L’Orfeo

Claudio Monteverdi, L’Orfeo

★★★☆☆

Monaco, Prinzeregententheater, 27 luglio 2014

(video streaming)

L’Orfeo umano, troppo umano di Bösch

Ci sono registi che hanno una specificità tale da sconfinare nella prevedibilità: dopo poche immagini, se non addirittura dopo aver visto alcune istantanee dello spettacolo, già si capisce con chi si ha a che fare. Due metteur en scène completamente diversi che rispondono a questa descrizione sono Robert Wilson e David Bösch. Del secondo, il giovane regista di Lubecca, già sappiamo che l’ambientazione sarà più o meno trash, i costumi contemporanei e trasandati, la recitazione vivace, la drammaturgia disinvolta.

L’Orfeo della Bayerisches Staatsoper messo in scena da Bösch è dunque ambientato in un panorama post-apocalittico (le scene sono di Patrick Bannwart) dove una comunità di hippie un po’ trucidi si spostano con l’iconico furgone Volkswagen T2. Un cartello indica nel 27 luglio 1974 la data della vicenda, il matrimonio tra Orfeo ed Euridice e l’incongrua lira è un regalo di nozze degli amici. Orfeo è il meno variopinto del gruppo –  ma sarebbe stato difficile immaginare Christian Gerhaher quale maturo “figlio dei fiori”. In questo desolato paesaggio lunare le margheritone che salgono da terra sembrano ventilatori dalle pale di latta i cui petali cadranno alla seconda morte di Euridice.

Se nella prima parte, gli atti primo e secondo, la drammaturgia di Rainer Karlitschek ben si adatta all’atmosfera spensierata della festa – il ballo, l’alcol, la droga , il sesso – nella seconda gli aspetti macabri da Halloween di periferia dell’oltretomba cominciano a mostrare la corda e il Plutone irsuto, lercio e dalle corna segate perde ogni nobiltà di dio degl’inferi. Inferi cui si accede con un ironico tappeto rosso. A questo punto diventa accettabile che Caronte sia su quello che è rimasto di un taxi.

Ivor Bolton guida la Monteverdi-Continuo-Ensemble rimpolpata con elementi della Bayerische Staatsorchester con classica compostezza e un robusto continuo. Chissà quale finale sceglierà il direttore, viene da domandarsi: la scena delle baccanti o la discesa di Apollo? Il secondo, ma scenicamente è del tutto insoddisfacente e completamente avulso dal testo senza proporne però una lettura alternativa convincente: l’Apollo che canta «Muovo dal ciel» è un barbone con stampella e vestito di stracci (che poi l’interprete abbia la metà degli anni di quello di Orfeo è un altro problema) e la soluzione che propone al “figlio” è di tagliarsi le vene e darsi la morte così da scendere con la sposa nella tomba. Un po’ troppo ordinario per un mito classico e per l’opera con cui nasce il melodramma, atto della cui rilevanza sembra importare meno che niente al regista.

Il cast è stratosfericamente dominato dall’Orfeo di Christian Gerhaher, che infonde nel recitar cantando la sua somma sensibilità liederistica: ogni parola ha il suo giusto accenno, il canto è quasi sempre a mezza voce, la dizione meglio di un italiano madrelingua – talmente giusta che salta all’orecchio una piccola imperfezione: ‘siéno’ invece di ‘síeno’, ma è veramente l’unica. L’Euridice di Anna Virivlansky non lascia il segno vocalmente, ma la parte è talmente ridotta e la presenza scenica compensa grandemente. Più convincente Angela Brower, Musica/Speranza dalle ali di cellophane, gli abiti sbrindellati e un triste ukulele nella valigia. Anna Bonitatibus è al solito Anna Bonitatibus, più che Messaggera/Proserpina, vibrato ed esposizione manierata sono quelli di sempre. Vocalmente un po’ sopra le righe il primo pastore di Mathias Vidal e giustamente impressionante il Caronte di Andrea Mastroni. Coro smilzo e talora un tantino sguaiato quello della Zürchner Singakademie.

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