foto © Daniele Ratti – Teatro Regio Torino
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Giacomo Puccini, La fanciulla del west
Teatro Regio, Torino, 23 marzo 2024
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L’omaggio del Regio torinese a Puccini continua col suo western
«Il poema sinfonico di Puccini» lo aveva definito Arturo Toscanini che ne aveva diretto la prima a New York nel 1910. In effetti la musica dispiegata dal compositore ne La fanciulla del West è opulenta e sproporzionata rispetto alla vicenda narrata e si è talmente trasportati dalla musica e ammaliati dalla ricercata orchestrazione che quasi danno fastidio i banali interventi dei minatori che si lamentano del loro stato e piangono la mamma lontana.
Nella sua incessante volontà a «innovare lo stile», dopo Madama Butterfly Puccini aveva cercato nuove strade che lo avevano portato all’insolito progetto della Fanciulla e in seguito de La rondine, una “colonna sonora” la prima, un’“operetta” la seconda. Anche il successivo Trittico, se non sperimentale, era comunque qualcosa di mai affrontato prima. Quella della Fanciulla è una musica sontuosa che nel secondo atto non si fa scrupolo di ricordare la suspence della fucilazione nella Tosca, mentre nel terzo la perorazione di Minnie per il suo Dick sembra voler citare «N’est-ce plus ma main que cette main presse?» dell’“altra” Manon, quella di Massenet. Puccini era un musicista attento verso la cultura musicale della sua epoca, con Strauss e Debussy in prima linea, e nella Fanciulla questa apertura è ben evidente. Ma resta il problema di un lavoro che si stacca totalmente dagli altri per la mancanza dei sensuali sfoghi melodici a cui Puccini aveva abituato il suo pubblico. Per non dire del libretto di Carlo Zangarini rielaborato in seguito da Guelfo Civinini e con ingenui versi spezzati e goffe rime, non all’altezza di quelli di Adami, Forzano e soprattutto Illica & Giacosa.
Tra le meno apprezzate opere di Puccini, ogni volta spero che una nuova esecuzione mi faccia cambiare idea, ma neanche questa volta ciò è avvenuto. Non per la qualità dello spettacolo, ma perché ci vorrebbe qualcosa di veramente speciale per produrre il miracolo, cosa che non è avvenuta con questa produzione del Teatro Regio. La direzione di Francesco Ivan Ciampa esalta la superba orchestrazione e il tono drammatico della vicenda ma ne sottolinea anche il carattere di colonna sonora, con la musica sempre in primo piano e con i cantanti spesso coperti dagli strumenti, vuoi per la non perfetta acustica della sala e della scenografia, vuoi per la qualità delle voci. Il soprano americano Jennifer Rowley è quella che più risente del volume orchestrale con una voce di bel timbro ma di scarsa proiezione e con acuti talora problematici. Il Dick di Roberto Aronica è al contrario molto sonoro, sicuro negli acuti ma con una declamazione stentorea che nuoce al fascino del personaggio. Il baritono Gabriele Viviani connota con efficacia il carattere detestabile di Jack Rance mentre nel folto gruppo di comprimari si evidenziano per le indubbie qualità vocali e sceniche il Nick di Francesco Pittari e l’Ashby di Paolo Battaglia. Filippo Morace lascia i consueti ruoli comici del teatro napoletano per delineare il personaggio più umano di tutta la vicenda, Sonora. Completano il cast voci di esperienza e altre ormai consolidate uscite dalla scuola del Regio Ensemble: Gustavo Castillo (Wallace), Cristiano Olivieri (Trin), Eduardo Martínez (Sid), Alessio Verna (Bello e Harry), Enrico Maria Piazza (Joe), Giuseppe Esposito (Happy), Tyler Zimmerman (Larkens), Adriano Gramigni (José Castro) e Alejandro Escobar (Un postiglione). Ksenia Chubunova è Wowkle, il personaggio della squaw che con il suo linguaggio fatto di verbi all’infinito e Ugh! fa rizzare i capelli anche a chi poco sopporta il politically correct – e la regista ironicamente fa entrare in scena Billy inalberando il cartello «Native Lives Matter»!
Nel manifesto della prima al Metropolitan Opera House la “special performance – first time on any stage” di The Girl of the Golden West – dove Minnie era Emmy Destinn, Dick Enrico Caruso e il direttore d’orchestra Arturo Toscanini – sono indicati uno stage manager, un chorus master e un technical director, ma non la regia, come era la prassi del tempo. Ora invece i responsabili dell’allestimento hanno il loro giusto peso nell’economia dello spettacolo e i nomi di Valentina Carrasco (regista), Carles Berga e Peter van Praet (scene), Silvia Aymonino (costumi) e Peter van Praet (luci) sono elencati a pieno titolo assieme a quelli degli interpreti sul palcoscenico. La regista di Buenos Aires firma sempre i suoi spettacoli con un’idea forte e questa Fanciulla è presentata come la ripresa di un film western. Il saloon dove si rifocillano i minatori dopo il duro lavoro e la baracca di Minnie sono ambienti isolati nella nudità del palcoscenico trasformato in un set cinematografico dove compaiono macchine da presa, un regista e alcuni assistenti. L’idea non è tra le più originali – la stessa regista l’aveva utilizzata nella sua Tosca a Macerata – ma si giustifica per la fascinazione di Puccini per la nuova musa che in quegli anni sfornava innumerevoli pellicole sull’epopea della “corsa all’oro” nel West americano, anche se la Carrasco pensa agli “spaghetti western” e ai film di Sergio Leone piuttosto che alle lontane pellicole mute e in bianco e nero. Anche Robert Carsen nella sua produzione alla Scala aveva utilizzato una lettura cinematografica, ma con risultati più convincenti. Nello spettacolo della Carrasco su uno schermo che scende dall’alto sono proiettate le immagini che vengono riprese in tempo reale, talora per evidenziare i primi piani dei personaggi oppure per farci vivere la vicenda da una prospettiva diversa, come quella di Dick nascosto nella baracca di Minnie all’arrivo dello sceriffo Jack. L’espediente non è però utilizzato al meglio, l’utilizzo delle camere da presa non ha una sua chiara logica e gli interpreti del “film” si confondono con quelli della “realtà” dell’opera, come quando alla colletta per Larkens partecipa anche il regista o quando alla ricerca del bandito non partono solo i minatori armati di fucili ma anche i macchinisti con i loro martelli e in maniche di camicia sotto la neve… Nel secondo atto la trovata registica è meglio realizzata e risulta più efficace, con il suo gioco di interni-esterni e la nevicata con i fiocchi bianchi sparsi dall’alto e il grande ventilatore. Meglio ancora l’atto terzo quando ci mostra la coppia incamminarsi su una strada verso un futuro più sereno con la citazione del celeberrimo finale di Modern Times di Charlie Chaplin.
Sugli applausi finali scorrono i titoli di coda del film che abbiamo visto ripreso in diretta. E sono applausi calorosi per tutti.
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