Don Giovanni

foto © Andrea Ranzi

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Bologna, Comunale Nouveau, 26 maggio 2024

★★★★☆

Don Giovanni, burattinaio a spasso nei secoli

Forse è l’opera di Mozart che ha maggiormente stimolato i metteurs en scène più radicali: da quella “destrutturata” di Dmitrij Černjakov a Aix-en-Provence nel 2010 a quella ancora più recente di Romeo Castellucci a Salisburgo nel 2021, zeppa di simboli non sempre agevolmente decifrabili. 

Risulta quasi una sfida controcorrente quindi quella di mettere in scena in costumi settecenteschi il Don Giovanni da parte di Alessandro Talevi, che a Bologna l’anno scorso aveva ambientato Le nozze di Figaro in epoca moderna e che completerà qui la trilogia dapontiana con il Così fan tutte. Ma la sorpresa non è finita lì: quando, dopo le prime scene, entrano altri personaggi i costumi sono ottocenteschi e dopo ancora moderni!

«Se in quel primo capitolo della trilogia ho voluto dun­que svelare l’eternità delle passioni destinate a non tramontare nel tempo, in Don Giovanni ho deciso di sviluppare ancora di più questo concetto», dice il regista, «tenendo sempre presente che Don Giovanni è un archetipo e di conseguenza si può permettere il lusso di sedurre donne in qualsiasi secolo, attraversando il tempo e lo spazio». Ecco allora un portale passando attraverso il quale il seduttore può andare a spasso nel tempo per sedurre le sue belle. Se Donna Anna e Don Ottavio sono in severi abiti XIX secolo, Zerlina e Masetto vestono abiti cafonal contemporanei mentre lui, Don Giovanni, l’abito lo cambia a seconda dell’epoca. Il massimo si ha durante la festa in casa sua dove alla cacofonia delle tre orchestre in scena si aggiunge quella dei costumi (ideati da Stefania Scaraggi) e delle danze (coreografate da Danilo Rubeca): dietro la coppia in primo piano impegnata in un impeccabile minuetto un’altra coppia si muove sui passi di un tango e a destra gli altri invitati si dimenano in movenze rock. Nella cena finale le vittime di Don Giovanni, che abbiamo visto nei video di Marco Grassivaro dominarne la mente, entreranno dalle finestre, ognuna col suo costume, per condurre il dissoluto “non punito” là dove «c’è un mal peggior».

Ma una seconda forte idea domina la lettura di Talevi di questo “dramma giocoso”. Le relazioni personali in questa vicenda passano tutte solo e soltanto attraverso la figura del Cavaliere, è lui il mediatore unico con cui i vari personaggi si relazionano: Don Giovanni e il Commendatore; Don Giovanni e la coppia Donna Anna/Don Ottavio; Don Giovanni e Donna Elvira; Don Giovanni e la coppia Zerlina/Masetto; Don Giovanni e Leporello. Tra gli altri personaggi non ci sono rapporti particolari, certo a causa delle differenze sociali – di qua i nobili, di là i popolani – ma anche tra i nobili: Donna Anna e Don Ottavio vedono Donna Elvira non come una di loro, ma come una un po’ svitata arrivata dalla lontana Burgos. Insomma, Don Giovanni è il motore e la ragione d’essere degli altri personaggi che gravitano attorno a lui, è un burattinaio che muove e determina le azioni degli altri.

Ecco allora che il “portale del tempo” nel secondo atto si rimpicciolisce per diventare un teatro dei burattini in cui si affacciano in dimensioni ridotte gli altri personaggi. Un’idea non inedita – presente ad esempio nelle produzioni di Robert Carsen a Milano e di Chiara Muti a Torino – ma qui intelligentemente riproposta ed efficacemente realizzata, pur nelle limitazioni logistiche della succursale del Teatro Comunale chiuso per restauri e temporaneamente trasferito nella sala Comunale Nouveau della Fiera, una sala onestamente più adatta alle proiezioni cinematografiche. Un palcoscenico ridotto al minimo delle funzioni ha dettato le esigenze scenografiche che unitamente ai limiti di budget hanno costretto a utilizzare l’impianto scenico de Le nozze dello scorso anno, ossia un insieme di facciate montate su carrelli che formano i vari ambienti richiesti dalla vicenda, come l’esterno su cui si volge il duello col Commendatore o il cimitero dove da un loculo appare il viso dello stesso, defunto. Il tutto abilmente illuminato dalle luci di Teresa Nagel. La regia di Talevi è piena di piccoli sapidi particolari e gesti, sempre correlati alla musica però, con un gusto del teatro e una maestria nell’indirizzare verso una felice interpretazione attoriale e vivace presenza scenica i giovani interpreti che formano un cast omogeneo e di ottimo livello. 

Nella parte del protagonista scende in campo il basso argentino Nahuel di Pierro che dopo aver vestito i panni di Leporello ad Aix-en-Provence nel 2017 ora indossa quelli del padrone. Voce di bella proiezione e ricca di armonici, il suo è un Don Giovanni elegante e nobile, dal carattere un po’ cinico ma senza eccessi. Corretto, insomma, ma non memorabile. Timbro molto simile è quello di Davide Giangregorio, il Masetto della produzione di Livermore a Macerata, qui un Leporello di vivace presenza scenica e grande personalità. Per l’indisposizione di Ol’ga Peretjat’ko è subentrata con breve preavviso la Donna Anna del secondo cast, Valentina Varriale, che ha totalmente conquistato il pubblico con la sua sensibile interpretazione in una parte difficile che passa dai toni drammatici della prima scena al racconto ansimante «Era già alquanto | avanzata la notte» alle agilità della sua ultima aria solistica in risposta alle pressanti richieste dell’impaziente fidanzato, qui un René Barbera in stato di grazia che ha portato in scena uno dei migliori Don Ottavio per eleganza di stile e linea vocale. Molto brava anche Karen Gardeazabal, la Donna Anna di Macerata, tecnica impeccabile e bel fraseggio, ma forse un po’ più di temperamento nella sua Donna Elvira non avrebbe guastato. Efficace è la coppia dei giovani sposi, Zerlina una spumeggiante Eleonora Bellocci, Masetto un sanguigno Nicolò Donini. Il possente e autorevole Commendatore di Abramo Rosolen qualche brivido fra gli spettatori l’ha fatto scorrere.

Dalla stessa produzione de Le nozze di Figaro dell’anno scorso arriva Martijn Dendievel, giovane direttore belga che rifugge dai toni estremi e della partitura dà una lettura fedele, precisa e analitica, ma senza grandi trasporti e con tempi talora fin troppo dilatati – all’ultimo Muti, per intendersi – che trasformano l’Allegretto della serenata di Don Giovanni «Deh vieni alla finestra» in un estenuato Adagio. Qualche guizzo e qualche libertà in più, nelle riprese soprattutto, sarebbero stati graditi. 

Successo cordiale per tutti i fautori dello spettacolo con più insistenti applausi per il Don Ottavio di René Barbera e la Donna Anna di Valentina Varriale che nonostante l’avesse già cantata la sera prima non si è tirata indietro e ha generosamente salvato la recita.