La traviata

Giuseppe Verdi, La traviata

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 19 dicembre 2018

Traviata allo specchio

Un mio desiderio inconfessato sarebbe quello di non vedere più nessuna Traviata per almeno dieci anni e ritornare a godere di quest’immenso capolavoro con animo vergine.

E invece i teatri lirici, soprattutto quelli italiani, sembra che non possano fare a meno di allestirla in continuazione, in una coazione a ripetere degna di miglior causa. Solo in questa stagione la rimettono per l’ennesima volta in scena oltre a Torino, Firenze, Bari, Piacenza, Venezia, Milano, Roma, Bologna, Novara, Palermo, Napoli – per citare solo i maggiori. Il Regio ha rispolverato l’allestimento di Henning Brockhaus, uno spettacolo nato nel lontano 1992 e proposto a varie riprese allo Sferisterio di Macerata, all’Arena di Verona, ma anche in teatri convenzionali. Allora vinse il Premio Abbiati dell’Associazione Nazionale Critici Musicali.

Semplice e geniale la scenografia di Josef Svoboda: un’enorme parete di specchi inclinata di 45° che riflette i “tappeti” dipinti sul pavimento del palcoscenico: al primo atto un ricco sipario teatrale e poi immagini licenziose da dipinti dell’Ottocento; un villino rustico, un prato di margherite, un ingenuo album di dagherrotipi per il secondo atto ed elementi architettonici per il quadro del gioco; nel terzo il pavimento è finalmente spoglio e gli specchi riflettono le poche suppellettili, il letto, la scrivania, il giaciglio di Annina, lampade rovesciate.

Lo specchio è un segno molto forte: oltre ad essere un simbolo dell’inganno, della fugacità e della vanità, rappresenta anche il loro esatto contrario: verità, eternità, realtà. Nell’ultimo atto, quando Violetta muore, lo specchio si alza lentamente mostrando prima l’orchestra, poi il direttore sul podio e infine il pubblico in sala. Tutta la platea del teatro viene così riflessa dentro la storia, incorniciando così la vera causa della morte della sfortunata protagonista, vittima dei pregiudizi di quella borghesia dalla morale alquanto ambivalente allora, ma anche oggi.

L’usuale spostamento dell’azione dalla prima metà dell’Ottocento alla fine del secolo consente di giocare sulla sensualità dei costumi che riprendono quelli dei dipinti di Boldini. Il regista Henning Brockhaus dimostra in più punti di voler essere fedele al romanzo di Dumas, come durante il preludio quando Alfredo rilegge le lettere di Violetta come fece Dumas stesso, che alla morte della Duplessis ne comprò all’asta il carteggio. Originale è la scena del primo atto,  quasi un incubo di Violetta che, lacerata tra la novità di un sentimento puro e i richiami del piacere mondano, vede gli invitati come zombie minacciosi. Nell’edizione attuale particolari vengono aggiunti dal regista: dopo l’«amami Alfredo» Violetta si impadronisce della sciarpa dell’amato e la vedremo al collo della donna morente nell’ultimo atto e sempre qui il dottore arriva un po’ brillo da una festa, ancora con un boa di piume rosse al collo, fa una visita poco professionale e dimostra una certa confidenza con Annina.

Nelle scene di massa lo specchio fa sembrare un formicaio visto dall’alto gli invitati e mostra particolari che non sarebbero visibili solo frontalmente. La scena di apertura si svela così in tutta la sua vera licenziosità con donnine in guépière appartate con uomini in maniche di camicia. Inutili e banali i movimenti coreografici di Valentina Escobar, compresa una incongrua ballerina in tutu. Difficile è poi trovare una soluzione che renda accettabile la scena delle zingarelle e dei toreadori. Neanche qui si è trovata.

Alla testa dell’orchestra del teatro c’è Donato Renzetti. La sua direzione non mostra particolari colpi d’ala e si adagia su una professionale routine che non coinvolge particolarmente il pubblico né i cantanti in scena. Maria Grazia Schiavo è passata da tempo dal repertorio settecentesco, ma la voce rimane sottile e non particolarmente espressiva. Assidua nella parte di Violetta svolge bene il compito ma è più convincente nel primo atto – dove affronta con agio le agilità e il mi di tradizione alla fine dell’aria – ma non commuove veramente nell’ultimo. Neanche Dmytro Popov è nuovo nella parte di Alfredo, ma il timbro adenoideo, la voce proiettata all’indietro e la dizione impastata non rendono certo memorabile il personaggio, nonostante i tentativi del tenore ucraino di usare mezze voci e colori sfumati. Corretto ma senza personalità il Germont padre di Giovanni Meoni. Più o meno, spesso meno, accettabili i comprimari. Efficace come sempre il coro preparato da Andrea Secchi.

Teatro per una volta pieno e immancabile successo dell’“opera più amata”.

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