e credo anche migliore, artisticamente parlando. Più concisione e più nerbo», lettera del 15 marzo 1883 all’amico Arrivabene. Nel 1887, però, Verdi accettava che, prima a Modena e poi in tutti gli altri teatri, il Don Carlo andasse in scena con il ripristino del primo atto e  senza balletto. E questa è la terza versione, in italiano. Volendo si può anche parlare della versione di Napoli (1872), contenente alcune varianti fatte per il Teatro di San Carlo.

Per quanto riguarda le due lingue dell’opera, anche se qui il testo italiano è entrato indelebilmente nella nostra mente, in molti punti si sente che la musica è nata in francese, gli accenti sono più giusti e la prosodia è più vicina all’invenzione musicale.  È vero però che la versione italiana ha di converso una sua maggiore “teatralità”: «Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare!» è indubbiamente più altisonante di «L’orgueil du roi fléchit devant l’orgueil du prêtre!». Anche «Ella giammai m’amò! No, quel core è chiuso a me, amor per me non ha» nell’originale «Elle ne m’aime pas! Non! Son coeur m’est fermé, elle ne m’a jamais aimé!» ha una scansione temporale diversa e un tono meno introverso.

Sono le orecchie a essere maggiormente gratificate in questo nuovo allestimento bolognese. Fin dalle plumbee fanfare iniziali, Michele Mariotti mette in luce lo splendore orchestrale di questa che forse è la più grande opera del compositore di Busseto. Qui i fiati hanno un rilievo inusitato sia come ottoni sia come legni, che si alternano nello struggente duetto tra Don Carlo e Rodrigo, o come quando fuori scena danno spazialità ai momenti da grand opéra di cui è ricca la partitura. I tempi scelti dal direttore musicale del teatro bolognese sono sempre giusti e i volumi sonori in perfetto equilibrio con i cantanti in scena.

Complessivamente soddisfacente il cast degli interpreti, con punte di eccellenza, per presenza e vocalità, nel Filippo di Dmitrij Beloselskij e nel Rodrigo di Luca Salsi, gli unici forse che riescano a dare verità scenica ai loro rispettivi personaggi. Meno incisivo il Don Carlo di Roberto Aronica, per di più caratterizzato da uno sgradevole timbro penetrante e da un canto risolto sempre in fortissimo. Dei due personaggi femminili Maria José Siri, anche se non riesce a esprimere la regalità di Elisabetta di Valois, vince sulla Principessa Eboli di Veronica Simeoni: la prima esprime una performance vocale che cresce in qualità dal primo teso incontro con Don Carlo all’acuto lancinante con cui conclude l’opera; la seconda è corretta ma niente di più e non caratterizza in maniera appagante un personaggio così complesso. Ancora nel cast il sempre affidabile Luca Tittoto, frate incoronato e dal viso dipinto d’argento, e Luiz-Ottavio Faria, Grande Inquisitore inutilmente cavernoso e il meno aiutato dalla regia.

È la componente visiva infatti quella più deludente di questo allestimento. A parte le scenografie incombenti di Nicola Rubertelli – che suggerirebbero l’oppressione del potere sugli umani ma sono realizzate con forme e materiali traslucidi che evocano piuttosto ambienti di fantascienza che poco hanno a che fare con la Spagna del 1560, per di più  appiattiti da luci fisse – è la regia di Henning Brockhaus, o meglio la sua mancanza di regia, che più irrita nella più totale assenza di direzione attoriale e per scelte largamente discutibili.

Innanzitutto l’epoca dell’ambientazione, che è francamente incomprensibile, con arredi barocchi, ma costumi che vanno dalla Belle Époque – a un certo punto pare di assistere alla Vedova allegra – agli anni ’30 con una Principessa Eboli che sembra Jean Harlow, alla contemporaneità, con il doppiopetto di Rodrigo. Il costumista non ci risparmia neppure una gheisha (?) e maschere piumate mentre per la canzone del velo si assiste a una coreografia che definire imbarazzante è dir poco. Del tutto deludente è la scena dell’auto da fé, realizzata con quattro poveretti che si contorcono alle fiamme proiettate sul fondo.

Passi pure l’idea di far svegliare Filippo dopo una notte trascorsa con la Eboli che esce furtivamente da sotto le lenzuola, ma la scelta di tenere sempre in scena il Grande Inquisitore su un trono papale argentato semovente è quella più sciagurata: il personaggio perde così ogni carattere di terribilità, che ha invece nella musica sublime di Verdi, e anche il povero cantante ne fa le spese, essendo l’unico a subire i dissensi di una parte del pubblico, assieme a quelli, ben più cospicui, rivolti al regista alla fine. Copiose invece le ovazioni per i cantanti e soprattutto per Mariotti da parte di un teatro gremito in ogni ordine di posti.

Don Carlos

Giuseppe Verdi, Don Carlos

Parigi, Opéra Bastille, 19 ottobre 2017

★★★★☆

(live streaming)

A Parigi un cast stellare per la più bella opera di Verdi

Il più atteso spettacolo della stagione parigina è andato finalmente in scena dopo patemi dovuti a una possibile defezione dell’interprete titolare e poi di uno sciopero scongiurato all’ultimo momento. Tutto bene alla fine, con un tripudio di applausi.

All’Opéra Bastille c’è dunque Don Carlos, quello con la s in più, l’edizione originale del 1867 in cinque atti senza i ballabili – insomma come l’edizione di Modena dell’87, ma in francese. Nella lingua cioè in cui fu concepita l’opera da un compositore italiano che in Francia era rimasto folgorato dal grand opéra – la stessa cosa era successa quasi quarant’anni prima a Rossini che lì aveva generato il suo Guillaume Tell.

L’espunzione del primo atto, su cui il maestro si era pentito, non sembra avere utilità se non quella di abbreviare l’esecuzione – ma allora perché non tagliare anche Wagner? D’accordo che così, nella versione in quattro atti cioè, viene maggiormente evidenziato il tema politico, ma anche il tema amoroso è altrettanto presente nell’opera e l’atto di Fontainebleau riesce a rendere più evidente il dramma umano di Don Carlos infante di Spagna e di Élisabeth de Valois, prima promessa sposa e poi moglie del padre Filippo II.

Dalla messa in scena di Warlikoski ci si poteva aspettare di peggio, invece la sua lettura ha permesso di seguire senza problemi la vicenda, ambientata ovviamente nel XX secolo, i soliti anni ’50. Il primo atto, quello dell’incontro in Francia tra Carlo ed Élisabeth, è visto dal regista come un flashback cinematografico, comprese le rigature della pellicola. In altri punti della storia si ripeterà lo stesso espediente. La scenografia, questa volta bruttoccia, è della fidata Małgorzata Szczęśniak che confina claustrofobicamente i personaggi tra stanze con alte boiserie («sette metri!» precisa il regista nell’intervista trasmessa) dando quel senso di oppressione che il re già sente prima ancora di giacere «sous les voûtes de pierre des caveaux de l’Escurial». (Tra l’altro quella della tomba è un’ossessione per i protagonisti del Don Carlos: la parola tombeau viene nominata una decina di volte nei dialoghi e altrettante nelle didascalie del libretto).

Accanto a trovatine gratuite – il bacio lesbico di Eboli con la contessa di Aremberg o la palla da tennis con cui Carlos si trastulla in prigione – ci sono scelte non del tutto sbagliate nella regia di Warlikowski, come nella prima scena del quarto atto dove Filippo non è da solo e il suo non è quindi un monologo: accanto ha Eboli, con cui ha avuto un affare – Eboli stessa lo confesserà alla regina: «Le crime irrémissible | dont je vous accusais, je l’avais commis, moi… | une séduction… le roi!». Oppure la scena della morte di Rodrigue con Carlos in prigione (una specie di gabbia di polli, in verità): i due non si possono avvicinare e ciò rende ancora più straziante la situazione. Altre scelte lasciano invece a desiderare: la scena dell’autodafé e quella finale sono del tutto deludenti, e assente è anche la regia attoriale sugli interpreti lasciati a loro stessi e alla loro professionalità. Quasi nullo poi l’uso delle masse corali che si muovono senza indicazioni plausibili. Del tutto inutili sono infine le proiezioni video senza le quali sembra non si possa più fare un’opera lirica. La messa in scena è stata per di più peggiorata dalla pessima regia video con bruschi passaggi tra campi lunghi e dettagli, inquadrature incongrue e un uso irritante di sovrapposizioni di immagini.

Fortuna che in scena c’era un cast inarrivabile. Un applausometro alla fine avrebbe incoronato prima Elīna Garanča, Eboli superlativa per presenza e qualità vocale; secondo Jonas Kaufmann, un infante trepidante ed espressivo; poi la superlativa Élisabeth di Sonya Yoncheva; quindi il nobile marchese di Posa di Ludovc Tézier, beniamino del pubblico francese; infine, ma sul filo di lana, il sofferto Filippo di Il’dar Abdrazakov, dalla magnetica presenza scenica e dal timbro di velluto. La figura dell’Inquisitore ha trovato nel basso russo Dmitrij Beloselskij il giusto tremendo rilievo.

Nonostante fosse la quarta replica ci sono stati alcuni errori nelle proiezioni mentre inattesi rumori fuori scena hanno fatto sobbalzare gli astanti. Ma i guasti peggiori li ha fatti la ripresa del suono e la sua amplificazione nella sala cinematografica a livelli di decibel da discoteca che hanno deformato in più punti il suono e impedito di apprezzare gli equilibri sonori. Peccato, perché sia i cantanti sia la magnifica direzione di Philippe Jordan avrebbero meritato un maggior rispetto sotto questo punto di vista, ma fino a quando queste pur benemerite proiezioni d’opera saranno equiparate a livello fonico ai film d’azione non si otterrà mai una fruizione corretta e il più possibile vicina a quella che si ottiene dal vivo in teatro.

Don Carlos

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★★★★☆

Edizione con cast di assoluto rispetto

Opera della tarda maturità di Verdi (seguiranno Aida, Otello e Falstaff) e dalla travagliata gestazione. Un’accurata ed esaustiva analisi delle varianti di quest’opera è contenuta ne L’arte di Verdi di Massimo Mila.

Dopo la fortunata esperienza de La forza del destino a San Pietroburgo, Verdi si rivolge ancora una volta allo Schiller mediato dalle traduzioni dell’amico Maffei per un’opera da presentare a Parigi per solennizzare l’Esposizione Universale del 1867. I temi del contrasto padre-figlio, di due concezioni politiche diverse e del conflitto fra Stato e Chiesa sono di quelli che stimolano il compositore. Completata su libretto in francese di Méry e du Locle l’opera debutta quello stesso anno al Théâtre de l’Académie Impériale de Musique col titolo Don Carlos, grand-opéra in cinque atti.

La revisione in italiano vede il contributo al libretto di quel Ghislanzoni che scriverà l’Aida e in questa veste viene rappresentato in Italia nel ’72 come Don Carlo. Non contento del risultato, dieci anni dopo Verdi elimina il primo atto e così viene presentata l’opera alla Scala nell’84. Pentito del taglio, il compositore ripropone i cinque atti a Modena nell’86, ma senza i ballabili.

Atto primo. 1568, anno del trattato di pace fra Spagna e Francia. Nella foresta di Fontainebleau alcuni boscaioli tagliano legna; giunge Elisabetta di Valois (figlia del re francese Enrico II) in compagnia del paggio Tebaldo e di un seguito di cacciatori. Nel frattempo Don Carlo, figlio del re di Spagna Filippo II, osserva nascosto il passaggio della principessa, che egli crede a lui destinata in sposa come sigillo della pace fra le due nazioni. Rimasto solo in scena, l’infante esprime il suo amore a prima vista per «la bella fidanzata», e invoca la benedizione di Dio sui suoi casti sentimenti. S’ode in distanza il suono del corno e quindi Carlo incontra Elisabetta e Tebaldo, che si sono smarriti nella foresta; Carlo si presenta come un nobile spagnolo al seguito dell’ambasciatore e offre alla principessa la sua protezione. Rimasti soli, i due giovani conversano dell’imminente pace e del matrimonio: Elisabetta chiede come sia il suo ancora sconosciuto promesso sposo e Carlo l’assicura che l’infante già arde d’amore per lei. Quindi le porge un ritratto e Elisabetta comprende d’essere al cospetto del suo fidanzato, che le dichiara il suo amore. S’ode il suono del cannone che annuncia la firma del trattato di pace e poco dopo rientra Tebaldo, che s’inginocchia davanti a Elisabetta salutandola regina di Spagna: Filippo II ha infatti deciso di sposare la giovane principessa. Nel generale tripudio, i due innamorati vedono infranti i loro sogni e si separano straziati dal destino crudele che li ha visti pedine inconsapevoli nel gioco dei potenti.
Atto secondo. Quadro primo. Nel chiostro del convento di San Giusto, dove Carlo V ha la sua tomba, un coro di frati canta della pochezza umana e della fragilità dei potenti in confronto all’eterna grandezza di Dio; sopraggiunge Don Carlo, che cerca nel chiostro quiete alle sue pene. Gli si avanza incontro l’amico Rodrigo, marchese di Posa, e cerca d’impegnare l’infante nella difesa dell’oppresso popolo fiammingo; chiede tuttavia ragione del turbamento del principe e apprende con orrore che egli ama colei che è diventata la sua matrigna. Lo sprona allora a farsi inviare dal re nelle Fiandre e a coltivare il supremo valore dell’amicizia e della libertà. L’improvviso passaggio del re e della regina getta tuttavia Carlo nello sconforto. Quadro secondo. In un giardino non lontano dal convento di San Giusto, le dame e Tebaldo fanno ala alla principessa Eboli, che canta una canzone saracena, la ‘canzone del velo’. Entra Elisabetta e a lei si presenta Rodrigo con una lettera di Carlo. Mentre la regina legge turbata, Rodrigo cerca di distrarre Eboli e le altre dame con le ultime notizie dalla corte di Francia e quindi implora Elisabetta di incontrare l’infante. Carlo giunge al cospetto d’Elisabetta nella massima agitazione: ella gli assicura il suo appoggio per il viaggio in Fiandra, ma Carlo le rinnova le sue disperate profferte d’amore e quindi fugge. All’improvviso entra Filippo che, trovando la regina sola, caccia dalla corte la dama di compagnia, la contessa d’Aremberg. Elisabetta consola l’amica e si congeda dal consorte. Filippo rimane a colloquio con Rodrigo, che chiede al re libertà per il popolo fiammingo, accusandolo d’imporre ai suoi stati «la pace dei sepolcri». Filippo fingerà di non aver ascoltato la provocazione, ma mette in guardia Rodrigo dal grande Inquisitore e cerca d’avere il marchese alleato al suo fianco, confidandogli il suo atroce sospetto nei confronti di Carlo e della regina.
Atto terzo. Quadro primo. Nei giardini della regina, di notte. Carlo crede d’esser stato convocato a un appuntamento da Elisabetta: la missiva anonima è invece di Eboli, innamorata del principe che giunge e per qualche istante crede sia la regina: quando la luce lunare rivela la vera identità della convenuta, Eboli comprende quale amore proibito l’infante porti in cuore e lo minaccia. Arriva Rodrigo, che sta quasi per uccidere la furibonda Eboli. Rimasto solo con Don Carlo, l’invita a confidare nel suo aiuto e nella sua fedeltà. Quadro secondo. Nella grande piazza davanti alla cattedrale di Valladolid il popolo si prepara ad assistere alla cerimonia dell’autodafé. Quando il re sta per dare inizio al rito, sopraggiunge Carlo alla testa di sei deputati fiamminghi per chiedere al padre d’esser nominato viceré di Fiandra e Brabante. Al rifiuto di Filippo, Carlo snuda la spada e giura di salvare dalla tirannia il popolo fiammingo. Filippo ordina che si disarmi l’infante, ma nessuno osa avvicinarsi. Solo Rodrigo osa togliere la spada a Carlo, che si sente tradito dall’amico; il rito riprende con gli eretici condotti al rogo dai frati dell’Inquisizione.
Atto quarto. Quadro primo. Filippo insonne è solo nel suo studio: medita sulla sua solitudine, sul suo amore non corrisposto per la regina, e invoca l’ora della morte. Fa quindi il suo ingresso il grande Inquisitore, terribile cieco ottuagenario. Il re l’ha convocato per aver consiglio su come punire l’infante e l’Inquisitore pretende dal monarca la testa di Carlo e anche quella di Posa, lasciando così il trono per l’ennesima volta succubo dell’altare. È poi la regina a entrare nella stanza di Filippo, invocando giustizia: il suo scrigno personale è stato rubato. Il portagioie è però in mano dello stesso Filippo, che aprendolo vede il ritratto di Carlo e accusa la moglie d’adulterio. Elisabetta sviene e Eboli viene chiamata a soccorrerla. Filippo esce allora accompagnato da Rodrigo e la principessa, rimasta sola con la regina, le chiede perdono per averla tradita e aver consegnato al re lo scrigno. Le confessa d’averlo fatto per amore di Carlo ed Elisabetta la costringe all’esilio. Disperata, Eboli maledice la propria vanità muliebre. Quadro secondo. Incarcerato, Carlo riceve la visita di Rodrigo che gli porta la speranza di libertà e il suo addio. Sa infatti d’essere preda del grande Inquisitore. All’improvviso, infatti, un colpo d’archibugio uccide Rodrigo, che prima di morire raccomanda all’amico di recarsi l’indomani a San Giusto per un ultimo colloquio con la madre. S’ode il fragore d’una sommossa e Filippo giunge in carcere a restituire al figlio la libertà. Carlo maledice il padre e l’accusa della morte di Rodrigo, sul cui cadavere il re lamenta invece la perdita d’un amico. Frattanto il popolo preme alle porte della prigione per la libertà di Don Carlo e Filippo ordina che si lascino entrare i rivoltosi: questi si fermano tuttavia di fronte all’apparizione terrificante del grande Inquisitore, che intima a tutti di prostrarsi davanti all’autorità regia.
Atto quinto. La scena del secondo atto, nel chiostro del convento di San Giusto. Eisabetta prega sulla tomba di Carlo V e attende l’arrivo di Don Carlo colà convocato e ricordando il dolce incontro con l’infante nella foresta di Fontainebleau piange la perduta felicità, aspirando solo alla «pace dell’avel». Giunge quindi Carlo e la regina gli comunica d’averlo voluto incontrare solo per dirgli addio e benedirlo prima della fuga in Fiandra. Con grande strazio i due si congedano, ma proprio in quel punto sono sorpresi da Filippo e dal grande Inquisitore. Il re consegna Carlo ai frati del Sant’Uffizio: mentre l’infante indietreggia verso la tomba, s’apre il cancello di questa e un frate, in abito di Carlo V, lo trascina con sé nelle profondità della cripta. Questa conclusione repentina, aggiunta da Verdi soltanto nella versione in quattro atti del 1884, era preceduta nella versione originale francese da una sorta di processo sommario a Carlo, giudizio poi interrotto dall’apparizione del frate come fantasma del defunto imperatore.

Mentre i teatri italiani continuano a preferire la versione in quattro atti, all’estero invece è la versione francese in cinque atti a prevalere, come questa registrata nel 1996 allo Châtelet di Parigi seppure con qualche taglio (il coro dei boscaioli della scena di Fontainebleau) e la soppressione del famigerato balletto. Sul podio un Pappano non ancora star megagalattica, ma che dimostra già la zampata della sua maestria e sotto la sua direzione l’opera si dimostra ancora una volta il massimo capolavoro verdiano. Il duetto dell’ultimo atto, ad esempio, è accompagnato in maniera sublime dalla sua orchestra. Maluccio il coro con intonazioni talora precarie e qualche sbandamento.

Il Don Carlos richiede un cast di assoluto rispetto e qui quasi l’abbiamo. Roberto Alagna è un Infante in piena forma e convincente sia sul piano drammatico che vocale. Thomas Hampson è un marchese di Posa autorevole ma con qualche problemino di intonazione e dizione, Karita Mattila come Elisabetta di Valois è regale anche nella voce. José van Dam è un tormentato Filippo II che non dimentica la sua liricità. Eric Halfvarson, il terribile grande inquisitore, è lo Yoda di Star Wars senza le orecchie a punta. Non del tutto in parte Waltraud Meier come Eboli, anche se si conferma interprete di gran classe, salutata da un grande applauso dal pubblico parigino.

La regia di Luc Bondy promette una lettura realistica della vicenda con un primo atto che non ci fa mancare nulla: la foresta nel gelo, il castello lontano, i protagonisti vestiti di rosso, il cavallo bianco della futura regina e la neve che cade nel momento giusto. Poi però tutto diventa più schematico: i giardini sono due sedili di pietra e una fontana, lo studio di Filippo uno stanzone pronto per i traslochi con una regina che dorme su un letto da campo (?) e che a un certo momento si alza e se ne esce quatta quatta da una porticina, la tomba di Carlo V sembra una rustica cappelletta di campagna e la scena dell’auto da fé è miserella se non fosse per la musica. Non c’è aria di Spagna imperiale nella scenografia di Gilles Aillaud. Più che all’Escurial sembra di essere in Marocco o in qualche isola greca. Efficaci invece le luci di Vinicio Cheli.

L’immagine originale in formato in 4:3 è stata tagliata in 16:9 perdendo quindi definizione. Le tre ore e mezza di musica sono stipate su un unico disco in due tracce audio, la qualità non è quindi eccezionale. Il libretto completo e altri contenuti sono disponibili sul DVD-ROM.

(1) Ecco in sintesi le differenze delle principali versioni:
Prima versione. Il 12 marzo 1867 andò in scena a Parigi il Don Carlos, opera in cinque atti su testo francese di Camille Du Locle, che giunse in Italia – a Bologna – il 26 ottobre dello stesso anno, tradotta in italiano da Achille de Lauzières e col titolo mutato in Don Carlo;
Seconda versione. Nel 1872, sul corpo musicale della versione italiana, Verdi intervenne in occasione della prima rappresentazione a Napoli, modificando profondamente il duetto Filippo-Posa e praticando un taglio (la sezione «Si, l’eroismo è questo») nel duetto Elisabetta-Carlo dell’ultimo atto.
Terza versione. Nel 1882, in vista delle recíte previste a Vienna, Verdi ritornò con tagli e sostituzioní sullo spartito (attenzione: spartito francese) dell’opera, facendosi comporre nuovi versi da Camille Du Locle, che vennero subito tradotti in italiano da Zanardini, il quale per l’occasione revisionò a fondo la precedente versione ritmica di de Lauzières, con interventi che divennero definitivi per tutte le successive rappresentazioni. Fu un lavoro che tenne Verdi impegnato per ben nove mesi, concluso non più a Vienna bensì a Milano nel gennaio 1884 quando alla Scala – in traduzione italiana – si ebbe in pratica un secondo battesimo dell’opera, tanto incisive ne erano le modifiche, tutte condotte su nodi drammatici vitali. Con la sua radicale revisione Verdi eliminò più della metà dell’opera precedente, e cioè: l’atto primo; i duetti Carlo-Rodrígo e Filippo-Rodrigo dell’atto secondo; inizio dell’atto terzo col successivo balletto; gran parte della scena Filippo-Elisabetta dell’atto quarto col successivo quartetto; alcune battute della scena Elisabetta-Eboli; il finale quarto, a partire dalla morte di Rodrigo; la conclusione dell’atto quinto. In sostituzione di tale musica, nella partitura vennero inseriti sette nuovi brani, per complessive 268 pagine autografe.
Quarta versione. Nel dicembre 1886 infine, a Modena, senza intervento diretto di Verdi ma ovviamente con la sua approvazione, andò in scena un Don Carlo che ripristinava il primo atto così come era stato pubblicato da Ricordi – in traduzíone italiana – subito dopo la prima parigina, e seguendo in ogni punto, dal second’atto in poi, le modificazioni apportate per la versione scaligera di due anni prima.

  • Don Carlo, Noseda/De Ana, Torino, 17 aprile 2013
  • Don Carlos, Jordan/Warlikoski, Parigi, 19 ottobre 2017
  • Don Carlo, Mariotti/Brockhaus, Bologna, 6 giugno 2018
  • Don Carlo, Chung/Carsen, Venezia, 24 novembre 2019
  • Don Carlos, De Billy/Konwitschny, Vienna, 4 ottobre 2020
  • Don Carlo, Valčuha/Guth, Napoli, 29 novembre 2022
  • Don Carlos, Minkowski/Steier, Ginevra, 15 settembre 2023
  • Don Carlo, Chailly/Pasqual, Milano, 7 dicembre 2023
  • Don Carlo, Jordan/Serebrennikov, Vienna, 3 ottobre 2024