Euripide

Ifigenia in Tauride

foto © Birgit Gufler

Tommaso Traetta, Ifigenia in Tauride

Innsbruck, Tiroler Landestheater, 29 agosto 2025

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L’Ifigenia di Traetta, tra barocco e opera riformata

Alle Settimane di Musica Antica di Innsbruck, Christophe Rousset dirige con Les Talens Lyriques l’Ifigenia in Tauride di Traetta, esempio della riforma operistica settecentesca ispirata a Gluck. L’esecuzione, brillante e drammatica, valorizza cori e recitativi accompagnati. Splendida l’Ifigenia di Rocío Pérez, intensa e tecnicamente impeccabile; buona la messa in scena psicologica di Nicola Raab.

Dopo quella di Antonio Caldara, le Settimane di Musica Antica presentano un’altra Ifigenia, quella di Tommaso Traetta. Del compositore di Bitonto qui ad Innsbruck due anni fa s’era ascoltato l’oratorio sacro Rex Salomon, ora è la volta di un’opera seria che Traetta scrisse per una commissione della corte asburgica. L’Ifigenia in Tauride fu infatti proposta dall’Ispettore generale degli spettacoli di Vienna, il conte Giacomo Durazzo – lo stesso che nel 1764, ambasciatore imperiale a Venezia, avrebbe acquistato i manoscritti vivaldiani ora nel fondo Foà-Giordano della Biblioteca Nazionale di Torino – su libretto di Marco Coltellini, poeta ed editore dalla cui stamperia livornese era uscita la seconda edizione del Saggio sopra l’opera in musica dell’Algarotti, testo fondamentale dei riformatori operistici settecenteschi capeggiati da Ranieri de’ Calzabigi.

Fu infatti quest’ultimo a proporre il nome di Coltellini a Vienna e a procurargli la commissione per il libretto dell’opera il cui felice esito gli fece conseguire il titolo di poeta di corte presso gli Asburgo. Coltellini scriverà per Mozart La finta semplice (1768) e sarà l’autore anche dell’altra incursione di Traetta nella tragedia greca, l’Antigona (1772). Il dramma di Euripide è complesso – infatti l’episodio della Tauride fu messo in musica meno sovente di quello in Aulide – ma Coltellini riesce a costruire una trama efficacissima, con recitativi incalzanti che riflettono il ritmo naturale del discorso – evidente è la vicinanza a Gluck per cui è la musica a servire la parola, non viceversa – e una precisa definizione dei personaggi.

Seconda opera viennese di Traetta dopo la sua Armida del 1761, l’Ifigenia in Tauride fu messa in scena nel teatrino di corte di Schönbrunn il 4 ottobre 1763 «festeggiandosi i felicissimi nomi delle loro maestà imperiali e reali», come si legge sul libretto a stampa, essendo infatti il 4 (San Francesco d’Assisi) e il 15 (Santa Teresa del Gesù) appunto gli onomastici di Francesco I di Lorena e Maria Teresa d’Austria.

Atto primo. Oreste è sbarcato in Tauride (l’odierna Crimea) con il suo amico Pilade per rubare il sacro tesoro dal tempio di Pallade Atena. Nonostante gli avvertimenti di Pilade, Oreste decide di irrompere immediatamente nel palazzo sperando di porre fine al suo calvario. Pilade giura fedeltà al suo amico fino alla morte. Nel frattempo, Ifigenia spera nella salvezza: per quindici anni, Toante l’ha costretta a sacrificare alla dea ogni straniero che metteva piede sull’isola. Quando le viene portato il prigioniero Oreste, i due fratelli non si riconoscono, ma la vista dello straniero, che lei riconosce come un connazionale, commuove profondamente Ifigenia. Durante i preparativi per il sacrificio, Oreste soffre di allucinazioni, che lei usa come pretesto per convincere Toante a rimandare il delitto sacrificale.
Atto secondo. Non riuscendo a persuadere Toante a sospendere il sacrificio rituale nel caso di Oreste, Ifigenia è disperata e vuole togliersi la vita. Pilade, alla ricerca di Oreste, trova un complice nell’unico alleato di Ifigenia, Dori, che lo conduce segretamente al tempio. Una volta imprigionato, Oreste è tormentato dalle Furie. Nella sala delle guardie vede il fantasma della madre assassinata, Clitennestra, che crede di riconoscere anche nel volto di Ifigenia. Ifigenia chiede a Oreste della sua patria e viene a sapere della morte dei suoi genitori. Ma Oreste non osa rivelare la sua identità. Dori riunisce Oreste e Pilade e mostra loro un passaggio segreto per fuggire dal tempio. Oreste lo usa per rubare l’oggetto sacro. Di fronte a Toante, Dori confessa di aver aiutato gli stranieri a fuggire. Toante giura una sanguinosa vendetta.
Atto terzo. Oreste si prepara a partire con i suoi uomini. Si accorge che Pilade è scomparso e si mette alla ricerca di lui. Ancora una volta, Ifigenia non può sfuggire al sanguinoso fardello della sua posizione con Toante che la minaccia apertamente. Pilade è stato catturato mentre fuggiva e ora deve essere ucciso da Ifigenia, insieme a Dori. Oreste interrompe i preparativi per il rituale, viene catturato dalle guardie del tiranno e deve essere sacrificato immediatamente. Pilade rivela l’identità di Oreste e Ifigenia rifiuta di continuare con il rituale. Toante decide di sacrificare Oreste lui stesso e Ifigenia pugnala a morte il tiranno e annuncia che condurrà gli amici liberati nella sua patria amica e fertile abbracciando Oreste.

I cinque personaggi dell’Ifigenia in Tauride furono interpretati da stelle dell’epoca: Oreste fu il contralto castrato Gaetano Guadagni (l’Orfeo di Gluck l’anno prima); Pilade il soprano castrato Giovanni Toschi; Ifigenia il soprano Rosa Tartaglini Tibaldi; Toante il marito Giuseppe Tibaldi, tenore; Dori il soprano Maria Sartori. Nella sua Ifigenia Traetta fonde i caratteri tipici dell’opera francese (cori e balletti) con quelli dell’opera italiana (arie con da capo), inserite però in una struttura drammaturgica serratissima, con scene molto articolate dove predominano i recitativi accompagnati (ben 11, quante le arie solistiche) e i cori (addirittura 13!). (1)

Se il primo atto si muove ancora nel solco della tradizionale opera barocca con la sua successione di arie solistiche, nel secondo atto il coro inizia a svolgere un suo proprio ruolo drammatico intervenendo direttamente nell’azione con un effetto sorprendente. Abbiamo dunque una lunga scena prima con Dori e Pilade, che cerca l’amico Oreste, e poi con Oreste solo con i suoi rimorsi per il matricidio, quando le Eumenidi inizialmente sembrano cantargli una ninna-nanna accompagnata dai dolci arpeggi dei violini, «Dormi Oreste!», per poi passare alla denuncia della colpa: «Ti scuote, ti desta | l’ombra mesta, sdegnosa, negletta, | d’una madre svenata da te» su un crescendo scandito da oboi, corni e viole. Quindi, sui fremiti delle biscrome dei primi violini incalzati dagli strumenti bassi: «Senti, ingrato, che chiede vendetta, | mostra il seno, ti sgrida, e minaccia; | ti rinfaccia che vita ti diè». Una pagina di una drammaticità raramente rappresentata con tale evidenza nel teatro musicale fino ad allora.

Traetta fu uno dei massimi rappresentanti dell’opera napoletana settecentesca ed è evidente ad esempio nella cullante melodia dell’aria di Ifigenia dell’atto primo «So, che pietà de’ miseri». Ma in lui c’è anche un’urgenza drammaturgica nuova che proietta il suo lavoro nel futuro. 55 anni separano la sua Ifigenia da quella di Caldara, ma sembrano molti di più: le convenzioni dell’opera qui sembrano sorpassate di colpo, le ornamentazioni non sono solo un mezzo per dimostrare le abilità canore dell’interprete, ma un modo per definire in maniera più teatrale il personaggio, sia che si tratti della parte del vilain Toante, di cui si sottolinea la disumana crudeltà, o del dramma di Ifigenia che nell’aria del secondo atto «Che mai risolvere» dipana colorature nervose come quelle della Regina della Notte mozartiana, agilità pienamente giustificate dalla situazione drammatica.

Bene ha fatto il Festival a chiamare un francese per rendere giustizia a questo lavoro con cui si realizza la transizione all’estetica gluckiana. Christophe Rousset, che ha già registrato di Traetta la sua Antigona, alla guida de Les Talens Lyriques imprime alla partitura un impulso ritmico tale da far diventare l’orchestra vero motore dell’azione, non semplice accompagnamento: il passo è travolgente e i tempi e i volumi sonori sempre adeguati. Il colore smagliante degli interventi strumentali è solo una delle qualità dell’esecuzione dell’ensemble, capeggiato dalla Kapellmeisterin Gilone Gaubert, che si distingue per precisione di attacchi e varietà di intenzioni. Nella compagine si ammirano i bei suoni sia degli archi sia degli otto strumenti a fiato presenti (flauto barocco, flauto traverso, oboe, corno inglese, due fagotti e due corni) e pregevole risulta il contributo di Valerie Montanari al cembalo nei lunghi recitativi. Non è da meno il coro NovoCanto, insieme tirolese composto da quattordici voci che nei numerosissimi interventi corali hanno modo di dimostrare la loro qualità vocale messa in luce ad esempio nel citato intervento delle Furie che tormentano il povero Oreste dove le taglienti parole si stagliano con grande efficacia.

Nel cast si distingue l’Ifigenia di Rocío Pérez, il soprano spagnolo dalla fulgida carriera, qui al suo debutto alle Festwochen dove ha entusiasmato il pubblico con la sicura tecnica e l’intensità espressiva di una parte impegnativa perché l’interprete deve dare corpo a un personaggio – da vittima sacrificale nella prima parte in Aulide, qui nella Tauride diventa lei stessa carnefice in quanto designata a immolare alla dea Pallade Atena tutti gli stranieri che mettono piede sulla terraferma, una serie infinita di vittime – che esprime la varietà dei suoi sentimenti in tutti i toni della tragicità. Quella che potrebbe essere una interpretazione monocorde, mostra invece le infinite varietà espressive del personaggio. Altrettanto entusiasta la reazione del pubblico per Suzanne Jerosme, finalista del Concorso Cesti del 2016, qui nei panni di Pilade. Anche se è discutibile la scelta di una voce femminile per il personaggio – si attenua in questo modo l’intensità/ambiguità del rapporto di amicizia maschile quasi omoerotico con Oreste, sottolineato non solo dal librettista Coltellini ma anche dai librettisti dell’Iphigénie en Aulide di Gluck e presente anche in Euripide – la cantante fin dalla sua prima travolgente aria «Stelle irate, il caro amico» sfoggia una padronanza tecnica strabiliante nella rapidità delle colorature e nella piena proiezione vocale, qualità che illuminano ogni suo ulteriore intervento atteso con emozione dal pubblico. Terzo soprano in scena è la danese Karolina Bengtsson, che delinea con sobrietà il personaggio un po’ meno sfaccettato di Dori. 

Anche lui finalista del Cesti del 2018, il controtenore polacco Rafał Tomkiewicz ha timbro gradevole, bei legati ed espressività, ma non soddisfa pienamente come tormentato Oreste, non essendo la dizione tale da rendere incisivi i suoi lunghi recitativi. Niente da dire invece per Alasdair Kent, tenore australiano per il quale le impervie agilità della parte di Toante non costituiscono la minima difficoltà e che insieme alla spigliata presenza scenica definiscono con efficacia l’arroganza del re della Tauride.

La messa in scena di Nicola Raab non si distingue per particolare bellezza o ingegnosità. La regista dà una lettura psicologica della storia interrogandosi sul prima e sul dopo dei fatti rappresentati, sull’ambiguità del rapporto di Ifigenia con Toante, che prima l’ha salvato e poi l’ha “costretta” al ruolo di sacerdotessa e sulla atemporalità della vicenda, sottolineata dai costumi, di Madeleine Boyd, appartenenti a epoche diverse: la Grecia antica, il Rinascimento (?), la modernità. Non nuova, ma efficace per effettuare i diversi cambiamenti di ambientazione, l’impianto scenografico rotante (della stessa Boyd) con cui si passa dalla fiancata di una nave con le lettere ΑΘΗ (le iniziali di Atena) verniciate sulla superficie corrosa, al vuoto del tempio con sospeso il simulacro della dea realizzato in una leggera rete di metallo, all’intimità di un ambiente su due piani ricettacolo di tele e altri oggetti antichi. Alle tante domande la regia non dà molte risposte, come nel finale quando invece di abbracciare finalmente il fratello ritrovato, Ifigenia se ne va da sola sbattendo la porta e lasciando gli altri a cantare la posticcia morale: «E tremino i tiranni | d’un Nume punitor».

Ancora una volta la missione delle Festwochen di far scoprire i gioielli del nostro passato musicale è riuscita e il pubblico si dimostra ampiamente soddisfatto applaudendo con entusiasmo tutti gli artefici della proposta.

(1) Struttura dell’opera:
Sinfonia
Atto primo
1. Recitativo accompagnato Ah, tu non senti, amico (Oreste)
2. Aria Qual destra omicida (Oreste)
3. Aria Stelle irate (Pilade)
4. Coro Fra gl’inni, e i cantici
5. Recitativo accompagnato Ma quale ascolto (Dori)
6. Coro Misero giovane
7. Aria Frena l’ingiuste lacrime (Toante)
8. Recitativo accompagnato Deh, con qual core, amica (Ifigenia)
9. Aria So, che pietà de’ miseri (Ifigenia)
10. Coro O come presto a sera
11. Recitativo accompagnato Ah, ti ravviso (Oreste)
12. Cavata Oh Dio, dov’è la morte (Oreste)
13. Coro Ah, si purghi quest’ostia macchiata
14. Coro Temuta Pallade
Atto secondo
15. Aria Or palpita, e freme (Dori)
16. Recitativo accompagnato Ah! qual s’apre al mio cor (Ifigenia)
17. Aria Che mai risolvere (Ifigenia)
18. Coro Dormi Oreste! Ti scuote, ti desta
19. Aria Ah! Per pietà placatevi (Oreste)
20. Coro di Furie Nere figlie dell’Erebo
21. Coro In queste amare lacrime
22. Recitativo accompagnato Di’: vivi ancora (Ifigenia)
23. Coro di vergini Chi può frenar le lacrime
24. Aria Grazie, pietosi Dèi (Pilade)
25. Recitativo accompagnato Di’: vivi ancora (Ifigenia)
26. Coro Gli strali tremendi
27. Recitativo accompagnato Soccorso santa Dea (Uno dei cori)
28. Aria Smanio di rabbia e fremo (Toante)
Atto terzo
29. Aria V’intendo amici Numi (Oreste)
30. Aria Vedi grave di nembi, e saette (Toante)
31. Recitativo accompagnato Misera! Che farò! (Ifigenia)
32. Duetto Il mio destin non piangere (Dori e Ifigenia)
33. Coro Quante ombre meste (Vergini e Sacerdoti)
34. Recitativo accompagnato Verran tra poco (Pilade)
35. Recitativo accompagnato Fermatevi, custodi (Ifigenia)
36. Seguiam la donna forte (Oreste, Pilade, Dori e coro)
37. Tutti E fremino i tiranni

Ifigenia in Aulide

 

Nicola Porpora, Ifigenia in Aulide

Bayreuth, Markgräfisches Opernhaus, 5 settembre 2024

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(live streaming)

A Bayreuth scoperto un altro tesoro: un’opera protoilluminista

Si può dire che ben pochi librettisti abbiano rinunciato a ispirarsi alla vicenda euripidea: da Apostolo Zeno a Luigi Romanelli, da Paolo Rolli a Marco Coltellini, da Matteo Verazi a Luigi Serio, da Leopoldo Villati a Ferdinando Moretti. Ancora più numerosi i compositori che oltre a Gluck hanno intonato la storia della infelice figlia di Agamennone: Antonio Caldara (1718), Carl Heinrich Graun (1748), Tommaso Traetta (1759), Niccolò Jommelli (1773), Vicente Martín y Soler (1778), Luigi Cherubini (1788) e Vincenzo Federici (1809) alcuni di questi.

L’opera di Nicola Porpora nasce dalla rivalità con Händel nella Londra del tempo: nel 1733 alla Arianna in Nasso dell’italiano il sassone rispondeva con la sua Arianna in Creta; nel dicembre 1734 Händel presentava il suo Oreste alla Royal Academy of Music, pochi mesi più tardi, il 3 maggio 1735 per la concorrente Opera of the Nobility, Nicola Porpora rispondeva con un’altra vicenda degli Atridi, Ifigenia in Aulide su libretto in italiano di Paolo Antonio Rolli. Nel cast di allora tre delle maggiori stelle dell’universo canoro dell’epoca: i castrati Farinelli (Achille) e Senesino (Agamennone) e il soprano Francesca Cuzzoni (Ifigenia).

Antefatto. L’esercito greco si è riunito nella Aulide prima di salpare insieme per Troia. Il capo dell’esercito Agamennone ha ucciso un cervo sacro nel bosco di Diana e ha deriso la dea. Infuriata per questa blasfemia, Diana fa calare i venti e impedisce ai Greci di salpare. Il sacerdote Calcante profetizza che solo il sacrificio della figlia di Agamennone, Ifigenea, può placare l’ira della dea. Con il pretesto che Ifigenia deve sposare l’eroe Achille, viene mandata nella Aulide con la madre Clitennestra.
Atto I. Nelle mani del guerriero Ulisse viene consegnata una lettera in cui si avverte Clitennestra che il presunto matrimonio tra Ifigenia e Achille deve essere ritardato; ad entrambi viene consigliato di fuggire ad Argo. Il sacerdote Calcante è fermamente deciso a rispettare l’ordine di Diana e che Achille non deve sapere nulla del futuro sacrificio. Il saggio Ulisse elogia la prudenza come la più alta virtù, persino superiore al coraggio temerario. Agamennone ha saputo che Clitennestra non può fare il viaggio verso la Aulide per motivi di salute. Questo gli fa sperare che Diana sia soddisfatta della sua disponibilità al sacrificio. Ma Calcante lo avverte di non prendere troppo alla leggera la furia divina. Clitennestra e Ifigenia arrivano inaspettatamente in Aulide e si stupiscono di non essere accolte secondo la dignità della loro posizione. Non riconosciute, si imbattono in Achille. Ifigenia e l’eroe si innamorano prima di riconoscersi con gioia. Il ricongiungimento di Agamennone con la moglie e la figlia è per lui un tormento. L’amore per la sua famiglia è più grande della paura per gli dèi. Achille nota l’angoscia di Agamennone. Quando apprende la verità, proclama di credere nella razionalità degli dèi, non nella loro crudeltà.
Atto II. La situazione si aggrava. Ulisse avverte l’ira dell’esercito, che non è disposto a tollerare un ulteriore ritardo nella partenza per Troia e chiede il sacrificio di Ifigenia. Achille la difende e la pone sotto la protezione del suo seguito, i Mirmidoni. L’alleanza con Agamennone inizia a incrinarsi. Calcante continua a diffondere la paura della vendetta di Diana. I due si scontrano in una furiosa guerra di parole: Achille contrappone alle crudeli convinzioni di Calcante la sua fede nella bontà e nella razionalità degli dei.
Atto III. Achille ha messo a punto un piano per portare di nascosto Ifigenia fuori dalla Aulide. Scortata da una truppa di Mirmidoni, deve essere portata su una nave. Durante il tragitto il gruppo incontra Calcante e i suoi sacerdoti: ancora una volta scoppia un conflitto tra il mondo delle armi e quello della fede. Ifigenia vuole porre fine al conflitto accettando volontariamente il suo sacrificio. Poco prima che l’atto venga compiuto da Calcante, Achille irrompe con la spada sguainata. La dea Diana in persona appare con una cerva morta e proclama che l’animale ha riscattato con la sua vita la morte del cervo sacro. L’eroica abnegazione di Ifigenia e la sua disponibilità al sacrificio, dice la dea, valgono per lei più del sangue. Achille loda la clemenza degli dèi e tutti si uniscono al giubilo.

La vicenda è dunque quella nota, ma Rolli nel suo pregevole libretto introduce un elemento che riflette gli ideali protoilluministici dell’epoca, ossia lo strapotere della religione, incarnato qui nella figura dell’augure Calcante, che fin dal suo primo intervento mette in chiaro le cose: «Ma del sangue miglior tinte esser denno l’are nostre, | onde scendane maggiore nelle turbe il rispetto ed il terrore» e poi nel terzo atto canterà l’aria: «Son nostre forze le turbe ignare». L’opera di Porpora contrappone l’illuminismo della ragione difeso da Achille alla superstizione e alla manipolazione delle masse orchestrata da Calcante e dai re greci Ulisse e Menelao mentre il conflitto tra Agamennone e il grande sacerdote quasi anticipa quello tra Filippo e l’Inquisitore nel Don Carlos verdiano: «AGA: E tu supremo interprete del fato, credi che in nostri petti tal legame d’affetti egli annodasse perché il coltello tuo poi lo tagliasse? CAL: Credo che la potenza alta infinita de’ Numi arbitra sia di morte e vita. Con gl’altri re giurasti vendicar Menelao, con gl’altri re che rege lor t’an fatto; e scioglier pensi il giuramento e il patto!» .

Ma l’opera non affronta solo il tema dell’isteria religiosa collettiva che porta ad atti innaturali come l’omicidio della propria figlia, affronta anche i problemi derivanti dal fatto che gli esseri umani, sfidando le leggi della natura, ne devono poi affrontare le conseguenze. Applicata ai nostri problemi contemporanei, l’uccisione del cervo sacro da parte del re Agamennone per sfamare il suo esercito affamato equivale alla distruzione della natura, qui la dea Diana, che così si vendica degli atti degli umani, fa notare il regista.

Iniziato con un’opera di Porpora, Carlo il Calvo, nel 2020 in piena pandemia da Covid, il Bayreuth Baroque Opera Festival alla sua quinta edizione si è rivelato tra i più interessanti festival lirici del mondo e lo dimostra anche quest’anno con un’altra gemma del passato. Porpora è un compositore che si spinge oltre i confini del virtuosismo vocale, sfruttando appieno le infinite capacità della voce umana e ce ne fornisce ulteriore prova in questa Ifigenia in Aulide affidata per la concertazione a Christophe Rousset al clavicembalo e alla guida de Les Talens Lyriques, orchestra in residence del festival quest’anno. Il suo approccio privilegia l’aspetto musicale-drammatico più che catturare l’attenzione con contrasti estremi di timbri, tempi ed effetti speciali isolati. In Porpora gli strumenti interagiscono con le voci, non sono un mero accompagnamento della linea vocale e Rousset con il suo prezioso ensemble sostiene alla perfezione le acrobazie canore dei cantanti. E che acrobazie! La parte di Achille fu scritta su misura per il Farinelli, la sua ampia tessitura e le agilità inarrestabili che il controtenore Maayan Licht affronta con disarmante facilità e fluidità. Punto forte della serata, il sopranista israeliano si era già fatto notare nell’Alessandro nell’Indie di due anni fa, ma qui nella figure del Pelide – il motore della vicenda, colui che, attraverso il suo amore e la sua forza di persuasione nell’affermare la bontà degli dèi, riesce a cambiare il corso degli eventi e a ribaltare la situazione apparentemente insolubile in cui si trova Agamennone – i suoi acuti stratosferici, la potenza sonora e i tono spavaldo ben si addicono a questo personaggio eroico, tipico dell’opera barocca. Dopo Ifigenia, Achille è quello che ha più arie solistiche, due per ogni atto, più un inconsueto duetto di carattere polifonico, quasi un fugato tra le voci di Achille e Calcante. (1) I suoli interventi vanno dalla esibizione più fantasmagorica di trilli, picchettati e note tenute nell’aria di sortita «Nel già bramoso petto», al languore della famosa «Le limpid’onde». A questo si aggiunga una perfetta dizione a una innegabile espressività recitativa. 

Solo due i numeri solistici, ma memorabili, quelli di Ulisse, affidati a un altro sopranista che si sta facendo strada in questi giorni, Nicolò Balducci, anche lui perfettamente a suo agio nelle colorature scritte da Porpora. Agamennone trova in Max Emanuel Cenčić l’interprete ideale per la complessità del personaggio che delinea con la morbidezza vellutata della voce, i colori caldi e gli accenti drammatici. La tessitura meno acuta del ruolo si rivela adatta ai maturi mezzi vocali del controtenore di cui si ammira anche l’impeccabile gioco scenico e attoriale. Calcante trova in Riccardo Novaro un baritono dal timbro non molto profondo, ma estremamente espressivo.

Solo due le interpreti femminili. Ifigenia e Diana sono qui cantate entrambe da Jasmin Delfs ma lo sdoppiamento del ruolo di Ifigenia con un’attrice muta, le cui parole sono affidate a Diana, è stato forse emotivamente alienante e il canto di grande purezza del soprano americano, anche se perfettamente equilibrato e preciso, ha rivelato una certa freddezza. Clitennestra ha la voce di Mary-Ellen Nesi, spesso ammirata in questo repertorio, ma qui la sua imponenza vocale non è pari a quella della sua matronale acconciatura anche se il personaggio, diviso tra regalità e compassione per la figlia, è complessivamente ben delineato.

La messa in scena di Max Emanuel Cenčić, oltre che cantante e regista anche Direttore del Festival, è in stile contemporaneo ma evocativa di un’atmosfera arcaica: durante l’ouverture, classicamente tripartita, viene narrato l’antefatto dell’uccisone del cervo sacro a Diana da parte di Agamennone e dei suoi soldati che entrano in scena nudi dalla vita in giù, questo per accentuare l’aspetto ferino e barbaro dei greci. Il nudo maschile non è una novità nell’opera ultimamente, ma era dai tempi dell’Ercole sul Termodonte di Spoleto che non venivano messi così in bella vista attributi maschili non solo per i figuranti: il regista non si è tirato indietro, dando lui stesso l’esempio. 

Il rosso, l’oro e il nero fanno da sfondo alla scenografia – di Giorgina Germanou che disegna anche i favolosi costumi – illuminata dall’attento gioco luci di Romain de Lagarde. Alti prismi triangolari mobili e rotanti formano i diversi ambienti offrendo una diversa faccia: la prima con segni marmorizzati, la seconda forma il disegno preparatorio del Sacrificio di Ifigenia di Carle Vanloo (1755), la terza hanno una lucentezza che riprende la cornice a specchio intorno al proscenio. Nelle scene del bosco sottili scheletri dorati di alberi morti evocano forse la morte della natura inflitta dalla dea. Oltre a Ifigenia, l’attrice Marina Diakoumakou, un altro attore muto si muove sul palcoscenico per rappresentare il re Menelao, George Zois.

Anche quest’anno l’intrigante messa in scena, la bellezza delle scenografie, dei costumi, delle luci, un cast comprendente tre eccezionali voci di controtenori, un’orchestra di eccellenza – per non parlare della magnificenza della sala del teatro margraviale – hanno contribuito a rendere memorabile la serata inaugurale del Bayreuth Baroque Opera Festival.

(1) Struttura dell’opera:
Sinfonia
Atto I
1. Svolgi l’impeto al valore (Ulisse)
2. Dall’Eolie caverne profonde (Agamennone)
3. Non corrisponde al ver (Ifigenia)
4. Nel già bramoso petto (Achille)
5. Con le fiamme più vivaci (Clitennestra)
6. Padre, sì grande affetto (Ifigenia)
7. Padre di tutti è Giove (Calcante)
8. Oh, se la sua beltà (Agamennone)
9. Allontanata agnella (Achille)
Atto II
10. Scegli Atride (Ulisse)
11. Lasciar bramo (Ifigenia)
12. Tu spietato non farai (Agamennone)
13. All’amor di dolce madre (Ifigenia)
14. Tratto al guardo avvelenato (Achille)
15. Il regno, la sorte (Clitennestra)
16. Per cader de’ i Num all’are (duetto Achille e Calcante)
Atto III
17. Quando sarai tra l’armi (Ifigenia)
18. Le limpid’onde (Achille)
19. Ah no, non piangere (terzetto Ifigenia, Clitennestra e Agamennone)
20. Son nostre forze le turbe ignare (Calcante)
21. Per tua gloria o Grecia amata (Ifigenia)
22. Già scherzando a i lidi il vento (Diana)
23. Bella Dea d’un bel contento (duetto Clitennestra e Agamennone)
24. Con alte lodi (Achille e coro)

Médée


foto © Brescia e Amisano – Teatro alla Scala.
Le immagini si riferiscono alla prima rappresentazione con Marina Rebeka protagonista

Luigi Cherubini, Médée

Milano, Teatro alla Scala, 23 gennaio 2024

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Per prima volta alla Scala la Médée di Cherubini

Nell’anno che celebra il centesimo dalla nascita – ed è compreso anche il lancio di “Maria Callas”, «Una nuova fragranza che incanta i sensi. In esclusiva nello shop online col 10% di sconto»… – la cantante viene ripetutamente ricordata per la sua Medea del 1953 diretta da Leonard Bernstein e poi nel 1962 da Thomas Schippers, di cui abbiamo le registrazioni dal vivo. Un’interpretazione che fece giustamente scalpore per la forza interpretativa di una lettura personalissima che era, ovviamente, figlia dei suoi tempi: la sua Medea più che di Cherubini era della Callas stessa, in italiano e con una grande orchestra imbevuta di Romanticismo – ma si sono sentite anche delle Medee veriste… Qui si è voluti invece rimanere sulla linea tracciata da Gluck e dal Mozart dell’Idomeneo. 

Nel 1854, quasi sessant’anni dopo la nascita dell’opera, Franz Lachner ne aveva orchestrato i recitativi basandosi su una traduzione tedesca e su questa versione si erano riferiti quelli di Carlo Zangarini, con cui Medea era stata presentata nel 1909 in Italia. Originariamente erano infatti recitati dagli attori dell’Opéra Comique e in termini metrici erano nella forma di alexandrin, i nostri martelliani, versi composti da due emistichi di sei sillabe ciascuno, articolati in corrispondenza di una cesura che si ha dopo la sesta sillaba, che è accentata. I trenta minuti di dialoghi parlati in francese sono difficilmente proponibili a un pubblico moderno, persino in un paese francofono. Infatti nella Médée di Rousset/Warlikowski del 2011 a Bruxelles – quella con Nadja Michael vestita come una trasgressiva Amy Winehouse – i versi originali furono sostituiti da una concisa prosa contemporanea. Figuriamoci in un paese non francofono! A Martina Franca nel 1995 vennero ristabiliti i dialoghi parlati, ma con esiti non entusiasmanti e l’idea non ha mai avuto seguito. Comunemente vengono tagliati o riscritti per alleggerire le interruzioni tra i numeri musicali e dare così maggior rilevanza alla parte musicale.

Così avviene ora a Milano, dove Mattia Palma ha inventato dei nuovi dialoghi che ha messo in bocca ai figli di Médée e Jason, gli unici personaggi che non hanno mai avuto voce nelle innumerevoli versioni di questa tragedia. Qui, nel silenzio dell’orchestra si sentono le voci sussurrate commentare la vicenda dal loro punto di vista, come il coro della tragedia antica, e l’effetto è incredibilmente suggestivo e drammatico allo stesso tempo. Tra l’altro, bravissimi i bambini che li interpretano in scena e quelli che danno loro la voce in francese. Una soluzione originale, geniale e talmente straniante che forse sarebbe stata efficace anche in italiano. Chissà.

Strano ritardo quello della Scala a riproporre due generazioni dopo quella della Callas l’opera tragica di Cherubini. Magari poteva essere affidata a Riccardo Muti, che ha diretto molte volte l’Orchestra Giovanile Cherubini e che del compositore fiorentino è stato grande interprete – a lui fu dedicato il volume della serie “Grandi interpreti” di Banca Intesa nel 2003, Luigi Cherubini. Il fuoco nel marmo, contenente la Messa in Fa maggiore “di Chimay”. Nonostante il rivestimento classicista, a suo tempo Médée aveva scandalizzato il pubblico: lo scabroso soggetto di Euripide toccava uno dei tabù più sacri della nostra cultura, ossia l’infanticidio e «terrorisme musical» era stato definito il lavoro andato in scena a Parigi il 30 ventôse (marzo) dell’anno V del calendario rivoluzionario, un periodo certo non esente dalla raccapricciante sequenza di esecuzioni capitali. Il Terrore era terminato da pochi anni con la morte di Robespierre nel 1794.

L’iperbolica partitura, con la sua vocalità declamata di stile gluckiano e l’impetuoso sinfonismo beethoveniano dei pezzi orchestrali, è affrontata di petto da Michele Gamba. Fin dalla drammatica e furiosa ouverture, l’orchestra senza perdere in trasparenza è pervasa da un colore denso, scuro, pulsante con il dramma. L’andamento tragico della musica emerge prepotentemente dal colore e dai giri armonici non protesi verso il futuro romanticismo – che pure con Berlioz e Brahms amerà follemente questa partitura – ma sono bensì marcatamente settecenteschi, addirittura antecedenti con echi di Rameau di cui il Maestro Gamba parla nel numero 24 della rivista del teatro. La sintassi strumentale è storicamente informata ma non dogmatica, l’organico è ridotto e il nervoso fraseggio asseconda il passo melodrammatico della vicenda. In questo primo pezzo si fa notare il timpanista dell’orchestra Andrea Bindi a cui bisognerà raddoppiare lo stipendio per l’impegno profuso nelle travolgenti pagine sinfoniche dell’opera. Degno di menzione anche il fagotto di Gabriele Screpis nella sublime introduzione all’aria di Néris del secondo atto.

Corso accidentato per la protagonista di questa produzione: all’inizialmente prevista Sonya Yoncheva, grande Médée con Baremboim alla Staatsoper di Berlino nel 2018, è subentrata Marina Rebeka che, assente per motivi di salute alla prova generale, dopo la trionfale prima ha sviluppato i sintomi di un’indisposizione che non le ha permesso di affrontare la seconda replica, affidata a Maria Pia Piscitelli. Ora, la terza replica tocca a Claire de Monteil, un giovane soprano francese dalla voce fresca e vibrata, non molto potente, tanto da venire spesso coperta dalla pur ridotta orchestra, e dal registro basso non troppo sviluppato. In questi casi non si può però che essere grati per il coraggio e la volontà della cantante nell’aver voluto salvare la rappresentazione – come mi ha scherzosamente detto Francesco Saverio Clemente nell’intervallo, qui non è come per la Bohème che basta dare un calcio al cespuglio perché saltino fuori decine di Mimì! valla a trovare un’altra Médée in poco tempo… – e il pubblico ha apprezzato la sua performance applaudendola generosamente. Difficilmente si poteva pretendere di più: la presenza scenica non è propriamente magnetica e il personaggio è venuto fuori a fatica. «Quoi qu’il en soit, remerciements sans fin, Claire!».

Il ruolo di Jason non è tra i più avvincenti nella versione di Cherubini e qui viene affidato a uno specialista del repertorio francese, Stanislas de Barbeyrac, stilisticamente pregevole, vocalmente un po’ ingolato. Non memorabili né Nahuel di Pierro, non a suo agio nel registro basso di Créon, e Martina Russomanno, Dircé. Meglio Ambroisine Bré, che dopo la Néris di Fedora Barbieri del 1953 e la Sara Mingardo del 2008 fa sua la più bella aria dell’opera, «Ah, nos peines seront communes», introdotta dall’assolo di fagotto e cantata con molta sensibilità.

Ma uno degli elementi che fanno di questo uno spettacolo imperdibile è la messa in scena di Damiano Michieletto, che nel giro di pochi giorni presenta ben tre sue produzioni: il 7 gennaio ha ripreso la sua Jenůfa a Berlino, il 13 lo Zauberflöte a Roma e il giorno dopo questa Médée alla Scala. Durante l’ouverture, sul telino scorrono i caratteri greci del verso che Euripide mette in bocca al coro all’inizio della tragedia: «οὐκ εἰσὶ δόμοι· φροῦδα τάδ΄ ἤδη» (questa famiglia non esiste più, è distrutta). Infatti di una tragedia famigliare si tratta e Michieletto vede tutta la vicenda con gli occhi delle vittime innocenti. Al centro della stanza, ideata come sempre con depurata eleganza da Paolo Fantin con una prospettiva spezzata, è la porta che dà alla camera dei bambini, camera che intravediamo quando la porta si apre per far passare l’istitutrice, qui Néris, o il padre Jason. In scena un divano bianco, una giostrina con carillon che si mette in moto nei momenti più drammatici – uno dei tanti momenti di una regia controllatissima ma piena di particolari rivelatori –, un tavolino basso su cui troneggia il trofeo del vello d’oro trafugato da Jason, qui un bucranio dorato. Il tutto immerso nel magico gioco luci di Alessandro Carletti.

Sull’immacolata parete di fondo nel secondo atto comparirà, scritta col carbone, la scritta «Maman vous aime», ultimo disperato messaggio di Medea verso i figli, ma nel terzo atto questa stessa scritta si sbriciolerà quando la donna prenderà la straziante decisione di sopprimere i figli e come la moglie di Goebbels li avvelena prima di metterli a letto, come vediamo su uno schermo su cui vengono proiettate le immagini di una telecamera di sorveglianza. Non c’è sangue in scena, solo il bianco, e il nero della polvere che esce dalla crepa e poi scende dall’alto in pioggia di morte. Gli unici colori sono negli abiti pastello delle damigelle di Dircé, disegnati dalla solita eccellente Clara Teti, e nell’outfit un po’ cafonal di Jason. Medea è scarmigliata e in nero come la Magnani, prima di infilarsi in un tailleur per festeggiare, a modo suo, il matrimonio di Jason e Dircé.

Il bellissimo spettacolo è stato salutato calorosamente dal pubblico con applausi intensi soprattutto per il maestro Michele Gamba (il cui nome è curiosamente assente dalla locandina distribuita agli spettatori!). Lo spettacolo del 24 gennaio è stato ripreso dalle telecamere e ne è prevista la trasmissione su medici.tv il giorno 27.

Médée

Luigi Cherubini, Médée

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 17 settembre 2011

★★★★☆

(video streaming)

Una Medea dei nostri giorni

La Médée fu composta da Luigi Cherubini nella forma di opéra-comique, ossia con i dialoghi recitati, e andò in scena con successo a Parigi il 13 marzo 1797 al Théâtre Feydeau ma fu presto dimenticata in Francia. Riscosse invece notevole successo a metà Ottocento tradotta sia in tedesco, con i recitativi musicati da Franz Lachner (1855), sia in italiano, con i recitativi musicati da Luigi Arditi (1865). Rappresentata la prima volta in Italia nel 1909 nella versione italiana di Carlo Zangarini, è solo nella seconda metà del Novecento che l’opera è tornata a riscuotere l’interesse del pubblico dopo la mitica interpretazione della Callas che la registrò più volte su disco – con Leonard Bernstein (1953), Tullio Serafin (1957) e Thomas Schippers (1961). La prima ripresa dell’originale francese con i dialoghi parlati si ebbe al Festival della Valle d’Itria di Martina Franca nel 1995.

Questa di Bruxelles è una ripresa della produzione del 2008, una delle prime regie liriche di Krzysztof Warlikowski, essendo il regista polacco soprattutto impegnato nel teatro di prosa. I dialoghi sono stati riscritti dal regista e da Christian Longchamp in un francese contemporaneo che contrasta non poco col registro linguistico delle arie, il cui testo è invece rimasto immutato. Warlikowski ricostruisce Medea come un patchwork postmoderno in cui i numeri musicali del XVIII secolo sono solo un elemento tra gli altri di un’opera quasi nuova: ci sono i video casalinghi degli anni ’50 e ’60 di matrimoni nella loro ingenua felicità, di famiglie sorridenti, di scolaretti gioiosi, il tutto accompagnato da canzonette dell’epoca. Il coro è la borghesia di quegli anni ’60 in abiti e acconciature fedelmente riprodotti da Małgorzata Szczęśniak. Médée e Jason sono rigorosamente contemporanei: lei, all’inizio come Amy Winehouse (mancata appena due mesi prima) con la capigliatura nera e cotonata, i tatuaggi, gli occhi segnati vistosamente dall’eyeliner; lui con lunghi dreadlocks e tatuaggi. Due figure del tutto diverse da tutte le altre e ancora con molte complicità fra loro.

Nella scenografia di Małgorzata Szczęśniak l’ambiente è minimalista: una sala rettangolare con pareti traslucide sul fondo, un rettangolo di sabbia in mezzo – non per i giochi dei bambini: sono prima Dircé e poi Médée che vi si rotolano dentro – una cassettiera a sinistra per Médée, con le sue parrucche (prima quella nera della Winehouse, poi quella bionda di Christina Aguilera, due icone pop del nostro tempo) e vari altri oggetti. E dove ripiegherà i pigiamini insanguinati dei figli… La recitazione è molto curata ed esaltata dalla ripresa cinematografica dello spettacolo registrato per lo streaming: nei primi piani tutti gli interpreti si rivelano eccellenti attori. Gli intensi e brevi testi recitati sono punteggiati da rumori inquietanti: tuoni lontani, gocciolii, crepitii.

Nadja Michael è Médée e fin dalla sua entrata in scena durante i preparativi per il matrimonio di Dircé e Jason focalizza l’attenzione visiva dello spettatore con la sua magnetica presenza scenica in un abito sexy in PVC nero e lucido  che contrasta con il bianco di tutti gli altri invitati. E quando apre la bocca per cantare ancora una volta colpisce per il colore e il volume della voce di soprano drammatico piegata a esprimere le mille sfaccettature di un ruolo di donna ancora innamorata che non vuole perdere il suo uomo e solo dopo l’umiliazione e l’ordine di esilio non trova altra soluzione che quella terrificante di uccidere i figli perché prole dell’uomo che la abbandona, secondo una logica che la tragedia greca ci ha fatto conoscere in tutta la sua inesorabile tragicità. Convincenti sono anche Kurt Streit, tenore dal timbro chiaro con cui delinea il carattere debole dell’ex-eroe Jason, e Hendrickje Van Kerckhove come l’infelice Dircé. Con Vincent Le Texier abbiamo un autorevole Créon mentre Christianne Stotijn (Néris) ha il suo momento di gloria nella bellissima aria del secondo atto «Malheureuse princesse! O femme infortunée!». Come prima ancella si scopre una quasi debuttante Gaëlle Arquez, già brava e affascinante. Christophe Rousset dirige Les Talens Lyriques e i Cori del teatro con piglio sicuro e senso del dramma in una partitura dai grandi contrasti dinamici resi dagli strumenti d’epoca con precisione e bellezza di colori. Da mozzare il fiato l’intenso preludio strumentale al terzo atto.

The Bassarids

Hans Werner Henze, The Bassarids

★★★★☆

Roma, Teatro dell’Opera, 27 novembre 2015

(video streaming)

«Uno sguardo sulla insondabilità ferina della psiche umana» (1)

Rappresentato in Italia una sola volta, alla Scala nel 1968 due anni dopo il debutto tedesco, arriva a inaugurare la stagione dell’opera di Roma The Bassarids, ossia la tragedia Le baccanti di Euripide riletta da Auden e Kallman e messa in musica da Hans Werner Henze.

Il titolo si riferisce all’appellativo con cui erano conosciute le baccanti della Lidia e della Tracia che portavano pellicce di volpe, in greco βασσάρα, durante i culti dionisiaci. È anche il titolo di una tragedia di Eschilo andata perduta e appartenente alla tetralogia “Licurgea” in cui si narrava del re Licurgo nemico di Dioniso squartato dai suoi stessi sudditi sul monte Pangeo. In Euripide, e nell’opera di Henze, il re è Penteo di Tebe e il monte il Citerone. Per un maggior tocco tragico – per un altro “turn of the screw” avrebbe detto Henry James – una delle baccanti colpevoli del fatto è la madre Agave, che nella frenesia dionisiaca crede di avere tra le mani come trofeo la testa di un leoncino e invece si tratta di quella del figlio. La grandiosa messa in scena di Mario Martone non ci risparmia il momento horror dopo il selvaggio baccanale, ma il regista sempra propendere per la razionalità di Penteo piuttosto che per la destabilizzante figura di Dioniso, coerentemente con i due librettisti. La scenografia di Sergio Tramonti e le luci di Pasquale Mari costruiscono un mondo dicotomico anche nei costumi di Ursula Patzak: uniformi moderne contro vesti antiche, una evidente contrapposizione tra gli statici cittadini di Tebe e le scatenate Menadi in abiti succinti o addirittura nude e con corna ritorte tra i capelli arruffati. Il Monte Citerone qui è un ipogeo e uno specchio a 45° ce ne mostra la dimensione infera e orgiastica.

Stefan Soltesz a capo dell’orchestra del teatro fornisce un’ottima prova mettendo in luce la straordinaria ricchezza di una strumentazione smisurata in un arco drammatico teso e continuo. Chiaramente definiti sono i colori orchestrali associati ai due personaggi principali, Penteo e Dioniso, con la vittoria finale di quest’ultimo evidenziata dai suoni barbari del suo trionfo. Eccellente Penteo è Russel Braun dal generoso strumento vocale che sa piegarsi ai momenti lirici come a quelli più drammatici. Ladislav Elgr è un Dioniso seducente dalla ipnotizzante presenza scenica e dalla sorprendente vocalità che riesce a superare abilmente la barriera sonora dell’orchestra mentre Marc S. Doss ed Erin Caves danno voce autorevole ai personaggi di Cadmo e di Tiresia. Di grande livello anche il terzetto di voci femminili, con una scatenata

Veronica Simeoni come Agave, Sara Herskowitz sensuale Autonoe e Sara Fulgoni sensibile Beroe. Impegnativo per molte ragioni il ruolo del coro, qui ottimamente diretto da Roberto Gabbiani.

(1) Stefano Ceccarelli sull’Ape Musicale l’indomani della prima.

Elena

foto © Federico Pitto

Euripide, Elena

regia di Davide Livermore

Genova, Teatro Ivo Chiesa, 4 ottobre 2020

Livermore firma un visionario spettacolo di arte totale 

Le guerre sono stupide, dice Euripide, o addirittura inutili quando mancano i motivi per farle. Come la guerra più famosa di tutte, quella di Troia: dieci anni di sanguinosi massacri per un “vuoto miraggio”. Elena non è mai stata posseduta da Paride e “non ha mai visto le mura di Troia”: la dea Era ha creato al suo posto un “fantasma dotato di respiro e fatto con un pezzo di cielo” in tutto simile alla donna più bella dell’antichità mentre la vera Elena ha vissuto nascosta da Ermes in Egitto, ospite del re Proteo.

Questa la tesi dell’Elena di Euripide, la tragicommedia rappresentata nel 412 a.C. e ora sul palcoscenico del Teatro Nazionale di Genova nella traduzione di Walter Lapini e con la regia di Davide Livermore, terza tappa dopo due teatri all’aperto, quelli di Siracusa e di Verona. Il regista d’opera che conosciamo si accosta al classico greco con un senso di teatro totalizzantee: anche senza scomodare Wagner, quello che vediamo è un sorprendente esempio di Gesamtkunstwerk in cui scenografia, video, musica, recitazione, canto, danza e sopraffina tecnologia, tutto è coniugato in perfetta sincronia con la colonna sonora di Andrea Chenna, una musica profonda che cita cripticamente il “Lacrimosa” del Requiem di Mozart e più chiaramente La valse di Ravel, ma soprattutto il trascinante Fandango di Boccherini.

La vicenda che aveva interessato Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss per la loro Elena egizia, è rivissuta da un gruppo di attori superlativi – Laura Marinoni (Elena), Sax Nicosia (il marito Menelao) e Giancarlo Judica Cordiglia (Teoclimeno, il figlio di Proteo invaghito di Elena), solo per citare i tre principali, ma eccellenti sono anche quelli che danno vita agli altri personaggi e al coro, tutti assieme formando un cast omogeneo e magnificamente rodato.

L’acqua che inonda la scena (il Nilo? il mare su cui fuggire? lo Stige che accoglie i morti nel finale?) è uno specchio che riflette gli evocativi video della D-Wok, fa galleggiare il relitto della nave di Menelao, la tomba di Proteo o un obelisco abbattuto, e inzuppa i sontuosi costumi di Gianluca Falaschi. Il disegno luci di Antonio Castro completa la realizzazione di uno spettacolo unico nel suo genere e ancora più raro e prezioso in tempi come questi in cui lo stare insieme e fare arte è crudelmente mortificato da questo stramaledetto virus.

 

 

 

The Bassarids

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Hans Werner Henze, The Bassarids

★★★★★

Berlino, Komische Oper, 13 ottobre 2019

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Quando gli dèi erano fra noi

Che meraviglia quest’opera! A 38 anni Hans Werner Henze comincia a scrivere The Bassarids subito dopo aver composto l’opera comica Der junge Lord e avendo alle spalle Boulevard Solitude ed Elegie für junge Liebende. The Bassarids viene commissionata dal Festival di Salisburgo quando il suo nome è già internazionalmente noto. L’opera costituisce perciò il punto d’incontro e di riflessione di alcune fondamentali caratteristiche della sua estetica: l’impegno politico e lo sforzo di salvaguardare lo spirito libertario, evitando la degenerazione dogmatica. E il tema dell’antagonismo tra il pensiero vitalistico, spregiudicato e corporeo di Dioniso e quello più legalitario e spirituale di Penteo lo tocca particolarmente. Nell’opera di Henze i due antagonisti, il dio dell’estasi e dell’ebrezza e il re raziocinante di Tebe, si affrontano a duello, ma entrambi periranno alla fine. Il problema su come l’uomo possa mantenere il giusto equilibrio tra istinto e ragione rimane irrisolto.

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Ecco come il compositore presenta la sua opera: «Le Baccanti di Euripide, rilette e presentate da due poeti moderni [W.H. Auden e Chester Kallman]. Il testo descrive il drammatico conflitto eros-repressione e la vittoria di Dioniso, dio vendicativo, sul suo avversario e persecutore, il giovane Penteo, monoteista re di Tebe. La musica per il dramma è stata composta nella forma di una sinfonia in quattro tempi. Il luogo dell’azione è la corte del palazzo reale di Tebe e il monte Citerone». Dell’originale tragedia i librettisti scelgono solo alcuni punti focali che si sviluppano nei quattro movimenti con i quali si articola l’atto unico.

Primo movimento (forma sonata). Dopo l’abdicazione del vecchio re Cadmo a favore di suo nipote Penteo, il coro acclama il nuovo sovrano di Tebe; una voce annuncia allora l’arrivo in Beozia di Dioniso e il coro si prepara ad andare sul Citerone a festeggiarlo. I protagonisti della tragedia, Penteo escluso, discutono sulla natura divina di Dioniso nato da Zeus e da Semele: Agave ed Autonoe la negano mentre Cadmo è perplesso e Tiresia è propenso ad ammetterla; il capitano della guardia, un bell’uomo attraente per le donne ma insensibile al loro fascino, legge un decreto di Penteo che proibisce il culto di Dioniso. Arriva allora Penteo che col suo mantello spegne la fiamma che brucia sulla tomba di Semele e ribadisce il suo ordine. Agave ed Autonoe approvano ma quando sentono la voce del dio, se ne vanno verso il monte Citerone.
Secondo movimento (Scherzo e trio). Cadmo, pieno di cautela verso il nuovo dio, è esterrefatto quando sente Penteo ordinare al capitano di arrestare quanti si trovano sul Citerone; il re confessa a Beroe che ha scelto un sistema di vita austero, senza vino e senza carne, e per giunta casto. Nella sala d’udienza del palazzo, il capitano arriva con i prigionieri del Citerone fra i quali figurano Agave, Autonoe, Tiresia ed uno Straniero. Penteo condanna al supplizio alcuni prigionieri, tenta di strappare Agave, sua madre, al suo delirio dionisiaco, poi la fa rinchiudere con Autonoe e ordina la distruzione della casa di Tiresia; benché Beroe l’abbia avvertito che lo Straniero è Dioniso, Penteo tratta rudemente quest’ultimo, che canta la vendetta di Dioniso a Nasso.
Terzo movimento (adagio e fuga). Esasperato, Penteo vuol mandare lo Straniero al supplizio quando si producono fenomeni straordinari: la terra trema, i muri crollano, si riaccende la tomba di Semele e i prigionieri evadono misteriosamente e fuggono verso il monte Citerone. Lo Straniero propone allora a Penteo di guidarlo verso il Citerone, ma prima il re chiede a Beroe lo specchio di sua madre. Lo Straniero-Dioniso convince Penteo a travestirsi da donna per andare a spiare le Menadi sul posto del loro culto. Affascinato, Penteo ubbidisce mentre Cadmo è disperato. Nella foresta del monte Citerone, le Bassaridi cantano la gloria di Dioniso. Tuttavia, una voce informa che un uomo è nascosto per spiarle e che le Menadi (fra le quali si trova Agave) devono inseguirlo; infatti, lo trovano, lo uccidono e lo smembrano.
Quarto movimento (passacaglia). Le Menadi si fanno avanti; Agave si dice fiera di aver ucciso un leoncino; Cadmo le chiede di guardare attentamente di chi è la testa portata da Agave; lei prende allora coscienza di aver ucciso suo figlio Penteo in un delirio dionisiaco. Arriva Dioniso, ordina che sia incendiata la reggia e condanna all’esilio la famiglia reale. Agave gli ricorda amaramente che anche lui scenderà un giorno nel Tartaro. Indi il dio chiama Semele sua madre per farla salire all’Olimpo; infine, ingiunge ai tebani di adorarlo ciecamente.

L’opera di Henze si inserisce in quel filone mitologico e neo-classico di cui l‘Œdipus Rex di Stravinskij (1928) è forse il risultato più conosciuto, ma che era continuato con le opere di Carl Orff Antigonæ (1949), Œdipus der Tyrann (1959) e Prometheus (1968, con il testo greco originale di Eschilo). Antigone era stato anche il titolo dell’opera di Arthur Honegger (1927) su testo di Cocteau, per non parlare dell’Œdipe di George Enescu (1936).

La prima assoluta dell’opera fu a Salisburgo nel 1966 diretta da Christoph von Dohnányi nella traduzione in tedesco di Maire Basse-Sporleder (Die Bassariden). La prima rappresentazione con il testo originale fu all’Opera di Santa Fe nel 1968. Ora alla Komische Oper di Berlino, eccezionalmente in inglese, viene messa in scena da Barrie Kosky con una semplice scenografia di Katrin Lea Tag formata da una scalinata, come quella della sua Carmen, che qui però non vuol richiamare i musical di Busby Berkeley quanto le gradinate della tragedia greca con quel suo colore di travertino cotto dal sole. Il palcoscenico continua in una passerella oltre la buca dell’orchestra dove suonano gli archi, l’arpa, il pianoforte e la celesta. I fiati occupano le parti laterali della scalinata luogo d’azione del coro e dei solisti. Ma l’esecuzione è tutt’altro che oratoriale: tutti si danno un gran da fare in scena dal punto di vista attoriale sotto le precise indicazioni di Kosky, assieme ai ballerini sulle coreografie del fidato Otto Pichler che sintetizza con mosse stilizzate il baccanale di prammatica.

Del tutto diversi anche fisicamente sono i due interpreti antagonisti: il tenore americano Sean Panikkar è lo straniero/Dioniso e assieme alla bellissima voce porta in scena il tocco esotico delle sua discendenza dallo Sri Lanka. Oltre a cantare benissimo, danza anche con la consumata facilità di un attore di Bollywood. Pallido e biondo il baritono Günther Papendell per una volta è pienamente soddisfacente nella parte del coscienzioso e illuminato ma soffocante re di Tebe. Il loro duello termina con un lungo bacio: a furia di combattersi si sono appassionati, il re per un momento dimentica il suo self-control, il dio vendicativo le sue mire di sterminio. Non è l’unico momento speciale della messa in scena di Kosky che riesce sempre a stupire con il suo teatro.

Di eccellente livello sono tutti gli altri cantanti, nessuno escluso: dall’indimenticabile Cadmus di Jens Larsen al nevrotico Tiresias di Ivan Turšić al compassato Capitano Tom Erik Lie. Perfette anche le tre interpreti femminili: Tanja Ariane Baumgarten (Agave), Vera-Lotte Böcker (Autonoe) e Margarita Nekrasova (Beroe).

Non bastano le lodi per il coro e per l’orchestra del teatro diretta da uno specialista della musica del Novecento qual è Vladimir Jurovskij. Sotto la sua bacchetta la meravigliosa e complessa partitura rifulge di luce intensissima. E il pubblico berlinese l’ha compreso tributando entusiastiche ovazioni agli artefici dello spettacolo.

Bestie di scena

foto © Masiar Pasquali

Bestie di scena

Ideato e diretto da Emma Dante

Teatro della Corte, Genova, 20 marzo 2019

La vita, messa a nudo

“Animali da palcoscenico” diciamo noi italiani. I francesi usano il termine più crudo “bêtes de scène”, bestie di scena, come il titolo del lavoro che Emma Dante ha presentato al Piccolo Teatro di Milano due anni fa e che ora, dopo innumerevoli repliche in Italia e nel mondo, arriva per il Teatro Nazionale di Genova.

Difficile da definire, di certo non è “teatro di parola” – i pochi suoni sono rumori o versi animali o le note struggenti di Only You dei Platters – ma è piuttosto una coreografia, un uso talora impietoso talaltra ironico dei corpi degli attori, corpi nudi che si mostrano al nostro sguardo. “Teatro voyeuristico” ha proposto qualcuno.

Comunque vero teatro.

Molto è stato scritto su questo spettacolo, ma forse le parole più intense le ha trovate Giorgio Vasta, palermitano come Emma Dante. Qui la sua recensione.

Medea

Luigi Cherubini, Medea

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 5 ottobre 2008

Una Medea verista apre la stagione torinese

Nella Medea di Euripide non compaiono divinità. L’azione segue il corso delle passioni della protagonista, una delle più grandi figure del teatro di tutti i tempi, la cui personalità domina la scena dal principio alla fine. Rappresentata alle Grandi Dionisie nel 431 a.C. la tragedia ottenne solo il terzo posto. Il pubblico della pur democratica Atene non poteva non rimanere sconvolto dalla ferocia del personaggio. Il tempo consacrerà la tragedia: Seneca e Corneille sono solo due dei tantissimi che ne hanno ripreso il mito nel tempo.

Compresa tra La clemenza di Tito (1791) e il Fidelio (1805) e a un anno solo da Il matrimonio segreto, il lavoro di Cherubini chiude definitivamente il XVIII secolo in musica e si proietta verso il futuro pur avendo salde radici nel dramma gluckiano. Tra i momenti migliori dell’opera ci sono gli intermezzi orchestrali in cui il compositore mostra la sua eccezionale maestria orchestrale.

Atto primo. La scena è in Corinto. Dircé, figlia di Créon re di Corinto, attende con ansia le sue nozze con Jason, impaurita dal pensiero di Médée, la precedente moglie che l’Argonauta intende ripudiare. Le ancelle la consolano. La fanciulla teme la vendetta della maga di Colchide e implora quindi il dio d’amore d’infonderle forza per affrontare il confronto con la feroce rivale. Entrano in scena Créon, Jason e gli Argonauti: il re rassicura l’eroe sulla sorte dei figli che ha avuto da Médée, e Jason lo ringrazia. Il re e sua figlia assistono allora al corteo degli Argonauti, che portano in trionfo il vello d’oro conquistato in Colchide. A quel nome, tuttavia, si accresce l’angoscia di Dircé, subito consolata dal promesso sposo e dal padre, che invoca gli dèi perché proteggano la giovane coppia. Il capo delle guardie però avverte in quel punto che una donna misteriosa si aggira per il palazzo: costei avanza in scena e si rivela per Médée, giunta a rivendicare i diritti dei figli di fronte allo sposo fedifrago e a maledire le sue nuove nozze. Le si oppone Créon, che minaccia la maga e si ritira. Rimasta sola con Jason, Médée cerca di toccare il cuore di lui col pensiero dei figli, ma invano. Ella allora maledice Jason e annuncia vendetta: entrambi maledicono il vello, che è costato così tanta infelicità.
Atto secondo. In un’ala del palazzo di Créon, Médée medita vendetta. Néris, la sua ancella, cerca invano di persuaderla a lasciare Corinto e a salvarsi dall’ira popolare. Entra Créon col suo seguito e intima a Médée di lasciare la città. Costei ottiene tuttavia, con le sue preghiere, di trattenersi ancora per un giorno. Néris cerca allora di consolare Médée, e le promette di starle sempre al fianco. Uscita dal suo abbattimento, la maga comincia a individuare l’obiettivo della sua vendetta: saranno i figli suoi e di Jason. È proprio l’eroe che allora si avanza e a lui Médée si finge addolorata per l’imminente separazione dalle sue creature. I due rievocano i giorni felici del loro amore. Partito Jason, Médée ordina all’ancella di recare a Dircé in dono di nozze il manto e la corona che ella stessa ebbe un giorno da Apollo. Il re e la corte entrano nel tempio di Giunone per un rito e i loro canti si fondono in grandioso contrasto alle violente minacce di Médée, che infine si allontana con in mano una torcia fiammeggiante.
Atto terzo. Su una montagna presso la reggia di Corinto, Médée invoca gli dèi perché le diano la forza di compiere la sua vendetta sui figli. Néris però le conduce i piccoli e la madre, vinta dalla compassione e dall’amore, lascia cadere il pugnale. No, la sua vendetta avrà altri per strumento, e Médée rivela a Néris che i doni nuziali inviati a Dircé erano avvelenati. Dircé conduce allora i bimbi nel tempio, ma improvvisamente si riaccende in Médée la smania di ucciderli. Dal tempio giungono voci sinistre: Créon e Dircé sono morti avvelenati dai doni della maga. Jason accorre per arrestare Médée, ma questa, raccolto il pugnale, fugge nel tempio e consuma il suo orrendo delitto anche contro i figli. È Néris a dare il tremendo annuncio a Jason: esce dal tempio e a stento riesce a comunicare la ferale notizia. Médée, circondata dalle Eumenidi esce dal tempio; ha ancora in mano la lama insanguinata e si presenta allo sposo giustificando il proprio gesto con la sua giusta vendetta. Le sue maledizioni si arrestano soltanto quando intorno a lei si levano le fiamme, che poi circondano il tempio e l’intera scena, nel terrore generale.

La  Médée (1797) di Luigi Cherubini, su libretto di François-Benoît Hoffmann, aveva i dialoghi parlati, ma a metà ‘800 Ferdinand Lachner li trasformò in recitativi e nel 1909, per il debutto alla Scala, Carlo Zangarini ne preparò una nuova versione italiana con la quale è comunemente conosciuta dopo che Maria Callas affrontò il personaggio in diverse riprese: nel 1953 con Gui a Firenze e Bernstein a Milano, con Serafin nel 1957 e Schippers nel 1961 (e di quest’ultima produzione rimangono alcune preziose immagini video). In Francia è ovviamente rappresentata in francese, come nell’originale allestimento di Krzysztof Warlikowski diretto da Christophe Rousset, con Nadja Michael come Amy Winehouse, visto a La Monnaie nel 2011 e ora in blu-ray BelAir.

Sulla versione in italiano (di centododici anni successiva all’originale!) è banalmente caduta la scelta del Teatro Regio di Torino per l’apertura della stagione 2008/2009. Il regista Hugo de Ana ambienta la storia negli anni ’20 del secolo scorso: Giàsone veste un completo grigio, Creonte un cappotto con collo di pelliccia (no, non di vello d’oro…), Glauce un abito alla moda di quell’epoca e Medea sembra Anna Magnani. Non c’è reggia di Creonte, non c’è tempio, bensì solo una nave arenata su una una spiaggia dove le ancelle hanno apprestato un picnic per la festa di matrimonio. Le lodi a Imene vanno per le lunghe e fintanto che Medea non entra in scena, l’azione e la tensione languono e il suo tremendo duetto con Giàsone attorno alla tavola sembra una banale lite famigliare.

Più convincente l’allestimento per gli altri due atti, come visto dagli occhi di Medea, nella sua solitudine di donna tradita che tutto ha sacrificato per il suo uomo, fino ad essere sposa ripudiata e madre lei stessa inorridita dal pensiero di quello che vuole commettere. L’Antonacci è una delle poche che possa affrontare oggi il personaggio. La sua è una Medea contenuta, poco viscerale, ogni gesto millimetrato, tutto è risolto in una vocalità espressiva e potente dove la parola è scavata sapientemente tanto da rendere digeribili i versi dello Zanardini. Decisamente fuori parte Giuseppe Filianoti, un Giàsone dalla voce troppo leggera e dalla scolorita presenza (quelle continue occhiate al direttore rovinano poi la scarsa verità scenica del personaggio). Vocalmente fiacco il Creonte del giovane Giovanni Battista Parodi e debole anche la Glauce di Cinzia Forte, voce gracile nel registro medio e troppo vibrata nell’acuto. Al personaggio di Neris Cherubini dedica un’aria, forse la più bella dell’opera, «Solo un pianto con te versare» («Ah, nos peines seront communes» nell’originale francese) introdotta da un magnifico lungo assolo del fagotto. Qui Sara Mingardo dà insolito spessore alla parte della fedele ancella.

Pidò dirige con qualche taglio alla partitura mettendone in luce l’intensa drammaticità. Uno spettacolo un po’ modesto per un’inaugurazione di stagione di un teatro lirico di livello nazionale qual è quello di Torino.

  • Médée, Rousset/Warlikowski, Bruxelles, 17 settembre 2011
  • Médée, Gamba/Michieletto, Milano, 23 gennaio 2024