Victor-Joseph Étienne de Jouy

Guillaume Tell

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Gioachino Rossini, Guillaume Tell

★★★★★

Londra, Royal Opera House, 5 luglio 2015

(live streaming)

Quarant’anni dopo Chéreau, Michieletto pone una nuova pietra miliare nella messa in scena di un’opera

Se non la beatificazione almeno un monumento a Damiano Michieletto e ai registi che come lui ancora credono che l’opera lirica sia una forma d’arte del nostro tempo bisognerà pur erigerlo. Se è uno specchio del presente l’opera deve assumere delle forme nuove, diverse dalle mummificate riproposizioni che invece la condannano all’estinzione.

Con questo allestimento alla Royal Opera House di Londra, Michieletto riscrive la storia della messa in scena dell’opera lirica con uno spettacolo che è tra i più sconvolgenti degli ultimi anni per bellezza, intelligenza, intensità e pathos. Tutti gli altri spettacoli che verranno dopo questo dovranno tenerne conto.

L’ultima opera di Rossini, che è profondamente diversa da tutte le altre sue, nella visione di Michieletto perde i connotati folkloristici della Svizzera da cartolina per affrontare i temi della violenza e della guerra. Il regista ambienta la vicenda in un generico paese occupato da forze straniere e chi vi ha visto una delle guerre balcaniche di non molto tempo fa non si sbaglia, ma altre interpretazioni sono altrettanto ammissibili. Purtroppo la storia si ripete con inesorabile spietatezza. Molti sono i momenti di grande intensità emotiva dello spettacolo che fa a meno delle coreografie per intensificare la drammaticità della vicenda. La violenza sulla donna del terzo atto (1), il giuramento del quarto, lo sconvolgente finale rimarranno nel ricordo per molto tempo.

Nonostante l’ambientazione moderna l’icona del Tell è sempre presente poiché è l’immaginazione di Jemmy a creare questa figura da contrapporre al padre inizialmente inetto, che non senza sofferta decisione diverrà l’eroe leggendario che conosciamo. Mai si è visto sulla scena un ritratto padre/figlio così vero come in questa produzione di Michieletto.

Il contrastato rapporto padre/figlio non è presente solo nelle figure Guillaume/Jemmy, ma anche tra i due Melchtal: Arnold è disprezzato dal padre a causa della sua passione per la “nemica” Mathilde e fino all’ultimo il vecchio rifiuterà il gesto del figlio che arriverà a rinunciare all’amore per la donna presentando al padre la scatoletta con il suo ritratto e le sue lettere ridotte in cenere. Solo il seppellimento nella terra del corpo trucidato del padre e la sua incondizionata conversione alla causa dei ribelli porterà pace nell’animo di Arnold.

La terra sterile che riempie la scena (anche nell’allestimento di Graham Vick c’era questo elemento, ma là era puramente simbolico, mentre qui è reale e sempre presente) e l’albero crudelmente sradicato sono il segno dello sradicamento di un popolo sotto il giogo dell’occupazione violenta della sua terra. Solo alla fine un bambino arriverà in scena con un alberello da piantare, simbolo di rinascita.

Il gioco mirabile di luci di Alessandro Carletti evidenzia e isola talora una singola scena come in un quadro di Caravaggio o Rembrandt, mentre una piattaforma rotante serve a cambiare la prospettiva della vicenda vissuta in quel momento in scena. Nella sua semplicità la scenografia di Paolo Fantin offre mille aspetti diversi con il gioco di ombre sui fondali che delimitano la scena.

Gli interpreti sono tutti eccezionali. Di Gerald Finley conoscevamo la capacità attoriale e l’elegante vocalità dimostrata in molte altre opere, ma qui il baritono canadese supera sé stesso: intensità, espressività, musicalità, timbro, tutto concorre a delineare un Guillaume Tell che sarà difficile superare. L’Arnold di John Osborn è ugualmente mirabile per dolcezza di emissione, squillo e partecipazione emotiva al personaggio. La sua resa di «Asile héréditaire» nel quarto atto è una lezione di fraseggio e di intensità espressiva da manuale, giustamente osannata dal pubblico.

Altrettanto memorabili sono il vecchio Mechtal del glorioso Eric Halfvarston e il Gesler di Nicolas Courjal, reso ancora più pericoloso da quella sua figura piacente e quegli occhi di azzurro ammaliatore. Anche il piccolo ma temibile ruolo del pescatore Ruodi a inizio dell’opera, che talora ha portato al naufragio immediato più di una voce gloriosa, ha trovato in Enea Scala l’interprete ideale per proprietà di emissione.

Stesso livello eccelso per il reparto femminile, iniziando dalla Mathilde intensamente sofferta di Malyn Byström, vocalmente ineccepibile, dalla Edwige di Enkelejda Shkoza e dal Jemmy perfettamente convincente e vitale di Sofia Fomina. Non solo gli interpreti principali sono grandissimi attori, ogni singolo corista o figurante ha avuto un suo campo di azione espressiva precisamente definito.

A sostenere il tutto con fervente partecipazione un Pappano superlativo. Anche se, come dice Alberto Mattioli, non ha a disposizione un’orchestra blasonata come quella di Santa Cecilia del disco, quella del Covent Garden oggi si è dimostrata duttile strumento sotto le sue mani e scevra dalle incertezze evidenziate alla prima.

(1) Michieletto ha urtato parte del pubblico della prima con questa scena che in un film o in un qualunque teatro di prosa sarebbe passata del tutto indisturbata. Il richiamo alla violenza compiuta sulle donne – pratica corrente da parte delle truppe occupanti, soprattutto di quelle così sadiche da imporre una tortura come quella della mela sulla testa del figlio del ribelle – non è passato indenne tra i velluti della sala del Covent Garden, ma Mark Valencia su “What’s on Stage” rileva come sia diventata abitudine da parte di alcune fazioni del pubblico della prime londinesi contestare tutte le nuove produzioni che minimamente si scostino dalla tradizione più consueta. Lo stesso cronista riporta come le reazioni di due energumeni che non hanno fatto altro che urlare parolacce hanno indispettito la maggioranza del pubblico molto più di quello che avveniva in scena.

Moïse et Pharaon

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★★★☆☆

Tra grand-opéra e santino oleografico

Nel 1827 Rossini, ormai di casa a Parigi e con alle spalle il successo del Siège de Corinthe ricavato dal Maometto II, si prepara al riadattamento del suo Mosè in Egitto affidandone la cura a Luigi Balochi e a Étienne de Jouy, il librettista della Vestale di Spontini. Moïse et Pharaon ou Le passage de la Mer Rouge debutta quello stesso anno all’Opéra con grande successo anche grazie a un cast eccezionale soprattutto per le parti maschili, ossia con Nicolas Levasseur (Moïse) e Adolphe Nourrit (Aménophis).

Da allora l’“oratorio” di Napoli è stato soppiantato dal “melodramma sacro” di Parigi, in Italia nella versione ritmica di Calisto Bassi e col titolo Mosè tout court. La revisione ha aggiunto un intero atto ai tre esistenti da far precedere al primo originario e un intervento coreografico, immancabile nei teatri parigini, su musica prestata da Bianca e Falliero. (1)

Senza le costrizioni del tempo quaresimale, il lavoro perde i caratteri oratoriali per acquisire quelli di un grand-opéra, con le sue arie solistiche e i balletti. Con una diversa ripartizione dei numeri musicali del Mosè in Egitto, nel Moïse anche i nomi dei personaggi vengono cambiati: ovviamente Mosè diventa Moïse e Faraone Pharaon, ma il fratello di Mosè qui è Éliézer; Amaltea, moglie di Faraone, si chiama Sinaïde; Osiride, figlio di Faraone, Aménophis; Elcìa, fanciulla ebrea, Anaï e Mambre, alto sacerdote, Osiride. (2)

Atto I. Nel campo dei Madianiti, presso Menfi. Si ode il lamento del popolo ebraico prigioniero in Egitto e le promesse di liberazione di Moïse. Sopraggiunge Éliézer, che racconta come Pharaon, cedendo non solo alle sue minacce, ma anche alle preghiere della regina Sinaïde, si sia finalmente convinto di lasciar partire gli Ebrei. Mentre tutto il popolo festeggia, Anaï viene raggiunta da Aménophis e i due giovani manifestano tutto il loro dolore per l’imminente separazione. Aménophis, deciso a tutto pur di non perdere la donna amata, comunica a Moïse la revoca dell’ordine del padre: per tutta risposta, Moïse fa scendere una fitta tenebra su tutto l’Egitto.
Atto II. Dopo una nuova promessa di liberazione da parte di Pharaon, Moïse acconsente a far tornare la luce del giorno. Nei progetti del re ci sono anche le nozze del figlio con la principessa d’Assiria: è lo stesso Pharaon a comunicare la notizia a uno sgomento Aménophis, che la madre Sinaïde tenta invano di consolare.
Atto III. Il popolo egizio innalza una grande preghiera di ringraziamento a Isis. Sopraggiunge Moïse con tutti i suoi, reclamando da Pharaon il rispetto delle promesse. Osiride, gran sacerdote, pretende però che gli Ebrei rendano omaggio a Isis: subito dopo lo sdegnoso rifiuto di Moïse, Aufide reca la notizia che le acque del Nilo si sono arrossate di sangue. Moïse, al termine di un aspro scontro con Osiride, stende il braccio verso l’altare di Isis e immediatamente tutti i fuochi votivi si spengono; Pharaon comanda che gli Ebrei siano allontanati in catene da Menfi.
Atto IV. Nel deserto, sulle rive del mar Rosso. Aménophis riconduce Anaï presso il suo popolo; il principe offre alla giovane la salvezza per tutti gli Ebrei in cambio del suo amore, per il quale è disposto anche a rinunciare al trono. Sopraggiunge Moïse, che mette di fronte Anaï alla scelta tra l’amore e la legge di Dio; Anaï rinuncia ad Aménophis e quest’ultimo, sconvolto dall’ira, annuncia che l’esercito egiziano, al comando di Pharaon, sta marciando contro gli Ebrei. Dopo aver rivolto una preghiera a Dio, Moïse stende il braccio e le acque del mare si aprono davanti a lui, permettendo il passaggio del popolo ebraico, per richiudersi immediatamente quando nel varco si precipitano Pharaon e Aménophis con il loro esercito. Gli Ebrei innalzano quindi un inno di ringraziamento a Dio.

Registrato al Teatro degli Arcimboldi per l’inaugurazione della stagione 2003-2004, Luca Ronconi costruisce un grandioso santino oleografico che rifugge da ogni tentativo di attualizzazione (mancano ancora otto anni al controverso allestimento del Mosè in Egitto di Graham Vick a Pesaro) o di discussione sul ruolo delle religioni. In un’intervista apparsa sul Corriere della Sera il 29 novembre 2003 Ronconi dice testualmente: «Quest’opera, che ha al suo centro l’elemento religioso, non deve diventare la storia di un prestigiatore. E soprattutto non sarebbe stato proprio il caso attualizzarla. Se negli anni passati è stato possibile e legittimo contrapporre ebrei a palestinesi, farlo oggi lo considererei offensivo, visto il momento storico, molto più drammatico e molto più serio di quanto sia una pur serissima rappresentazione teatrale», ossia una cosa è il teatro e un’altra il mondo reale. Il regista conferma anche qui la sua concezione: un’idea piuttosto ristretta ed esteriore del teatro visto nella sua spettacolarità decorativa del tutto refrattaria alle istanze della contemporaneità.

Il sipario si apre su un paesaggio desertico di rocce e sabbia con colonne e al fondo un grande organo barocco che si dividerà in due per trasformarsi nei troni del faraone e della consorte nel secondo atto, quello delle tenebre (ma qui i personaggi sono in piena luce ed è un po’ ridicolo l’Aménophis che si muove a tastoni in una scena perfettamente illuminata). Nel terzo atto siamo in una sorta di cattedrale invasa dalla sabbia e nel quarto il popolo eletto esce da una caverna verso un mare minaccioso ma immobile che si aprirà sollevando verso l’alto le sue onde rocciose. La scenografia di Gianni Quaranta è quella già usata all’Opéra di Parigi nel 1983 (ma nel programma si legge “Nuova produzione”…).

Per Il’dar Abdrazakov il Mosè declamatorio stavolta non è uno dei suoi ruoli migliori e il profeta ne esce un po’ sbiadito. Anche Erwin Schrott è sacrificato nel ruolo limitato di Pharaon. Meglio il reparto femminile: Sonia Ganassi espone le sue qualità belcantistiche nella parte di Sinaïde (mentre deluderà come Elcìa nel Mosè di Pesaro) e Anaï di classe qui è invece quella di Barbara Frittoli.

Giuseppe Filianoti nella parte dell’antipatico e maschilista Aménophis (che qui non viene colpito dal fulmine a metà opera, ma crepa con tutto l’esercito nelle acque del Mar Rosso nel finale) rifulge vocalmente negli acuti e nel fraseggio, ma non riesce a decidersi su quale interpretazione vuole impostare il suo personaggio, che porge con un certo distacco.

Muti dirige mettendo in luce gli aspetti innovativi dell’opera di Rossini e nella preghiera finale dilata i tempi della perorazione con una solennità raramente udita e che chiaramente riecheggia altri famosi cori verdiani. A proposito, ci siamo sempre lamentati che le traduzioni in italiano dei versi delle opere fossero di livello inferiore all’originale, ma la cosa vale anche all’inverso: la preghiera di Mosè dal poetico «Dal tuo stellato soglio» diventa qui il molto prosaico «Des cieux où tu résides». Anche foneticamente si passa dai suoni aperti delle vocali italiane aa quelli chiusi di e, u del francese. Una bella differenza.

Il balletto – oggetto avulso dalla vicenda, ma è proprio quello che voleva il pubblico parigino dell’epoca – è affidato a un Micha van Hoecke (Mischa nella confezione dei due DVD della ArtHaus) che fa gesticolare la stagionata Luciana Savigliano e lo scultoreo Roberto Bolle in gonnellino. Abbastanza banali anche i costumi di Carlo Diappi, tutto oro e crema quelli degli egizi mentre gli ebrei si devono accontentare di varie sfumature di grigio scuro.

Inesistente la direzione sui cantanti, Ronconi si concentra sulla scena finale, con l’apertura delle acque del Mar Rosso realizzata con mezzi non molto dissimili da quelli della prima del Mosè a Napoli il 5 marzo 1818. Questa volta agli Arcimboldi di Milano il meccanismo però ha funzionato.

(1) Ecco la struttura della nuova versione:
Atto I
1 Preludio (nuovo, in parte ripreso da Armida)
2 Coro Dieu puissant (nuovo, in parte ripreso da Armida)
3 Duetto Anaï-Aménophis Ah, si je perds l’obiet que j’aime (in Mosè in Egitto: 3)
4 Marcia e coro Jour de gloire (in Mosè in Egitto: 5)
5 Duetto Anaï-Marie Dieu, dans ce jour prospère (in Mosè in Egitto: 6)
6 Finale Quel delire! (in Mosè in Egitto: 7)
Atto II
7 Introduzione Désastre affreux! (in Mosè in Egitto: 1)
8 Invocazione e quintetto Arbitre supreme (in Mosè in Egitto: 2)
9 Duetto Aménophis-Pharaon Cruel moment! Que faire? (in Mosè in Egitto: 8)
10 Aria Sinaïde Ah, d’une tendre mère (in Mosè in Egitto: 13)
Atto III
11 Marcia e coro Reine des cieux (da Bianca e Falliero) e Ballabili (nuovo, in parte ripreso da Armida)
12 Finale (nuovo, in parte in Mosè in Egitto 10a)
Atto IV
13 Recitativo e duetto Anaï-Aménophis Où me conduisez-vous? (in Mosè in Egitto: 10)
14 Aria Anaï Quelle affreuse destinée! (nuovo)
15 Preghiera Des cieux où tu résides (in Mosè in Egitto: 14)
16 Finale (nuovo, in parte in Mosè in Egitto 15)
17 Cantico finale (nuovo)


(2) Per riassumere ecco tutte le stesure:
Mosè in Egitto, azione tragico-sacra in tre atti su libretto di Andrea Leone Tottola, andata in scena al Real Teatro San Carlo di Napoli il 5 marzo 1818;
Mosè in Egitto, azione tragico-sacra in tre atti su libretto di Andrea Leone Tottola, andata in scena al Real Teatro San Carlo di Napoli il 7 marzo 1819;
Mosè in Egitto, azione tragico-sacra in tre atti su libretto di Andrea Leone Tottola tradotto in francese da Castil-Blaze, andata in scena al Théâtre Italien di Parigi il 20 ottobre 1822;
Moïse et Pharaon, opéra en quatre actes su libretto di Luigi Balocchi e Etienne de Jouy, andata in scena a Parigi, al Teatro dell’Accademia Reale di Musica, il 26 marzo 1827;
Mosè, melodramma sacro in quattro atti su libretto di Luigi Balocchi e Etienne de Jouy tradotto in italiano da Calisto Bassi, andato in scena al Teatro San Carlo di Napoli il 23 marzo 1829.

Guglielmo Tell

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Gioachino Rossini, Guglielmo Tell

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 9 maggio 2014

Un Tell tra luci e ombre

Come già nel Guglielmo Tell di Muti/Ronconi alla Scala (1988) anche qui al Regio di Torino vengono proiettate immagini da cartolina del paesaggio svizzero, ma mentre là erano parte integrante di una visione complessivamente oleografica, qui nella messa in scena di Graham Vick sono invece in beffardo contrasto con l’ambiente asettico e artificiale in cui il regista ambienta la vicenda in un fine Ottocento in cui egli immagina un’utopia socialista che liberi dall’oppressione dei potenti.

Presentata con qualche dissapore del pubblico al Rossini Opera Festival del 2013 con cui è stato prodotto (troppo rosso in scena: ma bianco e rosso sono i colori della bandiera svizzera!) è stata qui riproposta con successo (purtroppo nella brutta versione ritmica italiana e non in quella della lingua in cui l’opera è stata concepita, il francese) una lettura politicizzata della leggendaria vicenda del cantone di Uri del XIV secolo.

Le scene di Paul Brown ci immergono in un ambiente di un bianco abbagliante in cui la terra è elemento di disturbo, e infatti gli elvetici sono obbligati a cancellarne con cura ogni traccia dal pavimento. Anche se la vicenda in scena segue le linee tradizionali (barche sul lago e mele comprese) Vick rafforza il grido di libertà del popolo oppresso insistendo sulla divisione tra buoni e cattivi, sulle malefatte di questi ultimi (umiliazioni e soprusi sessuali che hanno come vittime anche bambini), sulla ribellione degli oppressi (qui moderni proletari che scrivono sui vetri messaggi in latino) e sul finale rivoluzionario con quella scala vertiginosa che sale chissà dove.

Quella di Vick è una regia piena di simboli (la terra, i cavalli finti…) non sempre chiarissimi, ma di indubbio impatto teatrale. Anche troppo forse: la sua è una regia che talora può distrarre dalla musica, qui diretta magnificamene da Noseda fin dalla brillantissima ouverture, che infatti sarà portata in tournée oltre oceano in autunno con la stessa orchestra.

Coerenti per una volta con la lettura del regista sono i movimenti coreografici che non sono un “divertissement” bensì una prosecuzione della drammaturgia con i loro scatti nervosi, i movimenti epici della balletto dell’opera di Pechino, i salti acrobatici magnificamente eseguiti dal corpo di ballo. È la prima volta che i balletti del Guglielmo Tell sono una plastica rappresentazione delle umiliazioni cui è sottoposta la popolazione e hanno una giustificazione drammaturgica, non solo esornativa. Complimenti al coreografo Ron Howell.

Il titolo rossiniano non è tra i più frequentati a causa dell’impegno richiesto ai cantanti. Qui abbiamo un cast non eccelso con un protagonista titolare che ha in Dalibor Jenis un baritono convincente come padre, un po’ meno come patriota ribelle. Nella recita cui ho assistito Erika Grimaldi è stata una Matilde dagli acuti un po’ urlati e Arnoldo un volenteroso Enea Scala. Più efficaci nei loro ruoli Mirco Palazzi e Luca Tittoto, Fürst e Gesler rispettivamente.

Guillaume Tell

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★★☆☆☆

 «Quel horizon immense!»

Il soggetto del libretto (ultima opera di quel Victor-Joseph Étienne de Jouy che aveva scritto La vestale per Spontini) poi modificato da Hippolyte-Louis-Florent Bis, riprende il mito di Wilhelm Tell, eroe della liberazione elvetica dal giogo asburgico (1° agosto 1308), già oggetto del lavoro omonimo di Schiller (1804). Un tema, quello dell’emancipazione del popolo, non sopito nella Francia della restaurazione di Carlo X che dovrà abdicare nel 1830 a seguito della rivoluzione di luglio, la “seconda rivoluzione francese”. Il successo di stima ottenuto a Parigi dal Guillaume Tell divenne successo popolare a Lucca per la prima italiana tradotta da Calisto Bassi.

Atto primo. In un villaggio svizzero è in corso una festa campestre per le nozze imminenti di tre coppie di pastori: fra canti e balli, Guillaume piange in disparte le sorti della patria oppressa dal dominio asburgico. L’anziano Melchthal benedice gli sposi ed esprime al figlio Arnold il desiderio di poter presto fare altrettanto con lui. Vana speranza: il giovane contadino arde segretamente per Mathilde, principessa d’Asburgo ospite nella corte del governatore austriaco Gesler; alle differenze di rango s’aggiungono, insormontabili, quelle politiche, rese ancor più vive dalle sollecitazioni di Guillaume, che ora invita Arnold a unirsi ai ribelli contro il nemico. La festa continua fra danze e giochi, che proclamano il piccolo Jemmy, figlio di Guillaume, vincitore del tiro con la balestra. L’esultanza generale viene interrotta dall’irruzione del pastore Leuthold: per salvare l’onore della figlia ha ucciso un soldato austriaco e solo se qualcuno lo condurrà sull’altra sponda del torrente potrà sfuggire alla furia del comandante Rodolphe e dei suoi sgherri che lo inseguono. Guillaume si offre d’aiutarlo, mentre Rodolphe, dopo aver cercato inutilmente di conoscere dal popolo il nome del traghettatore, ordina ai suoi di distruggere il villaggio e si allontana prendendo in ostaggio il vecchio Melchthal.
Atto secondo. Durante una partita di caccia, Mathilde si apparta per poter incontrare nascostamente l’amato Arnold. È notte ormai, e mentre la principessa si allontana promettendo un nuovo incontro per il giorno successivo, Arnold viene sorpreso da Guillaume e Walter, che intendono distoglierlo dalla passione amorosa e incitarlo all’amor di patria. Ma solo dopo aver appresa la notizia che Gesler ha fatto uccidere Melchthal, Arnold risolve di unirsi ai rappresentanti dei vari cantoni, convenuti fra le tenebre per il solenne giuramento contro l’oppressore.
Atto terzo. Al nuovo incontro segreto, Arnold confida a Mathilde di voler vendicare il padre, cosa che non potrà che dividerli per sempre; vana la supplica della donna: il giovane non è più disposto a fuggire per salvarsi la vita, ma rimarrà a difendere la patria. Frattanto giunge dalla pubblica piazza l’eco della festa che Gesler ha organizzato per celebrare il diritto di sovranità sulle terre elvetiche. In segno di sottomissione, tutti devono inchinarsi davanti a un trofeo d’armi, mentre canti e balli accompagnano la cerimonia. Il rifiuto di Guillaume e Jemmy suscita l’ira di Rodolphe, che ravvisa nell’uomo colui che aveva tratto in salvo Leuthold: l’arresto è immediato. Tuttavia, conoscendone l’abilità d’arciere, Gesler lo sfida offrendogli vita e libertà se sarà in grado di colpire con una freccia una mela posta a distanza sulla testa del figlio. Fra la commozione generale, Guillaume raccomanda a Jemmy di pregare Iddio nella massima calma: il dardo scocca, l’impresa riesce. Sopraffatto dall’emozione, Guillaume s’accascia al suolo, lasciando così scorgere una seconda freccia che aveva tenuto in serbo per Gesler in caso di fallimento. La furia del governatore scoppia irrefrenabile; Mathilde, precipitosamente avvertita da un paggio, accorre sul luogo, ma ottiene soltanto di poter prendere Jemmy sotto la propria protezione, mentre Guillaume viene condotto a morte.
Atto quarto. Arnold s’aggira desolato nella casa paterna, quando viene raggiunto dai ribelli in cerca delle armi nascoste da Melchthal per il giorno della rivolta: il giovane s’unisce a loro, consapevole che il momento è vicino. Frattanto Mathilde, ha ricondotto Jemmy da sua madre Hedwige. Mentre il ragazzo, precedentemente istruito dal padre, corre a incendiare la propria casa per dare il segnale della rivolta, sul Lago dei Quattro Cantoni si addensano nubi che preannunciano tempesta: tutti temono per la sorte di Guillaume, ora prigioniero sulla barca di Gesler, che lo conduce alla fortezza; ma Leuthold annuncia di aver osservato dalla riva che, per far fronte all’impeto delle onde, proprio Guillaume è stato messo alla guida dell’imbarcazione. Tutti accorrono sulla spiaggia e mentre infuria la tempesta vedono Guillaume riportare faticosamente la barca verso riva; avvicinatosi però a uno scoglio, vi balza prontamente sopra, respingendo il battello in mezzo ai flutti. Gioia e abbracci coi familiari sono subito interrotti: anche Gesler è riuscito a guadagnare la riva; a Guillaume non rimane che imbracciare la balestra e trafiggerlo. Arnold giunge dalla città coi rivoltosi, annunciando che il nemico è stato definitivamente scacciato. La gioia per la libertà riconquistata viene coronata dal sole, che torna a risplendere sulle bellezze della natura.

E con questa traduzione italiana viene allestito lo spettacolo inaugurale della Scala del 1988. La messa in scena di Luca Ronconi è tra le più statiche del regista e se non fosse per gli schermi su cui si proiettano paesaggi e scorci alpini potrebbe essere una recita in forma oratoriale. Nessun lavoro di interpretazione è fatto sui cantanti che, inerti e impalati tra masse corali che vanno e vengono torpidamente, devono affidare esclusivamente alla vocalità la drammaturgia dei personaggi. In scena abbiamo una gradinata lignea dove si dispongono i coristi e gli immancabili oggetti semoventi ronconiani su cui si inerpicano i “cattivi”, non mancano le barchette per la gita della «timida donzella», il salvataggio di Leutoldo e la traversata di Guglielmo sul lago durante la tempesta. Anche la regia video è di Ronconi, altrettanto statica e per di più celebrativa del maestro in buca che in sovrapposizioni varie viene spesso a riempire lo schermo con la sua figura.

I costumi del tutto incongrui sono di Vera Marzot: i pastori svizzeri sono vestiti come ricchi borghesi di metà ottocento ed Edwige sembra una contessa pronta per un ballo a corte. Gli strati di tessuti che infagottano i cantanti rendono ancora più inamidata la loro prestazione. La banale coreografia totalmente avulsa dalla vicenda narrata che non può fare a meno della partecipazione di una Carla Fracci allora poco più che cinquantenne è anonima, ed è bene che rimanga ignoto l’autore. Finora il solo che abbia reso il divertissement drammaticamente coerente con la storia è il coreografo Ron Howell nella produzione di Graham Vick vista al Rossini Opera Festival e poi a Torino.

Nel ruolo del titolo Giorgio Zancanaro disegna il personaggio con onestà e intelligenza, seppure senza troppo carattere. Chris Merritt riprende il ruolo che fu del Nourrit: la sua parte ha necessità proverbialmente esagerate, ma il tenore americano le risolve con facilità anche se la voce non è sempre gradevole e fa rimpiangere l’Arnoldo di Pavarotti nell’edizione in studio di Chailly. Cheryl Studer dipana con bravura le agilità di Matilde, ma anche lei manca di espressività e passione per il suo personaggio. Luci e ombre negli interpreti dei personaggi minori.

A Riccardo Muti va l’indubbio merito di aver portato in scena l’opera nella sua integrità ed averla diretta con dinamica trascinante grazie anche ad un’orchestra che risponde in maniera eccellente alle sue sollecitazioni. Ottimo il coro del teatro a cui è richiesta una prestazione impegnativa.

I quattro atti di quest’unica versione video esistente sono ripartiti su due dischi. Nessun bonus, immagine in 4:3 in cui a fatica entrano le panoramiche alpine e con alcuni difetti presenti già nel master originale come si avvisa sulla confezione. Una sola modesta traccia audio anche lei con difetti vari.