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Alessandro Melani, L’empio punito
★★★★☆
Pisa, Teatro Verdi, 12 ottobre 2019
Don Giovanni #1
Ci vuole un bel coraggio a inaugurare la stagione lirica di un teatro italiano con un’opera barocca. Peggio, con un’opera sconosciuta, caduta nell’oblio da più di tre secoli. Peggio ancora, metterla in scena in abiti moderni e, come se non bastasse, con un controtenore come interprete principale!
Onore al merito dunque di Stefano Vizioli, direttore artistico del Teatro di Pisa, al regista Jacopo Spirei e al concertatore Carlo Ipata di aver accettato una sfida che più blasonati teatri italiani non avrebbero mai avuto il coraggio di affrontare. L’interesse principale di L’empio punito risiede nel fatto che, 118 anni prima di Gazzaniga e di Mozart (1), veniva messa in musica la vicenda del Burlador de Sevilla y convidado de pedra di Tirso de Molina (1579-1648).
Sì, parliamo proprio della storia di Don Giovanni, che venne intonata per la prima volta nel 1669 dal compositore Alessandro Melani su testo di Filippo Acciaiuoli (soggetto) e Giovanni Filippo Apolloni (versi). Il debutto il 17 febbraio avvenne al teatro di Palazzo Colonna davanti alla Regina di Svezia e a gran parte della corte del papa Clemente IX («26 cardinali oltre una quantità di principi») con modesto successo, lo stesso delle repliche di Bologna e Firenze, prima che l’opera cadesse nell’oblio. Il lavoro venne ripreso solo agli inizi del nostro secolo a Lipsia e a Montpellier, qui in forma di concerto. Alcuni brani vennero poi eseguiti al Teatro Verdi di Pisa nel 2015 dove ora L’empio punito viene messo in scena a 350 anni dal debutto (2).

Nel libretto ritroviamo la nota vicenda immersa in una farraginosa storia che mescola naufragi, amori, infedeltà, travestimenti, veleni, presunti rapimenti, viaggi onirici e reali nell’Ade e minacce di guerra (3). I nomi dei personaggi sono del tutto diversi e saranno Bertati e Da Ponte (i librettisti di Gazzaniga e Mozart rispettivamente) a ripristinare quelli per noi imprescindibili di Don Giovanni, Donna Anna e Don Ottavio dell’originale spagnolo.
Alessandro Melani era nato a Pistoia nel 1639 in una famiglia che avrebbe contato come musicisti i fratelli Jacopo (anche lui compositore) e Atto (cantante castrato). Inizialmente organista, poi maestro di cappella, fu autore di numerose opere comiche rappresentate nei teatri fiorentini. Nel periodo del debutto de L’empio punito, a Venezia Francesco Cavalli scriveva i suoi ultimi capolavori mentre a Parigi i teatri erano dominati da Jean-Baptiste Lully e Marc-Antoine Charpentier.

Se il libretto di Apolloni lascia qualche traccia su quello di Da Ponte (4), ben diverso è il caso della musica: una sequenza di 51 arie, 11 duetti, tre terzetti e alcuni cori, collegati con un arioso a un recitativo espressivo che si rifà direttamente al “recitar cantando”. I numeri musicali, brevi o brevissimi, non sempre permettono una chiara definizione psicologica dei numerosi personaggi ma danno un ritmo teatrale molto efficace che rimanda alla Commedia dell’Arte italiana. Quella del Melani è dunque un’opera seicentesca al 100%, in cui le tirate moraleggianti e barocche si alternano a neanche troppo velate allusioni sessuali nelle bocche dei personaggi comici.
Con grande coraggio qui a Pisa i numeri musicali vengono restituiti nella loro interezza, solo alcuni recitativi vengono tralasciati, portando la serata a sfiorare le quattro ore – «un tantino longhetta» scrissero le cronache del tempo e anche «Sua Maestà […] parve che s’annoiasse alquanto della lunghezza dell’opera». Forse sarebbe stato più opportuno anticiparne l’inizio, a tratti si sente la fatica per i cantanti e per gli spettatori – questi ultimi a ranghi sfoltiti dopo l’intervallo – che comunque decretano allo spettacolo un caloroso saluto che premia la sempre attenta e partecipe direzione del maestro Carlo Ipata che a capo dell’Orchestra Auser Musici dipana una musica che non poco deve a quella del Cavalli, ma che anticipa anche quella del teatro che verrà. È un esempio del primo caso l’aria «È solo a chi spera | chimera | il gioir» con quell’accompagnamento trascinato simile a quello di «Delizie, contenti» del Giasone di vent’anni prima. «Se d’Amor la cruda sfinge» nel second’atto sembra invece anticipare un certo Vivaldi mentre «Consigliatemi pensieri» non può non fare pensare ai «Pensieri» dell’Agrippina di Händel.

Tutti questi esempi sono di Acrimante, è su lui infatti che si concentrano le pagine più interessanti, che portano il personaggio a una drammatica evoluzione da irrefrenabile burlador che anche in catene non smette di irridere il destino («A duello eterno | doppo la morte mia sfido l’inferno») fino al passo estremo quando lancia le ultime parole di sfida: «s’eterno penare | ha il Gel per me prefisso | vanne corpo alle belve, l’alma all’abbisso».
Per vestire i panni di un carattere così forte occorreva un interprete come Raffaele Pe che si cala alla perfezione nello sfrontato personaggio ed è efficace sia scenicamente sia vocalmente, con uno strumento che conosce tutte le sfumature espressive e raggiunge un volume sonoro ragguardevole per un controtenore. La sua è una performance da mattatore che non si risparmia mai. Non sono da meno le sue due vittime femminili: Atamira è Raffaella Milanesi di bel timbro e gran temperamento, Ipomene è la brava Roberta Invernizzi, personaggio meno drammaticamente definito che il costumista Mauro Tinti trasforma in una Biancaneve disneyana. Il principe azzurro, qui dorato, è ovviamente Cloridoro, Federico Fiorio, soave controtenore selezionato attraverso il bando “Accademia barocca” da cui provengono anche Lorenzo Barbieri (Atrace), Benedetta Gaggioli (Proserpina, Auretta), Piersilvio de Santis (Niceste, Demonio, Capitano della nave), Shaked Evron (Corimbo) e Carlos Negrin Lopez (Tidemo). I servi comici qui hanno le voci di Giorgio Celenza, un Bibi con bombetta e valigia, di buona vocalità ma che dovrebbe maggiormente sottolineare la personalità del personaggio, e Alberto Allegrezza, tenore en travesti per la nutrice Delfa (come è di prammatica nell’opera del Seicento) e qui la comicità non è mancata, con toni arguti ma senza mai scadere nella volgarità. Sia i quasi debuttanti sia i più navigati interpreti hanno fatto un ottimo gioco di squadra nella riproposizione di questa rara opera.

Altrettanto merito alla felice riuscita dello spettacolo si deve alla gustosa regia di Jacopo Spirei che ha saputo trovare il giusto posto ai tanti personaggi e a trarre fuori da ognuno di loro il tono efficace, complici anche le trovate sceniche di Mauro Tinti declinate nei colori primari e in elementi sovradimensionati di rara arguzia. Eccellente il disegno luci di Fiammetta Baldisseri nel definire i vari ambienti di questa vicenda che apre le porte di un inferno di cartoon.

(1) Come si sa il Don Giovanni del compositore italiano precedette di alcuni mesi quello del salisburghese: Venezia, Teatro san Moisè il 5 febbraio 1787 il primo; Praga, l’odierno Stavovské Divadlo il 29 ottobre 1787 il secondo.
(2) Ma non basta: pochi giorni fa ne è stata allestita un’altra edizione anche a Roma nel teatrino di Villa Torlonia mentre contemporaneamente al Costanzi si dava il Don Giovanni per antonomasia, quello di Mozart. Nella versione romana (concertatore Alessandro Quarta, regista Cesare Scarton) il protagonista Acrimante era un baritono.
(3) Atto I. Prima di una battuta di caccia, tra gli stallieri che lamentano le loro fatiche, Ipomene cerca il suo amato Cloridoro, cugino del re, con il quale riesce ad avere un breve e appassionato scambio. Frattanto, in un bosco accanto al mare, vaga Atamira, figlia del re di Corinto, che, piangendo la fuga del suo amato Acrimante, si ritrova ad assistere a un naufragio e a mettere in salvo proprio colui che l’ha tradita e il di lui servo, Bibi. La donna non avrà ricompensa alcuna dall’ingrato, il quale si ritroverà, in men che non si dica, a corteggiare uno stuolo di pastorelle. Esausta dal lungo peregrinare e trafitta dal dolore, Atamira si addormenta e verrà risvegliata dall’arrivo di Atrace, sovrano di Macedonia, il quale, pur avendo cantato con gioia la propria libertà sino a poco prima, si ritrova d’improvviso il cuore piagato dalla bellezza della fanciulla. Questa accetta l’invito del re a corte, pur tacendo la propria reale identità e le proprie origini. A corte, intanto, Acrimante e Bibi rimangono folgorati rispettivamente da Ipomene e da Delfa, sua nutrice. Mentre Atrace narra le sue pene d’amore a Cloridoro, Tidemo li informa che Acrimante, cugino del re, oppresso da strane vicende, lo attende a corte. Sollecitato dal padrone, Bibi estorce alla sua amata informazioni riguardanti Ipomene e riesce a fare in modo che i due si incontrino, proprio mentre lui, con gli abiti di Acrimante, proverà a salire sul balcone di Delfa.
Atto II. Un buffo malinteso con Niceste, servo di Cloridoro, mette a repentaglio l’incontro dei due servi innamorati. Bibi viene scambiato per Acrimante dal re e da Cloridoro, che hanno assistito alla scena e pensano dunque che l’uomo voglia sedurre Ipomene, o forse Atamira, ospite nelle sue stanze: in entrambi i casi si tratterebbe di un affronto troppo grave, che merita di essere vendicato. L’incontro tra Acrimante e Ipomene, in attesa di Cloridoro, viene interrotto da Bibi, che annuncia l’ordine del re di vedere subito Acrimante: la condanna a morte è la pena che Atrace stabilisce per colui che lo ha vilmente tradito e oltraggiato nella sua corte. Acrimante chiede a questo punto a Cloridoro di avvisare la fanciulla che lo attende nelle sue stanze, spiegandole che egli non potrà presentarsi per quanto accaduto. Incontenibile sarà la rabbia di Cloridoro nel constatare che si tratta proprio della sua Ipomene. Atamira, nonostante tutto ancora innamorata di Acrimante, chiede di farsi giustizia da sola per gli innumerevoli torti subiti: propone così al re di avvelenarlo e straziare poi il suo corpo. All’amato farà bere in realtà un potente filtro che simula la morte, salvandogli così la vita per la seconda volta. Delfa e Bibi rivelano intanto a Cloridoro che Ipomene gli è sempre stata fedele. Accertatosi dal suo fido Corimbo della morte di Acrimante, Atrace incalza Atamira ad accettare di unirsi a lui in matrimonio, ma la donna, ancora fedele al suo traditore, resiste con grande fierezza. Delfa prova a sedurre Bibi ma l’uomo, che sta vegliando il finto defunto, pensa che quella voce provenga dal fantasma di Acrimante. Mentre i due servi si allontanano, sopraggiunge il Demonio: a paragone della vita terrestre, mostrerà ad Acrimante i diletti del suo Regno, dove potrà corteggiare la stessa Proserpina.
Atto III. Alle preghiere di Atamira, Acrimante si risveglia, dinnanzi a un Bibi incredulo. Ancora una volta però il bel seduttore mostrerà la propria ingratitudine verso la sua insistente salvatrice. II servo sta al gioco del padrone e gli rivela a quel punto che Ipomene deve incontrare Cloridoro: egli potrà quindi introdursi, sotto mentite spoglie, nelle sue stanze. Atrace intanto vuole visitare Atamira per conquistare definitivamente il suo cuore, ma le urla disperate di Ipomene, sorpresa nella notte da uno sconosciuto, lo arrestano. Tidemo, tutore della fanciulla, accorre per vendicarne l’onore, ma Acrimante, che svela apertamente la propria identità, lo sfida a duello e lo uccide. Trovato l’indomani il cadavere di Tidemo, Atrace teme di esserne il reale assassino, avendo sparato un colpo un vuoto per mettere in fuga il malfattore; lancia comunque l’allarme, affinché tutti si mettano sulle tracce di colui che ha approfittato di Ipomene. Nel frattempo Telefo, reca al sovrano un messaggio del re di Corinto: per ripagargli il torto subito, tenendo prigioniera nel suo regno sua figlia Atamira, dovrà prenderla in sposa o l’esercito corinto gli muoverà guerra. Atrace vuole costringere la donna a sposarlo, pena la morte, ma Atamira rifiuta, sentendosi ancora legata ad Acrimante. A un nuovo fugace incontro tra i due servi, segue un siparietto tra Delfa e Niceste, che vorrebbe maggiori dettagli sulla morte di Tidemo. Intanto Acrimante, trovatosi con Bibi di fronte alla statua del defunto Tidemo, deride il morto e lo apostrofa con battute irriverenti: con gesto estremo lo invita a cena e la statua china il capo per dare il proprio assenso. Terrorizzato Bibi assiste al banchetto che sei statue allestiscono in giardino. Ma Acrimante ha già consegnato la propria anima a Plutone: il banchetto scompare, la statua vola in cielo e una voragine si apre ai suoi piedi e lo risucchia. Caronte lo attende, un gelo si impossessa di lui e comprende che, come solo è stato nel piacere in vita, solo sarà nelle pene dell’Inferno. Bibi narra la fine del suo padrone ad Atamira, che accetta, in fondo liberata, la nuova vita con Atrace, ormai scagionato dal sospetto d’omicidio; Cloridoro e Ipomene potranno finalmente convogliare a nozze e così Bibi con Delfa. L’opera si conclude con un coro moraleggiante sulla giusta punizione divina che spetta a chi pecca di empietà.
(4) Non pochi sono i versi simili nelle due opere. Anche L’empio inizia con un lamento sulla fatica del lavoro: «Gran tormento che mi par | lavorar la notte e ‘l dì», ma qui sono gli stallieri di Cloridoro. Mentre è di Bibi/Leporello «se non erra la vista | ecco la robba da scriver nella lista» alla vista delle pastorelle probabili vittime del padrone. Nel terzo atto «Chi a vivande celesti un dì s’avvezza | ogni cibo terreno odia e disprezza» risponde Tidemo/Commendatore all’invito a cena, mentre Bibi/Leporello così racconta la morte del padrone ad Atamira/Donna Elvira: «al suolo istesso | si mosse l’appetito | aprì la bocca, e t’inghiottì il marito». Fino alla morale finale «Così punisce il Ciel, chi il Cielo offende».

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