Jenůfa

Leoš Janáček, Jenůfa

★★★★★

Berlino, Deutsche Oper, 12 febbraio 2014

(video streaming)

Due donne in un interno

Christof Loy e lo scenografo Dirk Becker portano in scena il lavoro di Janáček con estremo rigore e fedeltà: non c’è suggerimento del libretto che non venga rispettato e molto è affidato alla attorialità dei cantanti ripresi in primo piano da Brian Large con la solita eccezionale professionalità. Del cast di questa ripresa di due anni prima di Jenůfa il nome più conosciuto è quello di Jennifer Larmore, una Kostelnička molto umana che anche in questa lingua a lei ostica riesce a delineare con grande intensità uno dei personaggi più sconvolgenti del teatro musicale del Novecento: non una vecchia irrancidita, ma una donna dai forti sentimenti ed è intorno a lei che ruota la lettura del regista (1): è lei infatti la donna in nero che viene fatta entrare in una nuda stanza da una guardia carceraria prima dell’inizio della musica. La cella si trasforma presto nella camera di Jenůfa, aperta sull’esterno, un campo di grano appassito. La ragazza arriva con la sua pianta di rosmarino e la sagrestana rivive in un flashback la vicenda che l’ha portata lì. Nel secondo atto il campo è coperto di neve, un’abbagliante e gelida distesa bianca. Nel finale del terzo atto Jenůfa e Laca escono invece verso un ignoto buio. Non c’è alcun accenno al folclore boemo, appena si capisce che siamo in un’ambiente rurale, i costumi sono moderni, la scenografia essenziale e minimalista: una scena costituita da una camera vuota con un tavolo e una sedia. Nient’altro. I personaggi sono messi a nudo con le loro emozioni in questa scatola impietosamente claustrofobica.

L’esperienza essenzialmente belcantistica del mezzosoprano americano non impedisce alla Larmore di infondere la giusta drammaticità al suo personaggio, così che anche nei momenti più concitati non viene mai meno un canto magnificamente timbrato e proiettato. La Jenůfa di Michaela Kaune sviluppa un’espressività più lirica che raggiunge l’apice nella preghiera del secondo atto (una delle più belle Ave Marie messe in musica) e nel finale, in cui quasi trasfigurata affronta il suo nuovo destino, ora non più sola. Nel cartellone un altro nome conosciuto è quello di Hanna Schwarz, qui una vecchia Buryjovka di intensa presenza scenica. E a proposito di presenza scenica, ne ha da vendere Ladislav Elgr, che porta sul palco uno Števa convincentemente caratterizzato nella sua immatura incoscienza dove il personaggio è perfettamente messo a fuoco nella gestualità e nel canto fortemente idiomatico ben reso dal giovane tenore. Un po’ sbiadito al suo confronto è il Laca di Will Hartmann che per di più dimostra qualche difficoltà nel registro acuto.

La particolare strumentazione è messa in luce con evidenza dalla bacchetta di Donald Runnicles, direttore musicale del teatro, che sceglie opportunamente la versione del 1908 invece della revisione di Kovařovic per la prima praghese. Questa scelta mette in evidenza quell’estetica della Kargheit (frugalità) di cui parla il direttore a riguardo della musica del compositore moravo: un dosato equilibrio tra melodia e frammento, ritmo parlato e ritmo musicale e tra i vari timbri individuali. Kovařovic ne aveva smussato le asperità, usando ad esempio corni invece dei tromboni, che qui riacquistano la loro cruda sonorità. E giusta è sembrata a questo riguardo la lettura di Loy che non interpreta in modo troppo personale il dramma, non lo decostruisce, al contrario costruisce una semplice ma efficace cornice che lo contiene e amplifica, come la cassa di risonanza di uno strumento a corde.

Il video è quello contenuto nel DVD ArtHaus in commercio.

(1) Nel suo paese d’origine Jenůfa è spesso messa in scena come Její pastorkyňa (La sua figliastra), il titolo originale  della pièce di Gabriela Preissová da cui è tratta la terza opera di Janáček, titolo che assegna alla sagrestana un ruolo altrettanto protagonistico nella vicenda.

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