Giovanni Filippo Apolloni

La Dori


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Antonio Cesti, La Dori

★★★☆☆

Innsbruck, Tiroler Landestheater, 26 agosto 2019

(registrazione video)

Tragicommedia degli equivoci e dei travestimenti

A 350 anni dalla morte del suo autore, ritorna ad Innsbruck, dove era stata creata nel 1657 al teatro di corte di Ferdinando Carlo Arciduca d’Austria, La Dori o vero La schiava fedele di Antonio Cesti. Il compositore aretino operò per cinque anni nella capitale del Tirolo dopo essere entrato nell’ordine francescano ed essere stato sotto la protezione dei Medici come cantante. E fu a Firenze che conobbe Giovanni Filippo Apolloni e Giacinto Andrea Cicognini, tra i maggiori librettisti del tempo, che gli avrebbero fornito vari testi da mettere in musica. Nel 1649 fu Egeo nel Giasone di Cavalli al San Cassiano di Venezia e due anni dopo debuttò come operista con Alessandro vincitor di sé stesso, sempre a Venezia, cui seguì subito dopo Cesare amante. Dopo i successi veneziani, L’Argia è il lavoro che lo fa conoscere a Innsbruck, prima dell’Orontea e de La Dori. Gli ultimi anni di vita il Cesti li passa presso la corte di Leopoldo d’Asburgo a Vienna dove presenta Il pomo d’oro nel 1668, un anno prima di morire, sembra, avvelenato.

Il libretto dell’Apolloni contiene un lunghissimo antefatto che dovrebbe chiarire una vicenda complessa anche per gli standard del tempo. Ne fa comunque un riassunto Alì/Dori nella scena ottava del primo atto: «Arsi in Egitto del Prence Oronte: egli di me s’accese, m’adorò, l’adorai; regio decreto lo fa sposo d’ Arsinoe, ei geme, io piango, mi dà la fede e parte, semiviva rimango. A notte oscura, con la scorta d’Erasto ch’Oronte mi lasciò, getto la gonna, da guerriero mi vesto, Alì m’appello. Mi dileguo da Menfi e quasi a volo all’Egitto m’ involo sovra alato vascello, spiego all’aura le vele; ecco un corsaro mi cinge il cuor di duolo, il piè d’acciaro. Fuggo per l’ onde a nuoto. Empia masnada mi fa prigione e in Nicea mi vende. Per suo schiavo pietosa Arsinoe mi prende, quivi son per sospetto qual vittima innocente condennata à morir, lei no ‘l consente. M’offre la libertà, mi guida in Persia, mi confida il suo cor candido, e bello. Vede Oronte, l’adora, anzi vien meno; eccoti nel mio seno d’amicizia e d’amor fiero duello. Oronte anch’io riveggio, che m’offre la fede, se ben morta mi crede, e che far deggio. Son schiava, amo l’amica, Oronte adoro, Tolomeo mi vuol morta, e pur non moro! Or pensa alla mia vita, e vedi come, speranza, gelosia, sdegno, e amore. Amicizia, catene, odij e martelli son del misero core d’amante prencipessa empi flagelli».

Nel suo racconto manca la parte in cui Tolomeo, figlio del re egiziano e fratello di Dori, è andato a cercarla a Babilonia dove si innamora di Arsinoe. Per starle vicino, si traveste da donna, facendosi chiamare Celinda e diventandone la nuova serva. Dopo che Dori e Tolomeo hanno lasciato l’Egitto, il re Termodonte d’Egitto ordina al tutore di Dori, Arsete, di andare a cercarli. Con questo anche Arsete finisce a Babilonia ed è qui che inizia l’opera.

Atto I. Dori, travestita da schiavo, è combattuta tra la sua lealtà ad Arsinoe e il suo amore per Oronte e decide di gettaersi nell’Eufrate. Il suo tutore Arsete lferma in tempo. La nutrice di Oronte, Dirce, corteggia senza successo Golo, il giullare del re. Oronte vuole che Dirce racconti ad Arsinoe del suo amore per la scomparsa Dori. Golo va da Artaserse e gli dice che Oronte non può sposare Arsinoe perché ama Dori. Dori racconta ad Arsete della sua fuga dall’Egitto, dei pirati e del suo arrivo a Babilonia, dove ha assistito alla fedeltà di Oronte e alla disperazione di Arsinoe. Dirce dice ad Arsinoe che Oronte non è disposto a sposarla. Arsinoe chiede a Dirce che lei farebbe qualsiasi cosa se solo lui la sposasse. Il principe Tolomeo, travestito da Celinda, simpatizza con Arsinoe per il suo amore infelice. Arsinoe è curiosa di sapere se Celinda ha un amante: Celinda lo conferma e quasi rivela di amare Arsinoe. L’eunuco Bagoa, che sorveglia il serraglio, rimprovera Celinda di stare nel giardino ma ne viene schiaffeggiato. Con un ballo di eunuchi termina l’atto.
Atto II. Il capitano di Oronte, Erasto, si lamenta che il serraglio abbia rinchiuso Celinda subito dopo essersi innamorato di lei. Improvvisamente appare Arsete, dicendo a Erasto, che conosce dall’Egitto, che era venuto a Babilonia in cerca di Dori. Alì promette alla sua amata Arsinoe che farà di tutto perché il matrimonio con Oronte possa avvenire lo stesso giorno. Rimasta sola, Dori si convince di non poter tradire Arsinoe solo per realizzare il proprio amore. Alì dà un anello a Golo perché la lasci riposare un poco. Nel sonno parla e Oronte crede di sentire la voce di Dori, ma Alì si presenta come un egiziano e afferma di essere stato il servitore di Dori. Artaserse appare e minaccia Oronte che perderà il suo regno se non sposerà Arsinoe. Alì fa sapere a Oronte che la morta Dori avrebbe benedetto il collegamento. Oronte sembra convinto ma piange disperatamente per Dori. Erasto supplica Celinda per il suo amore e Arsete osserva la scena e riconosce Tolomeo come Celinda. Alì cerca di nuovo di convincere Oronte a sposare Arsinoe e liberarla dal suo dolore. Oronte si arrende per scrivere una lettera d’amore ad Arsinoe, ma a causa di una mano ferita, detta la lettera ad Alì. Mentre Alì restituisce la penna e la lettera, Oronte riconosce la calligrafia di Dori ed è perplesso. Comanda ad Alì di dire ad Arsinoe che non è innamorato di lei. Dopo un’aria di lamento si addormenta. Nel suo sogno il fantasma della madre, Parisatide, appare e predice che un’ambita donna di Nicea sarà sua moglie e gli dice che deve rimanere fedele a suo padre e a Dori, ma questo sembra un requisito impossibile: come dovrebbe rimanere fedele a suo padre e sposare la principessa di Nicea se ha bisogno di rimanere fedele alla principessa egiziana Dori e alla sua promessa? Alì dice ad Arsinoe che Oronte lo ha cacciato via dicendo che nel suo cuore non c’è posto per Arsinoe. In preda alla disperazione, Arsinoe sviene. Mentre Alì si china su di lei per aiutarla, Oronte entra e sospetta che siano amanti. Alza la spada contro la presunta ragazza di Nicea. Celinda appare e la difende. Si rivela come Tolomeo. Nella confusione generale l’artto termina con un ballo di Mori.
Atto III. Artaserse si consulta con Erasto: Arsinoe è in prigione, Alì e Tolomeo dovrebbero essere giustiziati, ma Erasto si rifiuta di eseguire l’ordine di Oronte. È lodato per questa prudenza da Artaserse. Dirce vuole vendicarsi di Golo dopo che ha rifiutato il suo amore. Vuole dargli una pozione per dormire e raderlo tutto, ma all’improvviso scopre Alì che vuole avvelenarsi. Dirce cerca di impedirlo e scambia le pozioni. Arsete scopre Alì che gli dice che Artaserse eseguirà il matrimonio tra Oronte e Arsinoe quello stesso giorno. Chiede ad Arsete di consegnare una lettera a Oronte al momento della loro cerimonia di matrimonio, in modo che Arsete torni da lei e possano fuggire insieme (in realtà, Dori vuole uccidersi non appena Arsete la lascia). Bagoa annuncia a Tolomeo che Arsinoe è innamorata di lui. In prigione Arsinoe si lamenta che il desiderio di suo padre di sposarla l’ha portata ad essere schiava di Oronte. Oronte non le crede e la condanna a morte. Improvvisamente, Artaserse va da Arsinoe e le dice che sposerà Oronte lo stesso giorno. Oronte chiede a Erasto perché non ha ucciso Arsinoe. Artaserse attesta la sua innocenza davanti ad Oronte e, ancora una volta, chiede il matrimonio tra Oronte e Arsinoe e finalmente Oronte cede. Appare Arsinoe e cade in ginocchio davanti a Oronte. Mentre lui la aiuta ad alzarsi e le propone il suo amore, Areste consegna a Oronte la lettera di Dori. In essa scrive della sua disperazione e afferma di essersi uccisa ora che Oronte ha sposato Arsinoe. Oronte è in una profonda disperazione. Appare Golo e dice che lo schiavo Alì è morto pacificamente e che ha scoperto che Alì era in realtà una donna. Ha trovato una lettera sul suo petto. Arsete finalmente racconta la verità su Dori, come l’ha rapita a Nicea e l’ha cresciuta con sua moglie. È la principessa che Oronte avrebbe dovuto sposare secondo il contratto degli antichi re di Nicea e Persia. Oronte vuole andarsene disperato per la morte di Dori, ma incontra Dirce che dice di aver cambiato le pozioni in modo che Alì prendesse solo il sonnfero invece del veleno. Dori si rivela donna, Artaserse annuncia un doppio matrimonio: Dori e Arsinoe sposano l’erede persiano al trono Oronte e il principe egiziano Tolomeo.

Tutto questo è trattato da Cesti in modo piuttosto elegiaco, i numeri musicali sono quasi sempre lamenti amorosi, il dramma è assente ed è sostituito dal comico della vecchia Dirce, del servo Golo e dell’eunuco Bagoa. I due travestimenti – di Dori come lo schiavo Alì, di Tolomeo come la serva Celinda – non hanno mai nulla di grottesco che possa essere sfruttato e virato in comicità.

Il lavoro ebbe grande successo: furono stampati ben 27 libretti tra il 1661 e il 1689, con versioni diverse, tagli e aggiunte, presenza o assenza di un prologo. È indicativo il fatto che nel tempo furono i recitativi a essere ridotti e le arie aumentate per creare delle scene con aria: La Dori si adattava ai gusti che cambiavano nell’opera.

L’alternanza di ariosi e arie è realizzata magistralmente da Ottavio Dantone alla testa della sua Accademia Bizantina in questa produzione delle Innsbrucker Festwochen für Alte Musik. Mancando una vera drammaturgia musicale, il direttore si concentra sui momenti più lirici che qui non mancano come in «Speranze fermate» di Oronte (II, 11) che ricorda l’aria di Giasone «Delizie, contenti» del concorrente Cavalli, e molto lavoro è fatto per evidenziare i contrasti e l’articolazione del fraseggio. Le oltre cinque ore originali vengono ampiamente ridotte eliminando il prologo, riducendo i recitativi e dimezzando molte arie.

Alla prima storica il Cesti stesso cantò nella parte di Arsete e i ruoli femminili furono interpretati da castrati. Qui al contrario Tolomeo/Celinda è un soprano. Ovviamente la vecchia nutrice è un tenore come di prammatica nel teatro in musica di questo periodo.

Efficace ma senza punte di eccellenza il folto cast impiegato: il mezzosoprano Francesca Ascioti (Dori), il controtenore Rupert Enticknap (Oronte), il basso Federico Sacchi (Artaserse), il soprano Francesca Lombardi Mazzulli (Arsinoe), il soprano Emőke Baráth (Tolomeo/Celinda), il tenore Bradley Smith (Arsete), il basso-baritono Pietro di Bianco (Erasto), il tenore Alberto Allegrezza (Dirce), il basso Rocco Cavalluzzi (Golo) e il controtenore Konstantin Derri (Bagoa).

Le scene di Emanuele Sinisi e i costumi di Anna Maria Heinrich completano coerentemente la visione registica di Stefano Vizioli che con pochi tocchi – il filo dei panni stesi, un teschio, i saltimbanchi e i lazzi della commedia dell’arte – allude ironicamente ad archetipi teatrali di altri tempi.

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Francesca Ascioti, Francesca Lombardi Mazzulli

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L’empio punito

Alessandro Melani, L’empio punito

★★★☆☆

Roma, Teatro di Villa Torlonia, 2 ottobre 2019

(registrazione video)

Il mondo frammentato del primo Don Giovanni in musica

Don Giovanni compie quattrocento anni. Nel 1625 appare sulle scene di Napoli, allora sotto la dominazione spagnola, El burlador de Sevilla y convidado de piedra dramma che Tirso de Molina aveva scritto nel 1619. «Nel Burlador i tratti tipici del teatro spagnolo del tempo (assenza di unità di tempo, luogo e azione, commistione dei generi, carattere romanzesco e fantastico della vicenda) sono rappresentati, per così dire, alla perfezione. Nell’archetipo tirsiano, del resto, sono presenti più o meno tutti gli elementi che ritroveremo un secolo e mezzo dopo nel più celebre libretto di tutti i tempi, quel capolavoro assoluto della letteratura europea che è il Don Giovanni di Lorenzo da Ponte messo in musica da Mozart: Il servo Catalinón, tendenzialmente pavido e sempre affamato, che critica e al tempo stesso ammira la vita del padrone; le dame e le ragazze del popolo (due per ciascuna categoria) sedotte da Don Juan; l’assassinio del padre di una delle due giovani nobili che Don Juan ha posseduto con l’inganno; l’apparizione della sua statua, l’invito a cena, la tragica fine di Don Juan. E naturalmente c’è lui, Don Juan, spinto da una insaziabile sete di possedere donne di qualsiasi condizione, in una sorta di infinita coazione a ripetere nella quale eros e puro e semplice desiderio di sopraffazione sembrano eternamente convivere». (Danilo Prefumo)

Il primo a mettere in musica la vicenda del Burlador è Alessandro Melani e la creazione fu il momento più alto della sua carriera di compositore. Il dramma di Tirso de Molina era stato tradotto in italiano prima da Giacinto Andrea Cicognini, il maggior commediografo del tempo, poi da Filippo Acciaioli, anche lui specialista del teatro spagnolo, e infine versificato da Giovanni Filippo Apolloni. Il libretto originale non ha l’indicazione degli autori, nel frontespizio si legge infatti: “L’empio punito | dramma musicale del signor N.N. | fatta [sic] rappresentare dal medesimo in Roma l’anno 1669” e la vicenda narrata non ha la prevedibile ambientazione – nel dramma di Tirso de Molina passiamo da Napoli alla Spagna della contemporaneità dell’autore – essendo la storia trasportata in una cornice neoclassica alla corte macedone di un re di fantasia, Atrace. Rispetto al testo tirsiano l’Acciaioli si prende molte libertà aggiungendo scene, come la “morte e risurrezione” del protagonista, e personaggi, come la matura Delfa, dai forti appetiti sessuali e impegnata in schermaglie amorose col servo Bibi. Meno libertà si prenderà Da Ponte. (1)

Per 350 anni L’empio punito è rimasto pressoché sconosciuto e mai più rappresentato. Poi a distanza di pochi giorni viene messo in scena in due diverse produzioni, una a Roma e l’altra a Pisa

L’occasione per riproporre il titolo del Melani è del Reate Festival e la sede è l’ottocentesco Teatro di Villa Torlonia il cui palcoscenico ospita le scene di Michele della Cioppa e gli eleganti costumi disegnati da Anna Biagiotti, capo servizio sartoria dell’Opera di Roma. Cesare Scarton si occupa della regia. L’impianto scenografico comprende pedane sbilenche che formano il mondo frammentato di una amoralità che spezza le regole e manda in pezzi «l’immagine che rifletteva un mondo dotato di propria apparente coerenza, logica ed armonia», dice il regista. Nonostante lo scorrere di quinte informi e di alcune pedane semoventi la scena rimane monotona e con un gioco di luci quasi fisse. L’ambiente moderno scelto rende più vivi i personaggi ed ecco quindi Bibi, il servo che anela a copiare il padrone nelle avventure amorose, qui il disinibito Giacomo Nanni che non esita a fare una specie di spogliarello nel finale per conquistare definitivamente la matura Delfa, il tenore en travesti Alessio Tosi dalla simpatica presenza. Il personaggio eponimo qui è affidato a un baritono, il vocalmente autorevole ma forse troppo misurato Mauro Borgioni. Delle sue vittime femminili ricordiamo almeno la bella voce dell’Ipomene di Michela Guarrera. Il cast non si rivela comunque tra i più memorabili.

Alessandro Quarta dà vivacità a una partitura che strumentalmente non sembra avere molto da offrire opera consistenti tagli. Sia sulla scena che nella buca orchestrale non c’è una grande ricerca di colori e sfumature e il livello sonoro rimane costantemente sul forte, o per lo meno così sembra dalla registrazione audio che non corregge la cattiva acustica del teatro.

1) I personaggi principali de L’empio punito (A) hanno le seguenti vaghe corrispondenze con il Burlador di Tirso de Molina (B) e il Don Giovanni di Lorenzo da Ponte (C):
      A                            B                                    C
Acrimante         Don Juan                      DonGiovanni
Bibi                     Catalinón                      Leporello
Atamira             Doña Ana                     Donn’Elvira
Ipomene            Isabela                          Donn’Anna
Cloridoro           Duque Octavio            Don Ottavio
Tidemo              Don Gonzalo                Commendatore
Nell’Empio mancano i personaggi di Masetto e Zerlina, presenti invece nel Burlador come Batricio e Arminta.

L’empio punito


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foto © Imaginarium Creative Studio

Alessandro Melani, L’empio punito

★★★★☆

Pisa, Teatro Verdi, 12 ottobre 2019

Don Giovanni #1

Ci vuole un bel coraggio a inaugurare la stagione lirica di un teatro italiano con un’opera barocca. Peggio, con un’opera sconosciuta, caduta nell’oblio da più di tre secoli. Peggio ancora, metterla in scena in abiti moderni e, come se non bastasse, con un controtenore come interprete principale!

Onore al merito dunque di Stefano Vizioli, direttore artistico del Teatro di Pisa, al regista Jacopo Spirei e al concertatore Carlo Ipata di aver accettato una sfida che più blasonati teatri italiani non avrebbero mai avuto il coraggio di affrontare. L’interesse principale di L’empio punito risiede nel fatto che, 118 anni prima di Gazzaniga e di Mozart (1), veniva messa in musica la vicenda del Burlador de Sevilla y convidado de pedra di Tirso de Molina (1579-1648).

Sì, parliamo proprio della storia di Don Giovanni, che venne intonata per la prima volta nel 1669 dal compositore Alessandro Melani su testo di Filippo Acciaiuoli (soggetto) e Giovanni Filippo Apolloni (versi). Il debutto il 17 febbraio avvenne al teatro di Palazzo Colonna davanti alla Regina di Svezia e a gran parte della corte del papa Clemente IX («26 cardinali oltre una quantità di principi») con modesto successo, lo stesso delle repliche di Bologna e Firenze, prima che l’opera cadesse nell’oblio. Il lavoro venne ripreso solo agli inizi del nostro secolo a Lipsia e a Montpellier, qui in forma di concerto. Alcuni brani vennero poi eseguiti al Teatro Verdi di Pisa nel 2015 dove ora L’empio punito viene messo in scena a 350 anni dal debutto (2).

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Nel libretto ritroviamo la nota vicenda immersa in una farraginosa storia che mescola naufragi, amori, infedeltà, travestimenti, veleni, presunti rapimenti, viaggi onirici e reali nell’Ade e minacce di guerra (3). I nomi dei personaggi sono del tutto diversi e saranno Bertati e Da Ponte (i librettisti di Gazzaniga e Mozart rispettivamente) a ripristinare quelli per noi imprescindibili di Don Giovanni, Donna Anna e Don Ottavio dell’originale spagnolo.

Alessandro Melani era nato a Pistoia nel 1639 in una famiglia che avrebbe contato come musicisti i fratelli Jacopo (anche lui compositore) e Atto (cantante castrato). Inizialmente organista, poi maestro di cappella, fu autore di numerose opere comiche rappresentate nei teatri fiorentini. Nel periodo del debutto de L’empio punito, a Venezia Francesco Cavalli scriveva i suoi ultimi capolavori mentre a Parigi i teatri erano dominati da Jean-Baptiste Lully e Marc-Antoine Charpentier.

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Se il libretto di Apolloni lascia qualche traccia su quello di Da Ponte (4), ben diverso è il caso della musica: una sequenza di 51 arie, 11 duetti, tre terzetti e alcuni cori, collegati con un arioso a un recitativo espressivo che si rifà direttamente al “recitar cantando”. I numeri musicali, brevi o brevissimi, non sempre permettono una chiara definizione psicologica dei numerosi personaggi ma danno un ritmo teatrale molto efficace che rimanda alla Commedia dell’Arte italiana. Quella del Melani è dunque un’opera seicentesca al 100%, in cui le tirate moraleggianti e barocche si alternano a neanche troppo velate allusioni sessuali nelle bocche dei personaggi comici.

Con grande coraggio qui a Pisa i numeri musicali vengono restituiti nella loro interezza, solo alcuni recitativi vengono tralasciati, portando la serata a sfiorare le quattro ore – «un tantino longhetta» scrissero le cronache del tempo e anche «Sua Maestà […] parve che s’annoiasse alquanto della lunghezza dell’opera». Forse sarebbe stato più opportuno anticiparne l’inizio, a tratti si sente la fatica per i cantanti e per gli spettatori – questi ultimi a ranghi sfoltiti dopo l’intervallo – che comunque decretano allo spettacolo un caloroso saluto che premia la sempre attenta e partecipe direzione del maestro Carlo Ipata che a capo dell’Orchestra Auser Musici dipana una musica che non poco deve a quella del Cavalli, ma che anticipa anche quella del teatro che verrà. È un esempio del primo caso l’aria «È solo a chi spera | chimera | il gioir» con quell’accompagnamento trascinato simile a quello di «Delizie, contenti» del Giasone di vent’anni prima. «Se d’Amor la cruda sfinge» nel second’atto sembra invece anticipare un certo Vivaldi mentre «Consigliatemi pensieri» non può non fare pensare ai «Pensieri» dell’Agrippina di Händel.

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Tutti questi esempi sono di Acrimante, è su lui infatti che si concentrano le pagine più interessanti, che portano il personaggio a una drammatica evoluzione da irrefrenabile burlador che anche in catene non smette di irridere il destino («A duello eterno | doppo la morte mia sfido l’inferno») fino al passo estremo quando lancia le ultime parole di sfida: «s’eterno penare | ha il Gel per me prefisso | vanne corpo alle belve, l’alma all’abbisso».

Per vestire i panni di un carattere così forte occorreva un interprete come Raffaele Pe che si cala alla perfezione nello sfrontato personaggio ed è efficace sia scenicamente sia vocalmente, con uno strumento che conosce tutte le sfumature espressive e raggiunge un volume sonoro ragguardevole per un controtenore. La sua è una performance da mattatore che non si risparmia mai. Non sono da meno le sue due vittime femminili: Atamira è Raffaella Milanesi di bel timbro e gran temperamento, Ipomene è la brava Roberta Invernizzi, personaggio meno drammaticamente definito che il costumista Mauro Tinti trasforma in una Biancaneve disneyana. Il principe azzurro, qui dorato, è ovviamente Cloridoro, Federico Fiorio, soave controtenore selezionato attraverso il bando “Accademia barocca” da cui provengono anche Lorenzo Barbieri (Atrace), Benedetta Gaggioli (Proserpina, Auretta), Piersilvio de Santis (Niceste, Demonio, Capitano della nave), Shaked Evron (Corimbo) e Carlos Negrin Lopez (Tidemo). I servi comici qui hanno le voci di Giorgio Celenza, un Bibi con bombetta e valigia, di buona vocalità ma che dovrebbe maggiormente sottolineare la personalità del personaggio, e Alberto Allegrezza, tenore en travesti per la nutrice Delfa (come è di prammatica nell’opera del Seicento) e qui la comicità non è mancata, con toni arguti ma senza mai scadere nella volgarità. Sia i quasi debuttanti sia i più navigati interpreti hanno fatto un ottimo gioco di squadra nella riproposizione di questa rara opera.

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Altrettanto merito alla felice riuscita dello spettacolo si deve alla gustosa regia di Jacopo Spirei che ha saputo trovare il giusto posto ai tanti personaggi e a trarre fuori da ognuno di loro il tono efficace, complici anche le trovate sceniche di Mauro Tinti declinate nei colori primari e in elementi sovradimensionati di rara arguzia. Eccellente il disegno luci di Fiammetta Baldisseri nel definire i vari ambienti di questa vicenda che apre le porte di un inferno di cartoon.

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(1) Come si sa il Don Giovanni del compositore italiano precedette di alcuni mesi quello del salisburghese: Venezia, Teatro san Moisè il 5 febbraio 1787 il primo; Praga, l’odierno Stavovské Divadlo il 29 ottobre 1787 il secondo.

(2) Ma non basta: pochi giorni fa ne è stata allestita un’altra edizione anche a Roma nel teatrino di Villa Torlonia mentre contemporaneamente al Costanzi si dava il Don Giovanni per antonomasia, quello di Mozart. Nella versione romana (concertatore Alessandro Quarta, regista Cesare Scarton) il protagonista Acrimante era un baritono.

(3) Atto I. Prima di una battuta di caccia, tra gli stallieri che lamentano le loro fatiche, Ipomene cerca il suo amato Cloridoro, cugino del re, con il quale riesce ad avere un breve e appassionato scambio. Frattanto, in un bosco accanto al mare, vaga Atamira, figlia del re di Corinto, che, piangendo la fuga del suo amato Acrimante, si ritrova ad assistere a un naufragio e a mettere in salvo proprio colui che l’ha tradita e il di lui servo, Bibi. La donna non avrà ricompensa alcuna dall’ingrato, il quale si ritroverà, in men che non si dica, a corteggiare uno stuolo di pastorelle. Esausta dal lungo peregrinare e trafitta dal dolore, Atamira si addormenta e verrà risvegliata dall’arrivo di Atrace, sovrano di Macedonia, il quale, pur avendo cantato con gioia la propria libertà sino a poco prima, si ritrova d’improvviso il cuore piagato dalla bellezza della fanciulla. Questa accetta l’invito del re a corte, pur tacendo la propria reale identità e le proprie origini. A corte, intanto, Acrimante e Bibi rimangono folgorati rispettivamente da Ipomene e da Delfa, sua nutrice. Mentre Atrace narra le sue pene d’amore a Cloridoro, Tidemo li informa che Acrimante, cugino del re, oppresso da strane vicende, lo attende a corte. Sollecitato dal padrone, Bibi estorce alla sua amata informazioni riguardanti Ipomene e riesce a fare in modo che i due si incontrino, proprio mentre lui, con gli abiti di Acrimante, proverà a salire sul balcone di Delfa.
Atto II. Un buffo malinteso con Niceste, servo di Cloridoro, mette a repentaglio l’incontro dei due servi innamorati. Bibi viene scambiato per Acrimante dal re e da Cloridoro, che hanno assistito alla scena e pensano dunque che l’uomo voglia sedurre Ipomene, o forse Atamira, ospite nelle sue stanze: in entrambi i casi si tratterebbe di un affronto troppo grave, che merita di essere vendicato. L’incontro tra Acrimante e Ipomene, in attesa di Cloridoro, viene interrotto da Bibi, che annuncia l’ordine del re di vedere subito Acrimante: la condanna a morte è la pena che Atrace stabilisce per colui che lo ha vilmente tradito e oltraggiato nella sua corte. Acrimante chiede a questo punto a Cloridoro di avvisare la fanciulla che lo attende nelle sue stanze, spiegandole che egli non potrà presentarsi per quanto accaduto. Incontenibile sarà la rabbia di Cloridoro nel constatare che si tratta proprio della sua Ipomene. Atamira, nonostante tutto ancora innamorata di Acrimante, chiede di farsi giustizia da sola per gli innumerevoli torti subiti: propone così al re di avvelenarlo e straziare poi il suo corpo. All’amato farà bere in realtà un potente filtro che simula la morte, salvandogli così la vita per la seconda volta. Delfa e Bibi rivelano intanto a Cloridoro che Ipomene gli è sempre stata fedele. Accertatosi dal suo fido Corimbo della morte di Acrimante, Atrace incalza Atamira ad accettare di unirsi a lui in matrimonio, ma la donna, ancora fedele al suo traditore, resiste con grande fierezza. Delfa prova a sedurre Bibi ma l’uomo, che sta vegliando il finto defunto, pensa che quella voce provenga dal fantasma di Acrimante. Mentre i due servi si allontanano, sopraggiunge il Demonio: a paragone della vita terrestre, mostrerà ad Acrimante i diletti del suo Regno, dove potrà corteggiare la stessa Proserpina.
Atto III. Alle preghiere di Atamira, Acrimante si risveglia, dinnanzi a un Bibi incredulo. Ancora una volta però il bel seduttore mostrerà la propria ingratitudine verso la sua insistente salvatrice. II servo sta al gioco del padrone e gli rivela a quel punto che Ipomene deve incontrare Cloridoro: egli potrà quindi introdursi, sotto mentite spoglie, nelle sue stanze. Atrace intanto vuole visitare Atamira per conquistare definitivamente il suo cuore, ma le urla disperate di Ipomene, sorpresa nella notte da uno sconosciuto, lo arrestano. Tidemo, tutore della fanciulla, accorre per vendicarne l’onore, ma Acrimante, che svela apertamente la propria identità, lo sfida a duello e lo uccide. Trovato l’indomani il cadavere di Tidemo, Atrace teme di esserne il reale assassino, avendo sparato un colpo un vuoto per mettere in fuga il malfattore; lancia comunque l’allarme, affinché tutti si mettano sulle tracce di colui che ha approfittato di Ipomene. Nel frattempo Telefo, reca al sovrano un messaggio del re di Corinto: per ripagargli il torto subito, tenendo prigioniera nel suo regno sua figlia Atamira, dovrà prenderla in sposa o l’esercito corinto gli muoverà guerra. Atrace vuole costringere la donna a sposarlo, pena la morte, ma Atamira rifiuta, sentendosi ancora legata ad Acrimante. A un nuovo fugace incontro tra i due servi, segue un siparietto tra Delfa e Niceste, che vorrebbe maggiori dettagli sulla morte di Tidemo. Intanto Acrimante, trovatosi con Bibi di fronte alla statua del defunto Tidemo, deride il morto e lo apostrofa con battute irriverenti: con gesto estremo lo invita a cena e la statua china il capo per dare il proprio assenso. Terrorizzato Bibi assiste al banchetto che sei statue allestiscono in giardino. Ma Acrimante ha già consegnato la propria anima a Plutone: il banchetto scompare, la statua vola in cielo e una voragine si apre ai suoi piedi e lo risucchia. Caronte lo attende, un gelo si impossessa di lui e comprende che, come solo è stato nel piacere in vita, solo sarà nelle pene dell’Inferno. Bibi narra la fine del suo padrone ad Atamira, che accetta, in fondo liberata, la nuova vita con Atrace, ormai scagionato dal sospetto d’omicidio; Cloridoro e Ipomene potranno finalmente convogliare a nozze e così Bibi con Delfa. L’opera si conclude con un coro moraleggiante sulla giusta punizione divina che spetta a chi pecca di empietà.

(4) Non pochi sono i versi simili nelle due opere. Anche L’empio inizia con un lamento sulla fatica del lavoro: «Gran tormento che mi par | lavorar la notte e ‘l dì», ma qui sono gli stallieri di Cloridoro. Mentre è di Bibi/Leporello «se non erra la vista | ecco la robba da scriver nella lista» alla vista delle pastorelle probabili vittime del padrone. Nel terzo atto «Chi a vivande celesti un dì s’avvezza | ogni cibo terreno odia e disprezza» risponde Tidemo/Commendatore all’invito a cena, mentre Bibi/Leporello così racconta la morte del padrone ad Atamira/Donna Elvira: «al suolo istesso | si mosse l’appetito | aprì la bocca, e t’inghiottì il marito». Fino alla morale finale «Così punisce il Ciel, chi il Cielo offende».

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