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Georg Friedrich Händel, Rodelinda
★★☆☆☆
New York, Metropolitan Opera House, 3 dicembre 2011
(video streaming)
Rodelinda al MET, o della noia
Il regista Stephen Wadsworth per la produzione della Rodelinda händeliana al Metropolitan Opera House ha pensato bene che non potendola rappresentare “ai tempi suoi”, ossia il fosco medioevo, era meglio ambientarla nel tardo Settecento. Un secolo più elegante e fotogenico.
Eccoci quindi una scena buona per tutto, per Le nozze di Figaro o per Manon Lescaut, ricostruita con pignolo realismo da Thomas Lynch: una camera da letto (la sporcizia per terra, le lenzuola stropicciate, Rodelinda con il polso incatenato, il figlio Flavio, bambino che fa tenerezza, i piedini nudi, i giocattoli, la penna d’oca), una sontuosa biblioteca, un esterno polveroso soffuso di luce dorata, questi sono gli ambienti in cui si dipana l’azione. Il problema però è che il realismo della ricostruzione fa a pugni con l’estetica dell’opera seria barocca con le sue arie che interrompono l’azione, gli “affetti” codificati, i da capo. Le più riuscite produzioni di Rodelinda rifuggono infatti da una ricostruzione realistica e optano per una lettura simbolica o astratta. Qui la regia vera e propria consiste poi nel portare a spasso i costumi senza una particolare caratterizzazione psicologica dei personaggi e il risultato è uno spettacolo di una noia grandiosa.
Harry Bicket computa con precisione le note della partitura stando ben lontano da un qualsivoglia coinvolgimento. In scena Renée Fleming è una Rodelinda dalla dizione impenetrabile, della voce rimane lo smalto di una volta, ma niente più, anche il fraseggio non è quello che dovrebbe essere. Neppure Andrea Scholl è il Bertarido di ventitré anni prima, soprattutto per quanto riguarda i fiati. Imponente in tutti i sensi la Eduige di Stephanie Blythe. Rozzo il Grimoaldo di Joseph Kaiser, meglio l’Unulfo di Iestyn Davies. Tutt’altro che memorabile il Garibaldo di Shenyang.
C’è da chiedersi allora: perché?
⸪