La produzione di David Pountney di Jenůfa all’Opera di Stato di Vienna risale al 2004 ed è di impianto minuziosamente realistico – i sacchi di farina, le pentole sulla stufa, i costumi tradizionali – senza incursioni nel Regietheater o in elementi simbolici. Quest’ultima ripresa, la 32esima, ha giustificazione nella presenza di Asmik Grigorian che dopo Berlino impersona ancora una volta la figliastra, Její pastorkyňa, come dice il titolo originale di quest’opera al suo debutto nel 1904.
Nella scenografia di Robert Israel l’elemento dominante del primo atto è una gigantesca ruota che innesca altri meccanismi di un mulino che macina implacabile il destino dei personaggi; nel secondo atto i sacchi di farina sono accatastati come sacchi di sabbia a protezione delle pareti di un rifugio e una misera cesta di vimini è la culla dell’infelice piccolo Števa; più spoglio l’ambiente del terzo atto per le frugali nozze della coppia: un’enorme stanza, un ex magazzino, tutta rivestita di legno. Non c’è spazio per la natura in questo ambiente chiuso, i fiori e la pianta di rosmarino sono i pochi segni del mondo esterno che si presenta ostile, col suo gelo, il suo ghiaccio. Appropriati si rivelano i costumi di Marie-Jeanne Lecca così come le luci di Mimi Jordan Sherin. Nella sua sobrietà lo spettacolo messo in scena da Pountney non ha particolari elementi di novità, ma sfrutta abilmente le doti sceniche degli interpreti in un efficace gioco attoriale.
Tomáš Hanus, già ammirato a Ginevra, qui è alla guida di un’orchestra di ancor maggior prestigio: la precisione degli attacchi, il suono morbido degli archi, quello caldo dei legni, i lancinanti ottoni e tutti gli strabilianti effetti strumentali di una partitura meravigliosa sono resi con grande padronanza. Da brividi è l’attacco strumentale del secondo atto e per tutta l’opera l’orchestra non è mero accompagnamento delle voci, ma indiscussa protagonista del dramma.
E in quanto a voci il teatro viennese riesce a raccogliere un cast eccezionale, a partire dalla Grigorian, che porta in scena una Jenůfa di grande intensità espressiva pur con atteggiamenti misurati. La bellezza del timbro e la proiezione della voce delineano un personaggio che dalla trepida fase di giovane innamorata passa alla contenuta ma disperata accettazione di una realtà terribile. Momenti di indicibile commozione sono quelli della preghiera del secondo atto o del breve colloquio con la madre del terzo, dove i diversi stili delle interpreti si confrontano drammaticamente: freddo, rassegnato quello della Grigorian, tragicamente sofferto quello di Eliška Weissová (Sagrestana), che sfrutta i salti di registro della sua vocalità per effetti espressionistici di grande teatralità. Il suo monologo allorché decide di uccidere il neonato è il risultato di una logica che esalta la tragica grandezza del personaggio ed è realizzato in maniera potente. Una terza generazione femminile è quella della vecchia Buryja, una idiomatica Margarita Nekrasova. David Butt Philip è un Laca un po’ troppo gridato ma giustamente tratteggiato, così come lo Števa di Michael Laurenz. Ben caratterizzati sono gli altri personaggi secondari e funzionale il coro.
La plupart des hommes de la pièce de Gabriela Preissová, Její pastorkyňa (Sa belle-fille, 1890, devenue un roman quarante ans plus tard) sont des crapules ou des méchants. Endettés par le jeu et la boisson, les mâles du village morave auraient dilapidé les biens du moulin s’ils ne s’étaient pas retrouvés entre les mains de la vieille Buryjovka, laquelle est toujours affairée à tenir fermement la caisse. Et ce sont encore les femmes qui transmettent le savoir de la lecture et de l’écriture d’une génération à l’autre : de Buryjovka à Kostelnička, Jenůfa, Jano : c’est ici la seule chance qu’elles ont de maintenir leur indépendance vis-à-vis des hommes…
Sono quasi tutti mascalzoni o dei poco di buono gli uomini del dramma di Gabriela Preissová Její pastorkyňa (La sua figliastra, 1890, diventato poi un romanzo quarant’anni dopo). Indebitati dal gioco e dal bere, i maschi del villaggio moravo avrebbero disperso il patrimonio del mulino se non fosse finito nelle mani della vecchia Buryjovka, che ancora tiene saldamente la cassa. E sono ancora le donne a tramandare il saper leggere e scrivere da una generazione all’altra: dalla Buryjovka alla Kostelnička a Jenůfa a Jano: la sola possibilità offerta loro per essere indipendenti dagli uomini.
Ed è una donna, Tatjana Gürbaca, alla sua sesta presenza al Grand Théâtre, a mettere in scena l’opera che consacra tardivamente la fama di Leoš Janáček. Jenůfa è la terza incursione della regista berlinese nel mondo del compositore moravo dopo La piccola volpe astuta dello scorso autunno a Brema e Kát’a Kabanová di un mese fa alla Deutsche Oper am Rhein. Assieme allo scenografo Henrik Ahr, che costruisce uno spazio tutto in legno dominato da una scalinata che sembra non finire mai e da un soffitto spiovente che rende l’ambiente simile all’interno di una cappella, la Gürbaca più che i fatti mette in scena le psicologie dei personaggi e l’ambiente chiuso, oltre a esaltare le voci, fa entrare in risonanza i sentimenti dei Buryja.
In mancanza di una messa in scena “teatrale”, sono i dettagli dei rapporti personali a dominare in palcoscenico, le piccole cose, i vasi di rosmarino, l’inopportuno regalo di nozze di Karolka (un biberon!), la tinozza di zinco cha da culla del neonato riprende il suo ruolo per il bucato e infine diventa la cassa da morto per il suo funerale! In scena infatti compare proprio il cadaverino del piccolo Števa, particolare fin troppo realistico, anche se qui giustifica appunto le esequie del piccolo, sotterrato con la terra del vaso di rosmarino… La scala su cui si arrampicano faticosamente i personaggi rappresenta la difficoltà della fuga dalla loro condizione, ma visivamente è troppo ingombrante nella scena, unica per tutti e tre gli atti. Solo il gioco luci di Stefan Bolliger e i costumi di Silke Wilrett apportano un po’ di varietà nella visione statica e claustrofobica scelta dalla regista. Dati i limiti fisici della scena questa sembra sempre anche troppo affollata, spesso con molti bambini. Uno, vestito di bianco, scenderà dall’alto della scala nel finale: è il figlio di Jenůfa “risorto” a consolare la madre. Con la sua lettura la Gürbaca esalta l’aspetto intimo, borghese della vicenda, là dove invece altri – Lehnhoff, Michieletto, Guth – avevano dato alla storia un respiro più ampio.
Più convincente è la rappresentazione dei personaggi, a cominciare dalla Buryjovka che non è la patetica e mite vecchina vista in molte rappresentazione: qui è quella che gira con la cassa, gestisce i soldi, fuma, beve e al matrimonio dove tutti sono vestiti di nero, anche la sposa, sfoggia un vaporoso abito bianco! La estroversa personalità di Carole Wilson delinea con grande efficacia il taglio del personaggio nella sua cecità nei confronti dello scapestrato nipote e nella sua punta di malignità nei confronti degli altri parenti. Rôle fétiche per le grandi voci della scena è quello della Kostelnička (la Sagrestana) ripreso qui da Evelyn Herlitzius con una potenza sonora che riempie la sala di suoni violenti per incarnare uno dei maggiori personaggi del teatro del Novecento, una donna dotata di uno «spirito da uomo», rispettata e temuta nel villaggio, autoritaria ma tenera matrigna. Tutta la gamma della sofferenza è presente nella straordinaria performance del temperamentoso soprano tedesco: la tenerezza, l’angoscia, la follia sono espresse con vigore, ma senza esagerazione. Debutta invece nella parte del titolo Corinne Winters e piega le sue doti drammatiche alla parabola espressiva della ragazza che perdona l’uomo che l’ha messa incinta, poi quello che l’ha sfregiata, infine la matrigna che le ha ucciso il figlio, tutte azioni fatte per amore! Il soprano americano si dimostra attrice straordinaria quando da timida adolescente si trasforma nel secondo atto in madre amorevole, per cui ancora più tragica sarà poi la scoperta nel terzo atto della confessione della matrigna. La dolcezza e la precisione dell’emissione connotano la sua interpretazione e la sua fresca presenza scenica della Winters. Anche il personaggio secondario di Karolka è trattato con insolita importanza dalla regista che aggiunge così una quarta personalità femminile al suo affresco. Come per Jano, la sera della prima per motivi di salute le interpreti titolari sono state rimpiazzate all’ultimo momento, ma né Séraphine Cotrez né Clara Guillon hanno fatto rimpiangere la sostituzione.
Nel reparto maschile si confrontano per stili opposti i due tenori Daniel Brenna e Ladislav Elgr. Il primo è un Laca dal timbro luminoso e dalla grande proiezione – Brenna è stato di recente un apprezzato Siegfried – ma estremamente espressivo sia a livello vocale che scenico. La sua goffa presenza dell’inizio, quando si trastulla col coltello per rovinare il rosmarino e poi, quasi per incidente, sfregia la guancia dell’amata, si trasforma in trepidante sposo nel finale e lascia la certezza che sarà un compagno fedele e consolatore per la sfortunata Jenůfa. Tutt’altro tono per lo Števa di Elgr, l’unico ceco della compagnia – e si sente nell’esattezza dei suoni consonantici così tipici in quella lingua e che difetta invece negli altri interpreti. Parte spesso frequentata, ogni volta esprime lati diversi del personaggio a seconda delle richieste registiche. Da vero attore camaleontico ne accentua il lato irresponsabile, la codardia di fronte alle sue azioni e la giovanile superficialità espresse con un canto aspro, tagliente, perfettamente intonato al personaggio. Di ottimo livello gli altri interpreti secondari e il coro istruito da Allan Woolbridge.
Tutto quanto è concertato con grande sensibilità da Tomáš Hanus, riconosciuto interprete di questo repertorio. Il dettaglio strumentale dell’Orchestre de la Suisse Romande non fa perdere la concezione unitaria di questo dramma sviluppato con una forza drammatica accentuata dalle pause piene di tensione che il direttore ceco dissemina nella lettura di questa magnifica partitura. Il pubblico, non numerosissimo e inizialmente freddo, al momento dei saluti finali si è finalmente lasciato andare ad applausi calorosi soprattutto nei confronti delle due interpreti femminili principali.
L’indomani nell’ornato foyer del teatro è stata presentata la nuova ricca stagione lirica intitolata “Mondes et migrations” che si inaugurerà con due opere di Fromental Halévy, La juive e L’éclair, quest’ultima in forma concertistica, e terminerà con il Nabucco. In mezzo ci sarà la Kát’a Kabanová di Tatjana Gürbaca, la seconda parte della Trilogia Tudor donizettiana con Maria Stuarda, un Parsifal, due serate dedicate a Monteverdi, Lady Macbeth del distretto di Mcensk e una prima contemporanea, Voyage vers l’espoir di Christian Jost.
La prima opera di successo di Janáček invecchia bene: quella che sembrava una versione slava di Cavalleria rusticana, un drammone dai datati accenti veristi (1), si rivela invece un lavoro di lancinante intensità e modernità, che negli ultimi anni ha visto delle belle produzioni rivelarne la grande forza espressiva. Così è stato per lo spettacolo di Nikolaus Lehnhoff (Glyndebourne, 1989), di Christof Loy (Berlino, 2014) e di quello recente di Damiano Michieletto (Berlino, 2021).
Per il suo primo Janáček Claus Guth sceglie una lettura che nei costumi e la recitazione richiama August Strindberg, il drammaturgo svedese, ed Edvard Munch, il pittore norvegese. L’azione sembra trasposta infatti dalla rurale Moravia a un villaggio del nord Europa e i colorati costumi folcloristici disegnati da Gesine Völlm si mescolano con i severi abiti neri dei rigidi abitanti.
Ossessionatamente regolari come i giri del mulino, nel villaggio anche i riti si ripetono senza tempo, i gesti sono sempre gli stessi. Il tutto avviene in un ambiente, disegnato da Michael Levine, senza finestre, senza porte, una specie di dormitorio/laboratorio in cui le lavoratrici sono controllate dalla vecchia Buryjovka, inflessibile con il suo frustino. L’azione è incorniciata su tre lati dall’onnipresente coro, sul quarto da un pesante sipario che si alza come una saracinesca per rivelare la condizione di reclusione mentale dei personaggi. Nel secondo atto la casa della Kostelnička e della figliastra è una prigione fatta con le reti dei letti del dormitorio, mentre i materassi formano le lastre di ghiaccio che diventeranno la tomba dell’infelice “figlio della colpa”. Per il povero matrimonio del terzo atto il suolo è ricoperto di margherite gialle e il gioco di luci e ombre ora suggerisce le sbarre della prigione che attende la vecchia sagrestana. Nel finale il sipario di listelli si chiude dietro i due giovani che vanno incontro al loro futuro. Non mancano gli elementi realistici – il rosmarino, la cicatrice sulla guancia, la cuffietta rossa del povero neonato, le pietre con cui gli abitanti vogliono lapidare la ragazza – ma il regista non rinuncia a tocchi simbolici, come il corvo appollaiato sulla misera casupola, la terra nera e le nere figure nere incombenti sullo sfondo con le loro ombre minacciose.
Nella sua direzione orchestrale piena di contrasti, Henrik Nánási spinge il dramma allo spasimo pur con un perfetto controllo di una partitura che rivela ogni volta di più la sua modernità. Le scelte timbriche e strumentali sono sempre accurate e la tensione sostenuta senza momenti di stanchezza. Il bellissimo concertato del primo atto «Každý párek si musi svoje trápení přestát» (Ogni giovane coppia deve saper sopportare gli affanni) – col triste ritornello «trápení přestát, ach přestát» che muore su quell’inesorabile battito dello xilofono con cui era iniziata l’opera – unisce tre donne di tre generazioni diverse: la giovane Jenůfa, la matrigna Kostelnička, la nonna Buryjovka. L’abbraccio sugli applausi finali delle tre interpreti è quasi un passaggio di consegne dalla iconica Elena Zillio (Buryjovka), alla Kostelnička di Karita Mattila (Jenůfa su questo stesso palcoscenico vent’anni fa), alla Jenůfa di oggi, l’eccelsa Asmik Grigorian, debuttante nella parte.
Cominciando da quest’ultima, non si può non rimanere impressionati da come questa giovane artista ogni volta che affronta un personaggio lo faccia suo portandolo a un livello superiore, che si tratti di Tatjana (Evgenii Onegin), Salome, Marietta (Die tote Stadt), Polina (Il giocatore), Chrysothemis (Elektra) o Senta (Der fliegende Holländer). Il bellissimo timbro lirico e l’espressività dell’accento si uniscono a una recitazione di grande sensibilità e intensità in cui gioca l’assoluta padronanza del linguaggio del corpo, il che fa di Asmik Grigorian una delle più complete artiste del palcoscenico operistico di oggi. Anche Karita Mattila mette a frutto la sua esperienza e le sue consumate doti interpretative per fare della Kostelnička un personaggio umanissimo e convincente, che dimostra sotto i nostri occhi la “necessità” ineludibile del suo atroce gesto. La sua confessione finale e il perdono ottenuto dalla figliastra sono tra i momenti più alti dello spettacolo. Elena Zilio rende ancora una volta memorabile la sua presenza come Buryjovka e completa magnificamente questo triplice ritratto di donne crudelmente segnate dal destino. Splendida prova quella fornita da Nicky Spence (Laca) che da goffo perdente assurge alla figura di eroe della situazione, da petulante contadinotto a sposo esemplare, ben vestito e pettinato e spinto da nobili propositi: «Passerò il resto della mia vita a riparare il male che ti ho fatto». L’impegnativo ruolo è affrontato e risolto in maniera esemplare dal tenore scozzese che sfoggia una vocalità piena e luminosa. Saimir Pirgu delinea con efficacia uno Števa fatuo e meno psichicamente turbato del solito. Ottimi gli altri interpreti e il coro istruito da Vasko Vassilev.
Uno spettacolo da non perdere e che è disponibile sulla piattaforma operavision.eu fino al 9 novembre.
(1) Così per lo meno mi era parsa la prima volta che la vidi. Fu al Teatro Nuovo di Torino nel lontano aprile 1970 cantata in lingua italiana da M. Truccato Pace (La vecchia Buryja), F. Ghitti (Laca), S. Sinimberghi (Števa), S. Dall’Argine (La campanara Buryja), C. Parada (Jenůfa); maestro concertatore G. Rivoli, regia di D. de Quell (grazie all’Archivio Storico del Teatro Regio di Torino per le informazioni).
Berlino, Staatsoper unter den Linden, 13 febbraio 2021
(video streaming)
Una metafora del peccato
Tutti gli allestimenti di Damiano Michieletto si basano su un’idea forte e visivamente formidabile. Quella della Jenůfa con cui il regista debutta alla Staatsoper di Berlino è come sempre realizzata in maniera spettacolare. Nell’atto secondo di quest’opera tre diversi personaggi usano la stessa metonimia, quella della pietra (kámen in ceco), per descrivere il proprio stato d’animo. Il primo è Števa: «Tetuško, kameň by se ustrnul» (Zietta, [le tue parole] farebbero intenerire una pietra) quando dichiara che non vuole sposare Jenůfa perché non ne è più innamorato. Poco dopo tocca a Laca: «Těžkost jste mi urobila, | jak by mi kamenem, kamenem… » (Che carico mi avete dato, come una pietra, come una pietra) quando viene a sapere che la ragazza di cui è innamorato ha dato alla luce il figlio di Števa. Infine Jenůfa stessa nel sonno appesantito dal narcotico che le ha dato la Kostelnička si lamenta: «Mamičko, kámen na mne padá!» (Mamma, una pietra mi cade addosso) e al risveglio «Mamičko, mám těžkou hlavu, mám, mám | jako samý, samý kámen» (Mamma, ho la testa pesante, come fosse di pietra). Nel terzo atto poi i paesani non vanno per il sottile: «Kamením po ní!» (Lapidiamola)
Nel frattempo vediamo che è scesa lentamente dall’alto, sempre più incombente, un’enorme stalattite di ghiaccio, la punta sommersa di un’iceberg, che ora occupa quasi tutto lo spazio della scena. La colpa si è materializzata e ora opprime i personaggi con la sua massa imponente. Ma nel terzo atto succede qualcosa, allo stesso tempo inquietante ma anche un segno di speranza: il ghiaccio incomincia a sciogliersi e gocce d’acqua scendono e spariscono nel foro del pavimento che prima era celato da un tappeto. È il disgelo, che porta alla luce il povero cadaverino del neonato figlio della colpa, ma è anche quello che vive la protagonista alla fine dell’opera quando gli ondulanti arpeggi con cui si conclude l’opera – arpeggi come quelli di un altro stupendo finale, quello del Guillaume Tell di Rossini – in questo caso ricordano i rivoli d’acqua che si liberano dalla morsa del ghiaccio. Sotto questa pioggia purificatrice la Kostelnička cerca un perdono che la società non le può dare.
Spogliata di ogni elemento folklorico – che era stato portato volutamente all’eccesso nel primo e nel terzo atto nell’allestimento di Alvis Hermanis – la lettura di Michieletto si concentra sulle relazioni tra i personaggi (1) mentre l’ambientazione senza età è quella di una stanza dalle pareti semi-trasparenti e dall’interno chiesastico: alcune panche, un tavolino con candele e crocefissi. Al centro, nel secondo atto, la culla del neonato: per nasconderne la colpa la matrigna ha sparso la voce che Jenůfa sia partita per Vienna, mentre l’ha tenuta segregata in casa durante la gestazione e il parto. E ora prega Dio che si prenda il piccino. Visto che questo non succede e che il padre naturale rifiuta il matrimonio mentre l’altro pretendente la sposerebbe ma senza il figlio, la donna arriva alla folle decisione di far sparire nel ghiaccio il piccino.
Il gioco attoriale è di grande efficacia e la tensione raggiunge l’acme quando sotto i nostri occhi avviene lo svelamento dell’infanticidio, nel libretto la scoperta avviene fuori scena. Dal foro nel pavimento viene estratta la copertina di lana rossa che la ragazza aveva realizzato per il piccolo e quello straccio sgoccioante è un’immagine ben più forte di quella di un cadaverino congelato. Alla terribile confessione della matrigna segue l’intensissimo finale, quando Laca e Jenůfa lasciano il freddo ambiente ed escono verso un sole accecante di speranza.
L’emergenza sanitaria obbliga a distribuire il coro nella platea e nelle balconate della Staatsoper unter den Linden. Un’occasione per il registra di evidenziarne il ruolo in quest’opera di Janáček: il coro siamo noi, è la società ipocrita che guarda dal di fuori e giudica. La realizzazione della scenografia è come sempre impeccabile e Paolo Fantin è coadiuvato dal teatralissimo gioco luci di Alessandro Carletti e dai giusti costumi di Carla Teti, il Wonder Team che rende gli allestimenti di Damiano Michieletto ogni volta un unicum di grande coerenza e spettacolarità.
Janáček provasincera pietà per i suoi martoriati personaggi, ma non ne ha per il loro impegno vocale, soprattutto per i due personaggi maschili,che sono costretti a una tessitura impervia che non permette la realizzazione di mezze voci e di particolari sfumature. La loro è un’espressione gridata, furiosa che ben rende il carattere debole e superficiale del ragazzone Števa, innamorato della bellezza epidermica che una cicatrice può compromettere, e dell’introverso ma impulsivo Laca, uno di quei contadinotti grezzi e di poche parole che possono diventare pericolosi se perdono la pazienza ma che sono anche capaci di slanci di grande generosità. Perfettamente aderenti ai loro personaggi sono i due interpreti: Ladislav Elgr ha fatto di Števa uno dei suoi ruoli di elezione grazie alla lingua madre e alla straordinaria presenza scenica. Il suo canto non conosce bellurie e le frasi gli vengonocome strappate fuori dai denti, con una rabbia a stento trattenuta che Michieletto evidenzia quando il giovane alza minaccioso il pugnoverso chi gli dice qualcosa che lui non vuole sentirsi dire o quando si accanisce furioso col coltello su unblocco di ghiaccio.Con la sua presenza impacciata Stuart Skelton è un Laca che nessuno amerebbe, se non costretto. Il tenore australiano sfodera mezzi imponenti e una proiezione della voce che alla fine dell’opera sa piegare in un’espressione più sensibile. Il trio delle donne è dominato dalla Kostelnička, la vera protagonista dell’opera (che in origine si chiamavaLa sua figliastra e con questo titolo venne conosciuta in patria). È Evelyn Herlitzius a prendere in carico questo personaggio che si chiama Petrona Slomková ma che nell’opera viene sempre detta la sacrestana (kostelnička), donna dalla psiche turbata da circostanze esistenziali particolarmente avverse (2). Il soprano tedesco imprime la sua impronta a un personaggio tra i più forti dell’opera del Novecento, in cui si sono cimentate le più grandi cantanti. Nella performance magistrale della Herlitzius sotto una superficie di freddezza freme un grande temperamento, ma piuttosto che l’imponente impenetrabilità, del personaggio mostra il lato più umano. La sua vocalità mette a frutto una tecnica a prova di Strauss, Wagner e Beethoven, i compositori più frequentati. Anche Camilla Nylund, soprano finlandese,ha nella sua carriera lo stesso repertorio, ma in parti più liriche (Agathe, Elisabeth, Sieglinde, Marschallin, Arabella, Ariadne…). Qui mostra tutta la sua sensibilità in questo sfortunato personaggio che raggiunge il culmine dell’emozione nell’Ave Maria del secondo atto, una delle pagine più preziose del teatro novecentesco. Il suo è un magnifico debutto nella parte. La terza donna è la fragile vecchia Buryjovka, qui il glorioso mezzosoprano Hanna Schwarz, sorta di Elena Zilio tedesca.
Fin dall’iniziale ritmo incalzante dello xilofono su cui si adagia il danzante tema dei violinisi capisce che la bacchetta di Sir Simon Rattle terrà desta la tensione per tutta la serata. Anche i momenti di silenzio sono carichi di un’inquietudine che si placa solo nelle pagine più liriche, come l’assolo di violino quando Jenufa contempla alla finestra la notte che avanza. Le asperità novecentesche della partitura sono comprese e risolte in una visione di grande lucidità che conferma questo direttore inglese, ex percussionista, interprete ideale per il repertorio di quest’epoca. Jenůfa torna a Berlino cinque anni dopo la produzione della Deutsche Oper, anche allora il maestro concertatore era un direttore inglese, Donald Runnicles, che aveva scelto la versione del 1908 invece di quella originale del 1904.
Michieletto sarà tra pochi giorni alla Scala per un altro lavoro composto negli stessi anni in cui ha visto la luce Jenůfa, ossia la Salome di Richard Strauss.
(1) Il ricco programma di sala (scaricabile gratuitamente dal sito del teatro) oltre a un’interessante intervista col regista sulla produzione, contiene uno schema della famiglia Buryja utile per districarsi nella complessa parentela dei personaggi.
(2) Ricevuta un’educazione assai severa dal padre, alla sua morte deve accudire la madre e quindi, non più una ragazzina, si innamora di Toma Buryja, un uomo bello e ricco. Ma lui sposa un’altra, chiamata Jenůfa, chemuore partorendo una bimba a cui viene attribuito lo stesso nomedella madre. Allora è Toma a cercare Petrona, la quale decide di sposarlo, attirandosi così mille maledizioni dalla madre, che non può sopportare quel poco di buono. La stessa Petrona deve presto pentirsi del matrimonio, viste le abitudini del marito, che beve e perde tutte le sue sostanze al gioco e a lei riserva solo maltrattamenti. Per di più lei ha scoperto di non poter avere figli e da questa frustrazione nasce un amore possessivo per la piccola Jenůfa, che è l’unica cosa che le rimane alla morte del marito.
Jenůfa possiede già tutte le peculiarità dello stile del compositore moravo e del suo inimitabile teatro, compresa quella tensione ritmica, inesorabile come lo scandire del tempo, che sentiamo fin dalle prime battute dell’ouverture scandite allo xilofono e che non sfigurerebbero nella colonna sonora di un film di Hitchcock. Col tempo è diventata la più famosa e la più rappresentata delle opere del compositore moravo.
Questa produzione proviene dal Teatro Real di Madrid ed è diretta con grande senso della partecipazione da Ivor Bolton che bilancia a meraviglia i passaggi lirici con i vigorosi momenti percussivi, i gai accenni di danza dei pochi momenti lieti con i terribili lunghi silenzi della splendida partitura.
In scena un cast che comprende cantanti di varia nazionalità. Inglese è l’interprete titolare, Amanda Roocroft, forse non abbastanza giovane per la parte, ma ottima vocalmente e scenicamente in un ruolo in cui viene ormai identificata. Estremamente toccante la sua preghiera del secondo atto, che non sfigura per intensità espressiva e bellezza accanto a quella della Desdemona di Verdi.
Americana è la Kostelnička di Deborah Polaski, sempre molto trattenuta e ben lontana dal modello che aveva in Naděžda Kniplová l’esponente più illustre del passato. Il soprano drammatico del Wisconsin lascia alla forza delle parole la spaventosa espressione di questo tremendo personaggio: «Oh quanto ho pregato perché il piccolo non venisse alla luce… Invano! È da una settimana che respira e non dà segno di voler morire». Il suo è un personaggio talmente e terribilmente umano che rende quasi comprensibile la sua turpe azione. Indicibilmente strazianti sono la sua confessione e il successivo addio alla figliastra prima di quello che è uno dei più bei finali d’opera di tutti i tempi, con quell’esile promessa di felicità suggerita dall’ondeggiante motivo in terzine di biscrome dell’arpa sostenuto dalle struggenti note dei violini.
Slovacco è Miroslav Dvorský, Laca, che però risulta il meno convincente di tutti ed è inutilmente stentoreo. Austriaco infine Nikolai Schukoff, gagliardo Števa, con quella seducente faccia da schiaffi perfettamente in linea col personaggio.
La messa in scena di Stéphane Braunschweig è del tutto spoglia e la scena nuda non distrae certo dal dramma umano che vi si svolge, ma non offre neppure alcun appiglio visuale alla rappresentazione. Soltanto pochi particolari fanno riferimento all’ambientazione: il vaso di rosmarino, un lettino bianco, quattro banchi da chiesa, le pale di un mulino che escono dal pavimento ruotando minacciose. Nero e bianco sono i soli colori presenti – anche Jenůfa dopo l’abito bianco veste un luttuoso nero pure per il suo matrimonio – unica eccezione il rosso delle uniformi delle reclute e della croce latina. Di gusto discutibile, anche se di facile teatralità, la pioggia di paillettes sulla culla vuota. Efficace e determinante in questa nudità scenica è il ruolo delle luci affidate a Marion Hewlett.
Christof Loy e lo scenografo Dirk Becker portano in scena il lavoro di Janáček con estremo rigore e fedeltà: non c’è suggerimento del libretto che non venga rispettato e molto è affidato alla attorialità dei cantanti ripresi in primo piano da Brian Large con la solita eccezionale professionalità. Del cast di questa ripresa di due anni prima di Jenůfa il nome più conosciuto è quello di Jennifer Larmore, una Kostelnička molto umana che anche in questa lingua a lei ostica riesce a delineare con grande intensità uno dei personaggi più sconvolgenti del teatro musicale del Novecento: non una vecchia irrancidita, ma una donna dai forti sentimenti ed è intorno a lei che ruota la lettura del regista (1): è lei infatti la donna in nero che viene fatta entrare in una nuda stanza da una guardia carceraria prima dell’inizio della musica. La cella si trasforma presto nella camera di Jenůfa, aperta sull’esterno, un campo di grano appassito. La ragazza arriva con la sua pianta di rosmarino e la sagrestana rivive in un flashback la vicenda che l’ha portata lì. Nel secondo atto il campo è coperto di neve, un’abbagliante e gelida distesa bianca. Nel finale del terzo atto Jenůfa e Laca escono invece verso un ignoto buio. Non c’è alcun accenno al folclore boemo, appena si capisce che siamo in un’ambiente rurale, i costumi sono moderni, la scenografia essenziale e minimalista: una scena costituita da una camera vuota con un tavolo e una sedia. Nient’altro. I personaggi sono messi a nudo con le loro emozioni in questa scatola impietosamente claustrofobica.
L’esperienza essenzialmente belcantistica del mezzosoprano americano non impedisce alla Larmore di infondere la giusta drammaticità al suo personaggio, così che anche nei momenti più concitati non viene mai meno un canto magnificamente timbrato e proiettato. La Jenůfa di Michaela Kaune sviluppa un’espressività più lirica che raggiunge l’apice nella preghiera del secondo atto (una delle più belle Ave Marie messe in musica) e nel finale, in cui quasi trasfigurata affronta il suo nuovo destino, ora non più sola. Nel cartellone un altro nome conosciuto è quello di Hanna Schwarz, qui una vecchia Buryjovka di intensa presenza scenica. E a proposito di presenza scenica, ne ha da vendere Ladislav Elgr, che porta sul palco uno Števa convincentemente caratterizzato nella sua immatura incoscienza dove il personaggio è perfettamente messo a fuoco nella gestualità e nel canto fortemente idiomatico ben reso dal giovane tenore. Un po’ sbiadito al suo confronto è il Laca di Will Hartmann che per di più dimostra qualche difficoltà nel registro acuto.
La particolare strumentazione è messa in luce con evidenza dalla bacchetta di Donald Runnicles, direttore musicale del teatro, che sceglie opportunamente la versione del 1908 invece della revisione di Kovařovic per la prima praghese. Questa scelta mette in evidenza quell’estetica della Kargheit (frugalità) di cui parla il direttore a riguardo della musica del compositore moravo: un dosato equilibrio tra melodia e frammento, ritmo parlato e ritmo musicale e tra i vari timbri individuali. Kovařovic ne aveva smussato le asperità, usando ad esempio corni invece dei tromboni, che qui riacquistano la loro cruda sonorità. E giusta è sembrata a questo riguardo la lettura di Loy che non interpreta in modo troppo personale il dramma, non lo decostruisce, al contrario costruisce una semplice ma efficace cornice che lo contiene e amplifica, come la cassa di risonanza di uno strumento a corde.
Il video è quello contenuto nel DVD ArtHaus in commercio.
(1) Nel suo paese d’origine Jenůfa è spesso messa in scena come Její pastorkyňa (La sua figliastra), il titolo originale della pièce di Gabriela Preissová da cui è tratta la terza opera di Janáček, titolo che assegna alla sagrestana un ruolo altrettanto protagonistico nella vicenda.
Janáček interpretato da chi ha nelle vene il suo stesso sangue
Leoš Janáček a Brno è come Giuseppe Verdi a Parma: una gloria cittadina a cui dedicare un festival annuale. Ma le analogie finiscono lì perché la città morava al suo illustre figlio ha intitolato anche un nuovo teatro che si aggiunge al glorioso vecchio teatro d’opera – cosa che manca alla cittadina emiliana.
Jenůfa è il lavoro che ha fatto conoscere Janáček al mondo ed è la sua opera più eseguita. La collaudata produzione di Martin Glaser torna ora sulle tavole dello Janáčkovo Divadlo (Teatro Janáček) e la sua stilizzata messa in scena disegnata da Pavel Borák ben si adatta alle linee moderne e tese della sala. Se il primo atto ancora risente di una certa tradizione illustrativa, seppure depurata dagli eccessi decorativi e realistici – l’ambiente rurale è suggerito dalla folta chioma di alberi in alto e dalla miriade di mele sparse sul palcoscenico pronte per essere trasformate in sidro – il secondo, ambientato nella casa della Kostelnička, è una serie di asettiche stanzette replicate tutte uguali in cui vivono personaggi che non comunicano tra loro. La serialità è spinta all’eccesso: quando una porta viene chiusa o aperta in una stanza, l’analoga porta viene aperta o chiusa in tutte le altre. Un crocifisso, un’icona della Madonna, una sedia, un tavolo con un piatto di frutta (mele!), una tazza per il sonnifero e una mensola vuota sono gli unici arredi. Dietro la porta di fondo si intravede la culla del bambino. Ancora più essenziale la scenografia del terzo atto: una grande tavola incorniciata da una struttura di legno serve per il matrimonio di Jenůfa e Laca, ma nel finale, su quello struggente motivo ondulante dell’arpa, il tutto scompare inghiottito nel pavimento lasciando i due giovani completamente soli sul grande palcoscenico.
L’asciuttezza è la caratteristica vincente di questo allestimento che lavora per sottrazione pur senza piegare la drammaturgia a significati estranei. Pochi i colori e solo nei bei costumi di Markéta Oslzlá-Sládečková che danno il giusto tocco folklorico alla vicenda e sono utilizzati in senso espressivo: il rosso di Karolka, Števa, del sindaco e della moglie; il nero di Jenůfa, Laca, della nonna e della Kostelnička; il bianco delle ragazze incinte nel primo atto e delle damigelle nell’ultimo. I ruoli sociali sono così chiaramente denotati.
Il direttore Marko Ivanović a capo dell’orchestra del teatro dà della partitura una lettura di grande lucidità ma anche sensibilità, non trascura gli strani impasti strumentali sperimentati dal compositore e i colori lividi di certi momenti. Lo asseconda un cast navigato che ha nelle interpreti femminili il meglio: Pavla Vykopalová è una intensa Jenůfa, e Szilvia Rálik la Kostelnička, qui meno inquietante del solito e molto umana. Un po’ troppo stentoreo talora il Laca di Jaroslav Březina, giustamente fatuo lo Števa di Tomáš Juhás, entrambi vocalmente generosi.
È comunque un’emozione ascoltare Janáček interpretato da chi ha nelle vene il suo stesso sangue.
«All’inizio del Novecento, il poetico realismo di Jenůfa giungeva in ritardo per la piazza di Praga. Quest’opera, gonfia d’orgoglio nazionalistico, che intendeva portare sulla scena una vicenda naturalistica della campagna slovacco-morava, avrebbe preteso di imporsi alla cultura praghese negli anni in cui essa iniziava a incapricciarsi di Impressionismo, Simbolismo e Decadentismo» (Franco Pulcini).
È probabilmente da questa considerazione, travisata, del più qualificato esperto di Janáček in Italia che parte l’idea del discutibile, a dir poco, allestimento di Alvis Hermanis presentato alla Monnaie un anno fa e ora sulle scene del Comunale di Bologna.
I tre atti dell’opera coprono un periodo che va dalla fine estate del primo atto (in cui veniamo a conoscenza del legame fra Števa e Jenůfa), all’inverno del secondo (che fa da sfondo alla nascita e alla uccisione del piccolo), alla primavera del terzo (in cui viene scoperto il cadaverino cui segue il dramma della sacrestana, la punizione morale di Števa e il congiungimento di Laca e Jenůfa).
La lettura del regista lèttone porta alle massime conseguenze le diverse atmosfere proposte dai tre atti differenziandoli in maniera completamente radicale. Nel primo e nel terzo il villaggio rurale diventa la vetrina di un negozio di souvenirs del folklore slovacco bagnato da una irreale luce dorata. I cantanti hanno le movenze legnose delle marionette e sono vestiti secondo un gusto iper-favolistico in costumi oversize, indubbiamente bellissimi, costati una cifra scandalosa, di Anna Watkins, i quali annullano completamente il tema sociale e la partecipazione emotiva dei personaggi, elementi imprescindibili del lavoro di Janáček, perdendone completamente il senso. L’onnipresenza di ballerine che si inseriscono come un fregio in un poster Art Nouveau e accompagnano perennemente l’azione con le coreografie stilizzate di Anna Sigalova, completa una visione operettistica della vicenda che non manca invece di momenti di crudezza: lo sfregio della guancia di Jenůfa nel primo atto, l’annuncio del ritrovamento del cadaverino nel terzo. La scena è divisa orizzontalmente in più piani con i cantanti solisti in proscenio, il coro e le ballerine al secondo, mentre sui tre lati si avvicendano illustrazioni ispirate al disegnatore praghese Mucha proposti nella videografica, peraltro eccellente, di Ineta Sipunova.
Completamente diverso lo stile scenico del secondo atto, ambientato in un tugurio iperrealista, uno squallido monolocale in cui entrano personaggi del tutto differenti da quelli che abbiamo visto: trasandati e luridi, qui hanno gesti naturalistici, se non quasi espressionistici. Licenze incomprensibili nella drammaturgia di Christian Longchamp e del regista sono il bambino cullato dal padre Števa, che nell’originale neanche ha il coraggio di entrare nella camera dove dormono il figlio e la madre e il finale d’atto horror con la donna che, dopo aver ucciso il nipote, in una crisi isterica riempie il freezer con i suoi indumenti.
Il ritorno all’atmosfera irreale del terzo atto costituisce la seconda doccia scozzese della serata, e anche qui risalta l’effetto grottesco del corpicino “frutto della colpa” che passa inspiegabilmente dalle braccia di Jenůfa a quelle della matrigna che si avvia scortata dalla polizia. (1)
Fortunatamente ben diversamente sono andate le cose sul piano musicale. Della sensibilità di Juraj Valčuha e della sua predisposizione verso la musica del suo paese non si aveva il minimo dubbio. E infatti la sua concertazione delle voci e dell’orchestra – geniale l’idea di piazzare nella barcaccia a sinistra lo xilofono che scandisce ossessivamente fin dall’inizio il tempo inesorabile ma immoto del dramma – è stata di altissimo livello.
Il personaggio della Kostelnička è stato affidato al timbro drammatico del grande soprano Ángeles Blancas Gulín, dalla vocalità più temperamentosa che sopraffina e dalla tormentata presenza scenica. Andrea Danková è una Jenůfa a tratti infantile e misurata pur nella ricchezza di accenti e colori, ma non commuove veramente. Brenden Gunnell è, pur imbozzolato nel ricchissimo costume, scenicamente presente e vocalmente radioso e appassionato Laca. Il debole e arrogante Števa ha trovato in Aleš Briscein un efficace interprete.
(1) Mi conforta che il mio giudizio negativo venga condiviso da un grande esperto come Michele Gerardi.
La più famosa opera del compositore moravo nella versione originale
Arrivare al successo a sessant’anni denota una costanza e un’umiltà che Leoš Janáček ha dimostrato ampiamente. Osteggiata per lungo tempo, a distanza di quasi ventidue anni dalla scrittura delle prime pagine, finalmente il 26 maggio 1916 Její pastorkyňa (La sua figliastra, il titolo Jenůfa, dal nome della protagonista,prenderà piedi più tardi) andava in scena nella capitale, al Národní Divadlo (Teatro Nazionale) di Praga e poco conta che parte del successo ottenuto fosse dovuto al sentimento anti-austriaco che si respirava nella città boema e che inconsciamente la vicenda morava dall’ambientazione contadina sembrava alimentare. Non che fossero mancate rappresentazioni dell’opera prima di quella sera, ma il debutto era avvenuto nel 1904 nella sala da ballo di un caffè di Brno con un organico del tutto insoddisfacente in cui mancavano, tra gli altri, l’arpa (!), il corno inglese e il clarinetto basso. E le riprese nei teatri della città morava non è che fossero andate meglio. La consacrazione praghese poneva fine a tanti anni di amarezze e delusioni.
Její pastorkyňa (1890) è anche il titolo della pièce di Gabriela Preissová da cui è tratta la terza opera di Janáček. Terribile vicenda di un infanticidio, l’opera è lugubremente dedicata alla giovane figlia del compositore, Olga, morta l’anno precedente. Jenůfa è l’ingenua vittima della società rurale in cui il ricco e bello Števa, di cui la ragazza è innamorata, finisce per “metterla nei guai” (una volta si diceva così) e si rifiuta di maritarla. La matrigna, per salvare l’onore, si sbarazza del neonato, in barba alla pietà cristiana continuamente professata. Scoperto il cadaverino, la vecchia confessa il delitto e alla povera fanciulla non resta che il matrimonio riparatore con quel Laca (pronuncia Latza) che da sempre l’ha amata e che dopo averle messo i vermi nel vaso di rosmarino l’ha pure sfregiata! I particolari in cronaca. (1) (2)
Atto primo. Jenůfa è la figlia adottiva della Kostelnicka, l’austera sagrestana della chiesa di un paesino della Slovacchia morava. È amata da due fratellastri: il ricco Števa, del quale è promessa sposa, e il povero Laca, prostrato da un rabbioso dolore per non essere il preferito. Jenůfa attende un figlio da Števa e aspetta al mulino il suo ritorno dalla commissione di leva. Se egli dovesse partire per il servizio militare e non si potesse celebrare subito il matrimonio, la sua gravidanza verrebbe scoperta, a suo disonore. È tesa e preoccupata. La vecchia Buryjovka la invita ad aiutarla nel lavoro. Laca la stuzzica, senza riuscire a suscitare interesse in lei. Jenůfa si mostra una giovane buona e istruita: ha infatti insegnato a scrivere al pastorello Jano, che giunge entusiasta a mostrarle i suoi progressi. Laca confida al mugnaio che spera di veder partire soldato il rivale Števa; invece questi è stato esonerato e arriva al mulino completamente ubriaco per la felicità con un gruppo di musicanti. Jenůfa lo richiama alle proprie responsabilità, ma Števa non ha voglia di pensare al matrimonio. Tutti danzano, ma la festa viene interrotta da Kostelnička, che, vedendo Števa ubriaco, impone che il matrimonio con Jenůfa sia rimandato di un anno per verificare se il comportamento del fidanzato mostrerà un miglioramento. Laca torna a tormentare Jenůfa; le dice che Števa in lei ama solo il suo splendido volto, non il cuore. Ella, esasperata, lo fa ingelosire a tal punto che questi le sfregia la guancia con un coltello.
Atto secondo. Alcuni mesi dopo. Jenůfa ha partorito da pochi giorni il bambino. Tutti la credono a Vienna a servizio, ma lei ha vissuto nella casa della matrigna, nascosta agli occhi del paese. Jenůfa è provata ma felice per l’evento. La matrigna la manda a dormire dopo averle somministrato un forte sonnifero. Poi convoca Števa per convincerlo a sposarla. Ma questi non ne vuole sapere: Jenůfa non le piace più con il volto sfregiato. È pronto a pagare per il mantenimento del figlio, ma non vuole che la paternità venga svelata, anche perché nel frattempo si è fidanzato con la figlia del sindaco. Kostelnička convoca allora Laca, che si mostra molto cambiato. È serio, responsabile e pentito del suo gesto: si dichiara pronto a sposare Jenůfa, che continua ad amare con grande devozione. Ma quando apprende da Kostelnička che la figliastra è appena divenuta madre, si irrigidisce per un attimo all’idea di accettare con lei anche un figlio di Števa. Allora Kostelnička gli racconta che il bambino è morto e lo allontana con una scusa. Dopo qualche momento di straziante riflessione, Kostelnička decide di sopprimere il bambino ed esce con lui nella tempesta di neve che infuria. Jenůfa si sveglia. È allarmata per la scomparsa del bambino e prega la Madonna. Al suo ritorno Kostelnička mente ancora una volta: le narra che durante i due giorni in cui ella ha dormito il bambino si è ammalato, è morto ed è stato da lei seppellito. Convince quindi Jenůfa ad accettare le nozze con Laca, che giunge per dichiararle il suo amore. Mentre i due si parlano, Kostelnička appare scossa e in preda a oscuri presentimenti di morte.
Atto terzo. Nella abitazione di Kostelnička fervono i preparativi per il matrimonio di Jenůfa e Laca. Giunge anche la famiglia del sindaco con Karolka, la nuova fidanzata di Števa, mentre alcune ragazze si esibiscono in una danza popolare nuziale. Gli sposi si inginocchiano per ricevere la benedizione della nonna e anche Kostelnička, da tempo vittima di crisi nervose per il rimorso del suo delitto, si accinge a benedirli. Ma in quel momento viene data tumultuosamente la notizia che il ghiaccio del ruscello ha restituito il cadavere di un bambino lì abbandonato: Jenůfa riconosce gli indumenti del suo bambino. La folla la vuole linciare, ma Laca la difende; nel parapiglia generale emerge la voce della Kostelnička, che discolpa Jenůfa e si confessa autrice dell’infanticidio, fra lo sbigottimento generale. Mentre la donna viene consegnata alla giustizia, Jenůfa le accorda il suo perdono; invita quindi Laca ad andarsene insieme a tutti gli altri, ma egli le resta accanto, rinnovandole per l’ennesima volta il suo amore: i due giovani si abbracciano e si incamminano verso la loro futura vita in comune.
Ben tre sono le versioni dell’opera di Janáček: 1903 la prima, 1908 la seconda con la pubblicazione dello spartito, 1916 la terza con le correzioni all’orchestrazione imposte dal direttore musicale del Národní Divadlo Karel Kovařovic. Jenůfa aveva un’ouverture, ma Janáček decise di non utilizzare quella composta che da allora è diventata un pezzo da concerto a sé stante col titolo di Žárlivost (Gelosia).
La produzione del 1989 al Festival di Glyndebourne (che seguiva quella dell’anno precedente di Káťa Kabanová) porta in scena la prima versione ed è affidata al regista Nikolaus Lehnhoff. Assieme allo scenografo Tobias Hoheisel, Lehnhoff allestisce una scena claustrofobica che nel primo atto rappresenta una corte angusta e chiusa e negli altri due atti una camera stretta e lunga in cui la statura dei personaggi e il loro rovello psicologico vengono ingigantiti al massimo (forse il palcoscenico del vecchio teatro non avrebbe comunque permesso tanto di più). Stupendo il finale, quando alla confessione della matrigna il paese convenuto per il matrimonio sfoga la sua rabbia selvaggia mettendo a soqquadro la povera stanzetta e i due giovani su quelle macerie decidono di mettere insieme le loro vite per affrontare con meno angoscia il futuro sul ritmo cullante e tristemente struggente dell’arpa e dei violini. L’ultima immagine è quella della misera pianta di rosmarino che sembra prendere nuova vita dal sole che filtra dalle finestre di una tanto attesa primavera.
Nel ruolo del titolo Roberta Alexander, pur con una voce un po’ troppo vibrata, dimostra grande sensibilità per il personaggio che tratteggia in tutte le sue sfumature. Vocalmente non impeccabile non è neanche Philip Langridge, ma il suo Laca è costruito con grande intelligenza e partecipazione. Presenza scenica possente, da attrice consumata che ha bisogno solo di un accenno di sguardo, di un gesto trattenuto per esprimere tutto il tormento e il rimorso delle sue azioni è la Kostelnička di Anja Silja che giganteggia con una vocalità inesausta. Un po’ meno soddisfacente, ma comunque convincente, è lo Števa di Mark Baker.
Direzione musicale partecipe e dalla giusta tensione drammatica è quella di Andrew Davis. Purtroppo la resa sonora del disco non è ottimale, con un certo distacco tra il livello e la qualità sonora dell’orchestra e le voci dei cantanti. Ancora peggio la qualità video con colori che sbavano, effetto scia nelle figure in movimento e immagini granulose che denunciano la provenienza da nastro VHS della registrazione.
Nessun extra, nessun opuscolo e sottotitoli, fissi, solo in inglese.
(1) Ecco i complicati rapporti di parentela dei personaggi. La vecchia nonna Buryjovka ha avuto due figli: il primogenito è il mugnaio Buryia che ha sposato la vedova Klemeň (che aveva già un figlio, Laca) con la quale ha generato Števa, e il secondogenito Toma Buryja che dalla prima moglie ha avuto Jenůfa e poi ha sposato la sacrestana (Petrona Slomková). Quindi Laca Klemeň e Števa Burya sono fratellastri e Jenůfa è loro cugina e figliastra della sacrestana. Laca e Števa sono figli della stessa madre, ma di padri diversi: Laca è più anziano, ma tutta l’eredità dei Buryja (il mulino e proprietà connesse) va al fratellastro per ragioni di maggiorascato e a Laca viene semplicemente concesso di lavorare al mulino come qualunque altro estraneo. Da parte sua Jenůfa è figlia di Toma e di una donna (Jenůfa, figlia di un albergatore) morta poco dopo averla data alla luce ed è per questo che la bimba ne ha preso il nome. Petrona Slomková ha sposato Tóma da vedovo e alla morte di costui ha trovato impiego come sacrestana (kostelnička) presso la locale cappella allevando Jenůfa come una figlia. Qui lo schema pubblicato sul programma di sala della Staatsoper unter den Linden per la Jenůfa del febbraio 2021.
(2) Sulla personalità dei protagonisti dell’opera si legga questo arguto intervento in rete da cui estrapoliamo il seguente lungo brano. «La figura centrale è fuor di dubbio quella della Kostelnička, poiché è lei che determina, nel bene e nel male, ogni singolo sviluppo del dramma che si consuma nella sperduta Veborany. Lo stesso titolo della fonte di Janáček (che il compositore originariamente trasferì anche all’opera) lo testimonia senza ombra di dubbio: Jenůfa vi compare implicitamente, indicata come la sua (della Kostelnička, appunto) figliastra, quindi l’enfasi è sulla titolare i cui comportamenti evidenziano una chiara instabilità psichica, che un suo conterraneo e contemporaneo avrebbe potuto analizzare e magari curare applicando le sue recenti scoperte in tema di psicanalisi: peccato che Petrona Slomková non abbia avuto la ventura di passare a Příbor per farsi visitare da tale Sigismund Shlomo Freud. Certo, il suo equilibrio psichico doveva essere stato turbato da tutta una serie di circostanze esistenziali particolarmente avverse. Dunque, vediamo: Petrona riceve un’educazione assai severa dal padre (para-medico molto rispettato in paese) e alla morte di lui deve accudire la madre (donna pia e in perenne ansia che qualche uomo le porti via la figlia). A 27 anni – quindi non più una ragazzina – conosce Toma Buryja (bello e pure ricco!) e se ne innamora. Ma lui sposa un’altra (Jenůfa-sr) che muore partorendo una bimba (Jenůfa-jr). Allora è Toma a cercare Petrona, la quale decide di sposarlo, attirandosi così mille maledizioni dalla madre, che non può vedere quel poco di buono (la suocera Buryjovka invece è ben felice che una donna proba tenga a bada il figlio scapestrato). La stessa Petrona deve presto pentirsi del matrimonio, viste le abitudini del marito, che beve e perde tutte le sue sostanze al gioco e a lei riserva solo maltrattamenti. Per di più lei ha scoperto di non poter avere figli, e da questa frustrazione nasce un amore possessivo per la piccola Jenůfa, che è l’unica cosa che le rimane alla morte del marito, ucciso accidentalmente dalla fucilata di un cacciatore. La sua rettitudine e moralità le fa ottenere il posto di sacrestana (Kostelnička). Quando i due fratellastri Števa e Laca cominciano a frequentare Jenůfa, ormai adolescente, le simpatie di Petrona vanno istintivamente a Laca: primo perché lui è (precisamente come lei stessa) estraneo alla famiglia Buryja e quindi penalizzato (tutta l’eredità va a Števa) e secondo perché è un ragazzo con la testa a posto, al contrario del fratellastro che assomiglia – quanto a cattive abitudini – allo zio Toma. Naturale quindi che lei sia contraria alla relazione della figliastra con Števa, ma quando fra i due sopravviene il ‘fatto compiuto’ tutta la sua esistenza è volta al perseguimento del bene (o del… minor male) di Jenůfa: così la nasconde fino al parto e contemporaneamente comincia a sperare che il bimbo (del peccato, quindi ‘sbagliato’) non veda la luce; e quando la vede, dice direttamente in faccia alla figliastra di augurarsi che Dio le tolga quel figlio dalle mani. Per rispetto delle convenzioni di cui è impregnata, cerca comunque di convincere il padre ad addivenire alle classiche nozze riparatrici. Mancato questo obiettivo, la sua decisione è ormai presa: sopprimere il bimbo (qui non è da escludere un inconscio senso di invidia per la figliastra, che un figlio lo ha avuto, mentre a lei era stato negato…).
Quanto alla povera protagonista, lei è una donna sfortunata fin dalla nascita, per la perdita della madre e più tardi del padre: rimane quindi alla mercè di una matrigna tanto possessiva quanto amorevole, che di fatto cerca di sequestrarle ogni libertà di pensiero e di movimento, e successivamente di indirizzare a modo suo la spinosa gestione della nascita e del futuro del nipotino. La stessa conclusione della vicenda ce ne mostra l’intrinseca debolezza di carattere e la subalternità di fronte ad eventi che appaiono decisamente più grandi di lei.
Il personaggio di Laca, come detto, ha qualche punto di contatto con quello della Kostelnička: è figlio della stessa madre di Števa, del quale però non condivide la fortuna, né quella economica, né quella sentimentale, sempre preceduto sul traguardo dal più giovane e privilegiato fratellastro. Naturale che provi risentimento verso quest’ultimo, ma anche verso Jenůfa, rea di preferire il bello e ricco (ma anche vuoto e inaffidabile) Števa a lui che è buono e fedele, ma povero. E così la sua frustrazione sfocia nell’atto violento di sfregiare una guancia della ragazza che gli si nega. Da notare al proposito che sono proprio lui e la matrigna di Jenůfa a rendersi responsabili dei due crimini che caratterizzano la vicenda.
Števa è il classico figlio-di-papà, già nato con la camicia e al quale va (fino a un certo punto!) tutte bene: si prende l’eredità, è il prediletto della cugina, ha fortuna con le donne, antepone la bella vita ai doveri familiari, riesce ad evitare il servizio militare e infine può scegliersi in moglie la figlia della massima autorità locale! La fine ingloriosa che gli viene riservata sembra quasi una giusta punizione divina per il suo comportamento irresponsabile.
Per ultima, nonna Buryjovka: è un personaggio opaco, privo ormai di qualunque iniziativa; una vecchia che non riesce a comprendere che il mondo sta cambiando e che subisce passivamente gli avvenimenti che accadono attorno a lei; non a caso è l’unica persona della famiglia ad essere assente dal secondo atto, dove si sviluppa tutto il dramma dei Buryja».
⸫
Jenůfa, Bolton/Braunschweig, Madrid, 4 dicembre 2009