Bozzetto della scenografia di Christine Jones
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Giuseppe Verdi, La traviata
★★★☆☆
New York, Metropolitan Opera House, 15 dicembre 2018
(diretta streaming)
Una Traviata glamour inaugura la nuova era del MET
Al Met è iniziata l’era Yannick Nézet-Séguin, il nuovo direttore musicale dopo l’allontanamento di James Levine.
Per l’occasione si è scelto uno spettacolo di grande richiamo: La traviata, l’opera più rappresentata al mondo e due tra i maggiori interpreti del momento. L’allestimento è stato affidato al regista del “Rigoletto a Las Vegas” di cinque anni fa, Michael Mayer, che ha costruito uno spettacolo tradizionale, lussuosamente glamour, complessivamente convincente ma con la discutibile trovata di portare in scena l’altra figlia di Germont, la sorella di Alfredo, quella «pura siccome un angelo», che accompagna il padre in casa di una prostituta, cosa impensabile per la morale del tempo! Che poi la fanciulla ritorni nella scena finale attraversando il palcoscenico con il suo velo da sposa supera ogni senso del ridicolo.
Le scenografie neo-rococo di Christine Jones e i costumi di Susan Hilferty (che anche Elton Jones troverebbe eccessivi, come scrive la penna arguta di Justin Davidson su “Vulture”), con una sontuosità e ricchezza che solo un teatro come questo se le può permettere, rendono lo spettacolo di un decorativismo opulento quanto inutile, ma è quello che piace al pubblico, che infatti risponde con ovazioni da stadio alla fine dello spettacolo. Il kitsch ostentato dal regista nel primo atto è tale che forse la stessa Violetta ne è nauseata al punto da rinunciarvi volentieri!
La scena fissa è costituita da una sala semicircolare con un foro nel soffitto da cui scendono lampadari, coriandoli dorati e la neve. I rilievi a ramages dorati si staccano dalle pareti per rendere il secondo atto bucolico, ma in un certo senso inquietante. Sempre incongruamente presente al centro di questa claustrofobica concavità è un letto Luigi XVI, l’ambiente di lavoro della signorina, sembra volerci ricordare il regista: da qui è iniziata la sua carriera, qui finirà la sua vita. Se non il massimo della raffinatezza, certo è chiaro il messaggio. Ricreata come un flashback della protagonista (idea tutt’altro che inedita), la vicenda viene dipanata linearmente con alcuni momenti in cui i personaggi si immobilizzano mentre Violetta richiama il suo passato. Fin dall’inizio la vediamo morente a letto prima di essere trascinata via alla fine del preludio e, velocemente rivestita e pettinata, ripresentarsi alla sua festa. Nei quattro quadri in cui è tagliata la vicenda, le luci di Kevin Adams evocano le quattro stagioni della vita di Violetta: la primavera con lo sbocciare del nuovo amore; l’estate con l’appagamento della vita con l’amato; l’autunno del ritorno al vecchio protettore; l’inverno della sua morte.
Sebbene appena appuntato quale direttore musicale, Yannick Nézet-Séguin non è certo al suo debutto al Met: qui ha consolidato la sua carriera e la sua consonanza con l’orchestra è evidente nella padronanza dimostrata in questa partitura che ricrea in tutta la sua fluidità e drammaticità. L’esperienza wagneriana e straussiana del direttore canadese si può riscontare nella cura dedicata a questo lavoro che spesso viene tirato via con il suo inesorabile um-pa-pa.
Diana Damrau si riafferma nella parte di Violetta con maggior maturità espressiva rispetto al suo debutto cinque anni fa. Anche se non grandissima, la voce ha un tono luminoso e un colore speciale. Forse nell’interpretazione c’è una marcatura eccessiva: l’«addio, del passato» dovrebbe essere cantato con un tono uniformemente monocorde da chi ha perso ogni speranza nella vita che sta per lasciare, mentre il soprano tedesco sceglie di dare un’intenzione ad ogni parola. Si tratta comunque di una prestazione eccellente. Debuttante nella parte di Alfredo è invece Juan Diego Flórez. Molti lo aspettavano al varco per giudicare come se la sarebbe cavata e il risultato è superiore alle aspettative. Innanzitutto si deve dire che il tenore peruviano non rinuncia alle caratteristiche vocali che ne hanno fatto una specialista del belcanto: il legato, il fraseggio, i fiati sono prodigiosi anche in questo Verdi e assieme all’eleganza di emissione rendono il suo Alfredo forse meno impetuoso, ma tanto tanto più umano. «Parigi, o cara» ha la tenerezza e la dolente empatia tante volte cercata inutilmente in molte voci “d’oro” anche del passato cui si avrebbe voluto dire: «Piano, non quei toni! Siamo al capezzale di una moribonda!». Quasi totale assenza di presenza scenica per il Germont padre di Quinn Kelsey, baritono dal colore chiaro e affetto da strane emissioni. Ma qui a New York gioca in casa e il pubblico americano è tutto con lui. Virate al sexy acrobatico le coreografie di Lorin Latarro per il famigerato quadro delle zingarelle e dei toreador.
⸪