Thomas Mann

Palestrina

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★★★☆☆

Storia di un artista depresso

Nei suoi diciotto anni di durata (1545-1563) il Concilio di Trento si occupò anche della musica, di canto gregoriano nella fattispecie, che cercò di riportare alla monodica purezza originale dopo gli artifici aggiunti nel tempo, primo fra tutti la polifonia. Giovanni Pierluigi da Palestrina fu il compositore incaricato di redigere una musica liturgica che rispettasse le decisioni conciliari. La sua Missa Papæ Marcelli, dedicata al brevissimo pontificato (tre settimane!) di Marcello II, rispondeva appunto a quelle esigenze, ma la sua polifonia, che non comprometteva la comprensibilità del testo, convinse il Concilio a non gettare alle fiamme la musica del passato.

Questa vicenda è l’oggetto della “leggenda musicale” che occupò Hans Pfitzner tra il 1912 e il 1915, fino alla sua presentazione al Prinzregententheater di Monaco il 12 giugno 1917 sotto la direzione di Bruno Walther. Nel pubblico c’era anche Thomas Mann, che definirà il compositore un «nazionalista anti-democratico». Controversa figura quella di Pfitzner che, mentre manifestava pensieri anti-semitici, si prodigava per i suoi amici ebrei, corteggiava goffamente il regime ma da questo veniva ignorato se non deriso. La miglior definizione è forse quella di Bruno Walther che alla sua morte ebbe a scrivere: «Abbiamo trovato nella sua personalità la più strana combinazione di vera grandezza e intolleranza che mai abbia contraddistinto in modo così problematico la vita di un musicista».

Assimilabile al post-wagnerismo e al neo-romanticismo, il suo stile compositivo godeva dei favori di chi era contrario alla ‘Neue Musik’ della Scuola di Vienna, i cui esponenti maggiori erano Schönberg, Berg e Webern. Nella figura di Palestrina Pfitzner adombra il proprio dramma personale, di artista testimone della frantumazione di un universo di valori estetici di cui non poteva che constatare l’inarrestabile declino. (1)

Nel gennaio 2009 va in scena alla Staatsoper di Monaco di Baviera un’edizione di Palestrina con la regia di Christian Stückl, sovrintendente del Volkstheater, direttore della Passione di Oberammergau e dello Jedermann di Salisburgo, uno quindi che di masse in movimento e questioni religiose se ne intende. Ma negli extra del disco ammette di non amare quest’opera né il libretto. Di conseguenza la sua lettura è bidimensionale e votata alla semplificazione dei problemi religiosi ed esistenziali posti dal testo, seppure abilmente illustrata con quelle scene e quei costumi (di Stefan Hageneier) dai colori allucinati – bianco, nero, rosso, verde, fucsia. I tocchi ironici nella sua messa in scena (l’interminabile limousine del legato papale, gli angeli-suore svolazzanti, i mascheroni del papa e della moglie morta) punteggiano qua e là una partitura che di per sé è anche troppo seriosa.

Simone Young porta abilmente in porto l’imponente orchestra del teatro mentre gli oltre trenta personaggi in scena, tutti maschili, si avvalgono di interpreti eccellenti: Christopher Ventris pone il suo lirismo e la sua sensibilità per disegnare un Palestrina depresso e sfiduciato; il cardinale Borromeo ha l’autorevole presenza vocale e scenica di Falk Struckmann; Michael Volle è un imperioso Giovanni Morone; Christiane Karg un sensibile Ighino en travesti, ma anche tutti gli altri interpreti sono di buon livello.

Ottima la regia video di Karina Fibich. Tre ore e venti minuti di musica, sottotitoli in tedesco, inglese e francese.

(1) La vicenda dell’opera la troviamo raccontata da Alberto Arbasino in una sua irresistibile recensione di un allestimento visto a Berlino nel 1996: «È un’opera anche più romana della Tosca: tratta proprio del famoso compositore vaticano, sotto il Cupolone. Ma non è mai stata data a Roma, perché mette in scena decine di cardinali rissosissimi: un ‘cast’, oltre tutto, assai costoso. E allora, quando i cattolici non ce la fanno, ben vengano i luterani, signora mia. […] La musica di Pfitzner, però, oggi ci appare come un imponente e struggente anticipo della romanità ‘anni Venti’ di Ottorino Respighi: un languido e lugubre tessuto di Pini e Fontane e Feste all’amatriciana, con lancinanti Leit-motive anche porchettari e vaccinari, oltre che fontanieri. Con squisite raffinatezze: qualche spizzico di Monsignor Perosi flambé su un carrello di Bruckner al forno. E il libretto (del compositore medesimo) è squinternato: un sandwich di due atti molto intimistici in casa Palestrina; e in mezzo, il kolossal del Concilio di Trento, dove Pierluigi viene solo menzionato en passant fra le tante risorse della Controriforma. E si scopre che il vero protagonista è Carlo Borromeo, cattivissimo, non ancora santo, e con una parte più lunga di Wotan. […] Nel prim’atto siamo in piena Vita d’Artista. Il tormento e l’estasi della creatività e dell’invenzione: come nei film su Beethoven e Van Gogh e Toulouse-Lautrec, le opere di Berlioz e Hindemith su Benvenuto Cellini e Mathis Grünewald, il romanzo di Somerset Maugham (La luna e sei soldi) su Gauguin. E anche il tema di Intellettuali & Potere: impossibile che Brecht non lo tenesse presente nel Galileo. Qui al posto dello scienziato eliocentrico c’è il musicista polifonico: depresso perché vedovo e superato dalle mode e col blocco della pagina bianca (e tutta una sintomatologia da curare col Prozac). […] Il second’atto – il Concilio di Trento – è sceneggiato e scritto con più irriverenze di Dario Fo, benché da un conservatore bavarese. I litigi fra cardinali francesi e spagnoli, e il disprezzo per gli intriganti italiani, sono proprio da “corridoi del potere” e conflitti d’interesse come quelli che importano a Oliver Stone e a Brecht. E qui si tratta di fare la Controriforma, come un consiglio d’amministrazione con piccoli e grandi azionisti dispettosissimi, e grandi vecchi in manovra, come a un Congresso di Vienna visto da Sacha Guitry. […] L’ultimo atto è brevissimo. Sempre più depresso, Palestrina cincischia in casa dando qualche ripetizione alla Cappella di Santa Maria Maggiore, ma l’allievo è già scappato a Firenze con la sua viola da gamba. Il figlio non ha ancora cambiato voce. Ma ecco un trambusto in strada, e la casa si riempie di preti. Entra assai disinvolto papa Pio IV, gran signore milanese: un Medici di Marignano, figlio d’una Serbelloni, cognato d’una Orsini e una Vistarini e una Dal Verme, zio di tutti i Borromeo. E si è scomodato per congratularsi di persona: caro Palestrina, la vostra Messa è stata eseguita, ed è stata un successo! Giusta retribuzione per un’opera d’arte nata fra tante ambasce. E subito dopo anche il Borromeo (altro gran signore!) fa una cosa tipicamente manzoniana: viene a chiedere solennemente perdono come già Fra Cristoforo in un’occasione mondanissima. Qui però lo spettacolo manca, perché in casa Palestrina c’è grande attesa, e dunque manca la sorpresa. Manca anche un dato biografico (Pfitzner ha molto pasticciato la cronologia): in realtà la vedovanza di Palestrina durò meno di un anno, perché tosto si risposò con una facoltosa pellicciaia. Dunque, qui, ecco un protagonista che finisce solitario, assopendosi: pennichella? Mai un’opera italiana terminerebbe così».

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Death in Venice

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★★★★★

«La bellezza è l’unica forma di spiritualità che sperimentiamo con i sensi»

Con le struggenti note finali della sua ultima opera, Benjamin Brtitten si conferma come uno dei massimi compositori d’opera del ‘900, certo il più importante della seconda metà del secolo, essendo la prima dominata dalle figure di Richard Strauss e Leoš Janáček per quantità e qualità. Le sue diciassette opere dimostrano l’importanza che Britten ha attribuito a questo genere che era stato dato per morto.

Il romanzo breve di Thomas Mann Der Tod in Venedig (1912) viene trasposto in libretto dalla sua amica e collaboratrice Myfawny Piper che gli aveva già scritto i testi per The Turn of the Screw e Owen Wingrave.

Atto I. Lo scrittore Gustav von Aschenbach passeggia per la periferia di Monaco di Baviera in una sera primaverile e incontra un viaggiatore straniero che lo invita a recarsi verso Sud, in cerca di ispirazione, come già hanno fatto grandi poeti. Aschenbach raccoglie questo consiglio e decide di recarsi a Venezia. Sul battello, in mezzo ad alcuni giovani, Aschenbach incontra un uomo, il cui aspetto (un trucco molto carico ne maschera la tarda età) desta il suo orrore. Al Lido, dove l’ha portato un misterioso gondoliere che ricorda Caronte, il direttore dell’hotel conduce lo scrittore nella sua stanza; fra gli ospiti, è presente anche una famiglia polacca: Aschenbach medita sul valore della bellezza. Il giorno dopo, in spiaggia, lo scrittore contempla il paesaggio opprimente: quando appare Tadzio, il fanciullo polacco ammirato dai compagni, lo osserva come il capolavoro che egli stesso vorrebbe aver creato. Disturbato dallo scirocco e dai venditori ambulanti, Aschenbach decide di lasciare Venezia. Si dirige verso la stazione, ma lo smarrimento del bagaglio gli offre il pretesto per rimanere. Ritornato nella stanza, vede Tadzio che gioca sulla spiaggia: un motivo in più per restare. Il vento è cambiato, il sole risplende: ispirato dalla luminosa presenza di Tadzio, Aschenbach si perde in fantasie mitologiche e assiste ai giochi dei ragazzi come fossero episodi della Grecia antica. Tadzio vince tutte le gare e i compagni lo incoronano: in quel momento Aschenbach sente la voce di Apollo che lo illumina sull’essenza della vera bellezza; cerca di parlare a Tadzio, senza però riuscirvi, ma un sorriso del fanciullo lo rende consapevole del fatto che quanto egli prova è amore.
Atto II. Lo scirocco opprimente è tornato: dal barbiere dell’hotel Aschenbach sente parlare per la prima volta del ‘morbo’ che si sta diffondendo a Venezia e, sceso in città, legge alcuni manifesti che rafforzano i suoi timori; da un giornale tedesco apprende che è in atto un’epidemia di colera e teme che la famiglia polacca possa partire per mettersi in salvo. Con sempre minor ritegno lo scrittore insegue Tadzio e i suoi familiari in giro per la città, fino alla porta della camera del fanciullo. Suonatori ambulanti tengono uno spettacolo in albergo, Aschenbach nota che neppure Tadzio condivide l’allegria generale. Rimasto solo, lo scrittore riflette sull’inesorabile fluire del tempo. In un’agenzia di viaggi il giovane impiegato inglese è costretto a chiudere a causa del numero eccessivo di turisti che intendono lasciare la città. Questi informa Aschenbach sull’epidemia che sta effettivamente dilagando: solo per timore di perdite economiche le autorità non divulgano la notizia. Aschenbach vorrebbe avvertire la madre di Tadzio, ma quando la incontra non riesce a parlarle. In preda alla sua ossessione, lo scrittore immagina con segreta gioia un’ecatombe in cui gli unici sopravvissuti siano lui e Tadzio. Aschenbach si addormenta e assiste in sogno allo scontro tra le due principali nature della sua anima, apollinea e dionisiaca, rappresentate dalle voci fuori scena di Apollo e Dioniso che alla fine trionfa. I selvaggi adoratori del dio straniero irrompono con grida bestiali e al culmine della danza appare l’immagine di Tadzio. Spaventato, Aschenbach si sveglia, riconosce il tradimento dei suoi ideali, ma si abbandona alla volontà del nuovo dio. Sulla spiaggia deserta lo scrittore osserva Tadzio e i suoi compagni che danzano. Desideroso di piacere, Aschenbach si reca dal barbiere: con i capelli tinti e con un trucco che dovrebbe ringiovanirlo, egli assomiglia al bellimbusto visto sul battello per Venezia e che tanto aveva disprezzato. Egli prosegue il suo inseguimento di Tadzio, per la città con la famiglia, anche quando il fanciullo se ne accorge. Esausto, si siede e medita sul dilemma socratico del poeta, che può percepire la bellezza ideale solo attraverso i sensi. Mentre il direttore dell’hotel e il portiere commentano la partenza affrettata degli ospiti, Aschenbach scopre che anche la famiglia polacca sta per andarsene e comprende che si sta avvicinando la fine. Sulla spiaggia Tadzio gioca con gli amici, ma è da loro umiliato: lo scrittore grida nel tentativo di soccorrerlo. Tadzio si incammina verso il mare, incurante dei richiami dei compagni. Aschenbach ripete il suo grido e, quando sembra che Tadzio si volga verso di lui, egli crolla morto sulla sedia.

Come artista Aschenbach è un devoto di Apollo, che impersona l’ideale di bellezza classica e ordine, ma quando si innamora inizia a provare anche l’estasi dionisiaca, che lo porta alla distruzione. Questo è un tema che Britten ha vissuto personalmente e che fa della sua ultima opera quasi un sofferto testamento spirituale.

Portata a termine nonostante la malattia che aveva colpito il compositore, Death in Venice debutta nel 1973. Britten avverte che probabilmente quello di von Aschenbach sarà l’ultimo ruolo, il più arduo, che scriverà per Peter Pears. Il musicista morirà infatti tre anni dopo. A John Shirley-Quirk va la parte multiforme del “messaggero di morte” che si incarna di volta in volta in viaggiatore, patetico bellimbusto, gondoliere, direttore d’albergo, barbiere, attore di varietà, voce di Dioniso. Per la voce di Apollo Britten ha scelto la voce di un controtenore, alla prima John Bowman. Tadzio non è un cantante, bensì un ballerino, proprio per sottolineare l’incomunicabilità tra i due personaggi. Nel 1971 era uscito il film di Visconti Morte a Venezia, ma Britten evitò di vederlo per non esserne influenzato.

L’orchestra utilizzata per Death in Venice è un complesso da camera allargato che fornisce una musica trasparente e raramente suona al completo. La tecnica balinese del gamelan è utilizzata nelle percussioni, mentre un pianoforte accompagna i monologhi di Aschenbach in uno stile non lontano dallo Sprechgesang schönberghiano.

Nell’edizione della English National Opera che celebra il centenario della nascita del musicista, 2013, abbiamo uno splendido spettacolo dove l’eccellenza è ripartita equamente tra il direttore Edward Gardner, la regista Deborah Warner, lo scenografo Tom Pye, le bellissime luci di Jean Kalman e gli appropriati costumi di Chloe Obolensky.

John Graham-Hall può non avere uno smalto vocale smagliante, ma la sua dedizione alla parte è totale e convincente. Andrew Shore impegna con successo i suoi sette ruoli a cui dedica caratteri distinti, Tim Mead presta la sua voce ultraterrena al personaggio di Apollo. Sam Zaldivar è Tadzio, qui meno ambiguo e seducente che nel film di Visconti.

Nessun bonus nel disco né sottotitoli in italiano.