Mese: ottobre 2025

Tod bei den Salzburger Festspielen

Sophie Reyer, Tod bei den Salzburger Festspielen (Morte al Festival di Salisburgo)

236 pagine, luglio 2025

Jedermann e l’uomo che morì due volte

Nel cuore dello splendore austro-mondano degli anni ’30, Sophie Reyer ci propone un affresco ricco, illuminato e oscuro insieme: il palcoscenico è quello del Festival di Salisburgo del 1937, la cornice un mondo che vive la sua ultima spensieratezza prima della tempesta.

Un crimine scuote tutto: l’attore destinato a impersonare la figura della Morte  nello spettacolo-cult Jedermann viene assassinato, anche il sostituto viene fatto fuori, e malgrado ciò il regista – incarnato dal magistrale Max Reinhardt – pretende che lo show continui.

Reyer ha l’abilità di coniugare il genere del giallo storico con una sensibilità verso le figure dimenticate: al centro sta infatti la figura di Else Heims, attrice berlinese, prima moglie di Reinhardt, protagonista di una vita che la storia ha solo sfiorato. Il romanzo agisce su due piani: da un lato la tensione del delitto, dall’altro il ritratto di una donna che rifiuta di essere solo pedina in un mondo teatrale dominato da uomini, e che in questo contesto diventa – suo malgrado – esca e combattente.

La scrittura di Reyer è elegante e segnata da un tocco ironico che alleggerisce il tono senza tradire la gravità storica: si respira l’aria opprimente dell’Austria che sta per cambiare, la serpeggiante ombra antisemita (l’Anschluss dell’Austria alla Germania nazista avverrà nel novembre 1938), il turbine del successo e dell’autodistruzione. Ogni pagina vibra delle luci di scena, dei compromessi che accompagnano le star dell’epoca, così come del rumore sordo della storia che incalza.

La perfetta ambientazione della Salisburgo del 1937 è resa con cura quasi ossessiva, i dialoghi suonano credibili, i personaggi multipli sono ben definiti.  In particolare Else, figura che si emancipa dalla morsa di un mondo che la sovrasta . Il romanzo non è solo un “giallo con paillettes”, è anche una riflessione sul teatro come specchio del potere, sul ruolo della donna, sul destino che si insinua dietro le quinte.

Die Walküre

Richard Wagner, Die Walküre 

Roma, Parco della Musica, 25 ottobre 2025

bandiera francese.jpg ici la version française sur premiereloge-opera.com

Quando la musica vola e la scena inciampa

Inaugurating Santa Cecilia’s season, Daniel Harding conducted Die Walküre, his first step in performing Wagner’s entire Ring cycle. His vivid, dramatic reading showcased orchestral clarity and emotional depth, with powerful brass and refined strings. Michael Volle’s Wotan dominated a strong cast. Despite musical excellence, Vincent Huguet’s Roman-themed staging—with clumsy symbolism and awkward costumes—proved unnecessary and visually disappointing.

Daniel Harding inaugura la stagione di Santa Cecilia con Die Walküre, primo passo del suo progetto di eseguire l’intero Ring entro il 2028. La sua direzione travolgente e drammatica, capace di fondere energia e trasparenza, entusiasma il pubblico dell’Auditorium gremito. Michael Volle brilla come Wotan, affiancato da un cast di alto livello. Meno felice la regia di Vincent Huguet, che ambienta l’opera in una Roma imperiale visivamente discutibile.

«Si odono gli alberi schiantarsi con fragore e il vento fischiare fra le fronde. Rimbomba il tuono. Poi il fragore della tempesta si calma poco a poco».

Così Camille Saint-Saëns, corrispondente dell’“Estafette”, descriveva nell’agosto 1876 l’inizio della Walküre. E davvero quegli stessi rombi e quegli stessi fremiti sembrano risvegliarsi nei suoni che Daniel Harding scatena ancor prima che si spengano gli applausi con cui il pubblico lo accoglie nella grande sala dell’Auditorium Parco della Musica per l’inaugurazione della stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.

Daniel Harding affronta per la prima volta Der Ring: ognuna delle quattro opere inaugurerà la stagione concertistica. La prima giornata, Die Walküre, quest’anno, Siefgried e Die Götterdämmerung gli anni prossimi mentre per il prologo, Das Rheingold, occorrerà aspettare il 2028. Qui a Santa Cecilia l’ultimo Ring completo in forma di concerto fu quello di Sinopoli negli anni 1988-91, ma per una rappresentazione in forma scenica al Costanzi bisogna risalire al 1961!

La grande sala progettata da Enzo Piano è completa in ogni ordine di posti – i biglietti sono esauriti da tempo – e vibra alla lettura emozionante e piena di senso drammatico data dal direttore inglese. La disposizione in primo piano e allargata in orizzontale della sterminata orchestra esalta l’effetto spaziale dei suoni, la chiarezza del discorso drammatico, la varietà dei colori. Rifuggendo da un’esteriorità fine a sé stessa, Harding è attento al tormento dei personaggi, alla tensione emotiva e alla forza dei sentimenti. Tiene insieme l’energia drammatica e la trasparenza orchestrale, i Leitmotive non sono semplici frammenti musicali, ma entità di una drammaturgia in evoluzione.

I tre grandi squarci sinfonici dell’opera – la tempesta iniziale, la cavalcata delle valchirie, l’incantesimo del fuoco – ricevono ognuno un colore particolare: travolgente la sovrapposizione tra la furia degli elementi e l’angoscia del fuggiasco; spettacolare e barbarica la cavalcata; luccicante e intenso emotivamente il finale. Particolarmente rotondo il suono degli ottoni, morbido quello dei legni, compatti gli archi. Preziosi anche gli interventi solistici, come quello ricco di emozione del violoncello solo nel finale primo. Solo a tratti l’equilibrio con le voci si incrina – talora sommerse, talora troppo esposte nei lunghi monologhi – ma le voci sono di prim’ordine.

Fatto segno di giuste ovazioni e ultimo a prendersi gli applausi nel finale (segno di finezza dell’interprete di Brünnhilde nel rispettarne la centralità) è Michael Volle, uno dei più grandi cantanti vagneriani di oggi che ogni volta stupisce per gl’inossidabili mezzi vocali e l’intensità espressiva. Al suo personaggio Wagner affida uno dei monologhi più lunghi della storia dell’opera, oltre 150 versi, quando nel secondo atto racconta a Brunilde gli antefatti. Si tratta di una pagina grandiosa in cui il compositore mette in atto con impressionante efficacia il metodo dei Leitmotive. «Ciò che a nessuno rivelerei con parole», inizia così il suo racconto nella nuova traduzione di Quirino Principe, «dunque rimanga inespresso in eterno». Il suo solenne recitativo declamato è sostenuto con sobrietà dall’orchestra che “suggerisce” i temi: a quello dello “sdegno” al pensiero del Nibelungo e alla sua maledizione seguono i temi del “Walhalla” e di “Erda”, «colei che tutto conosce». Il tema della “cavalcata delle valchirie” accompagna il suo racconto della generazione delle «otto tue sorelle», e così via. La tenuta drammatica di Volle qui raggiunge un livello eccezionale, come avverrà dopo nella sua collera per la disobbedienza e poi nel commovente addio alla figlia.

Altro sicuro caposaldo wagneriano è Okka von der Damerau, la monumentale Fricka già ammirata alla Scala quest’anno. Il soprano finlandese Miina-Liisa Värelä ha grande proiezione e un solido registro centrale ma un timbro un po’ metallico. Una vena penetrante e un vibrato eccessivo ce l’ha anche la voce del soprano lituano Vida Miknevičiūtė, una Sieglinde luminosa e intensa che si vorrebbe però con qualche tratto di dolcezza in più. Le è accanto il Siegmund di Jamez McCorkle, tenore americano ma pianista di formazione, dalla voce calda ed espressiva che non rientrerebbe nei canoni classici di tenore wagneriano, ma incanta per il lirismo delle mezze voci e del fraseggio sapientemente variato. Fafner nel Ring di Mehta, il basso danese Stephen Milling qui è un rozzo Hunding a cui presta il suo eccezionale volume di voce. Manca però al personaggio quel filo di malvagità latente che altri hanno saputo esprimere. Da vari paesi nordeuropei arriva l’ottetto di convincenti Valchirie: Sonja Herranen, Hedvig Haugerud, Claire Barnett-Jones, Claudia Huckle, Dorothea Herbert, Virginie Verrez, Anna Lapkovskaja, Štěpánka Pučálková.

Harding stesso ha voluto che l’esecuzione avvenisse in forma scenica. Ecco quindi che nell’auditorium viene allestito uno spazio teatrale dallo scenografo Pierre Yovanovitch: una scena fissa che rappresenta un monumentale edificio freddo e bianco in stile piacentiniano con rampe di scale e torrette. Uno spazio che deve fare i conti con la poca profondità, la mancanza di torre scenica e di sottopalco. Autore della messa in scena è Vincent Huguet che si è ispirato alla Roma imperiale: il fatto che Siegmund e Sieglinde fossero gemelli figli di un lupo gli ha ricordato Romolo e Remo e la lupa, e Wotan e Fricka gli omologhi di Giove e Giunone. Non è una grande scoperta: tutte le religioni pagane si rifanno agli stessi archetipi essendo costruite sui vizi degli umani.

L’idea poi che il Götterdämmerung, la caduta degli dèi del Walhalla, sia metafora della caduta dell’impero romano lascia il tempo che trova, ma è soprattutto la realizzazione visiva che convince poco: l’affannarsi continuo e rumoroso sugli scalini, la colonna corinzia spezzata che funge da divano, il sarcofago, inutilizzato, con il bassorilievo dei gemelli allattati dalla lupa, il tubo al neon che forma la sagoma del frassino (!) con annessa spada appesa, le ombre cinesi dei cavallini, i lampi di luce… Trovate la cui ingenuità cozza con la drammaticità dell’argomento. Peggio ancora con i costumi: si capisce che visitando la storica sartoria Tirelli Trappetti si rimanga giustamente affascinati, ma trasformare Wotan in un Nerone alla Petrolini, le valchirie in vedove uscite da un allestimento pirandelliano d’epoca, Sieglinde in elegante matrona romana, Siegmund in principe nubiano… Anche Fricka in abito da sposa è troppo.

Ma era davvero necessaria una messa in scena? Il pubblico di Santa Cecilia ha forse bisogno di costumi e scenografie per capire Wagner? Serve per compensare l’assenza del Ring dal palcoscenico del Teatro dell’Opera di Roma da sessantacinque anni? Non pare proprio.

A proposito: il mese prossimo la stagione lirica romana inizia proprio con Wagner: Lohengrin, diretto da Michele Mariotti e con la regia di un certo Michieletto.

Il diario di uno scomparso / La voce umana

Leoš Janáček, Zápisník zmizelého (Il diario di uno scomparso)

Francis Poulenc, La voix humaine (La voce umana)

Roma, Teatro Nazionale, 24 ottobre 2025

★★★★★

bandiera francese.jpg ici la version française sur premiereloge-opera.com

Due ritratti di solitudini

Paired with Poulenc’s La voix humaine, Janáček’s The Diary of One Who Disappeared returns in Rome’s Teatro Nazionale. Andrea Bernard’s elegant hotel-room staging mirrors emotional isolation. Tenor Matthias Koziorowski and Veronica Simeoni excel in Janáček’s tense, confessional score, while Catherine Antonacci brings vocal mastery to Poulenc’s monodrama. Pianist Donald Sulzen unites both works with expressive, orchestral richness.

Il diario di uno scomparso di Janáček, ispirato all’amore del compositore per la giovane Kamila Stösslová, racconta la passione e il tormento di Jan in una confessione musicale tra desiderio e colpa. Nello spettacolo romano accostato a La voix humaine di Poulenc, Matthias Koziorowski e Veronica Simeoni brillano in una messa in scena raffinata di Andrea Bernard. Caterina Antonacci e Donald Sulzen concludono con un intenso dialogo voce-pianoforte di rara profondità emotiva.

Per la sua brevità, il ciclo di ventidue poesie riunite sotto il titolo Il diario di uno scomparso di Josef Kalda, musicato da Leoš Janáček, è stato spesso abbinato a un altro lavoro quando viene rappresentato in teatro. Al Malibran di Venezia, nel 2015, era stato accoppiato con La voix humaine di Poulenc nella regia di Gianmaria Aliverta. Ora lo stesso dittico è proposto al Teatro Nazionale di Roma, la dépendance più raccolta del Teatro dell’Opera, a pochi passi dalla sala maggiore.

Nel 1917 Janáček, allora sessantatreenne, si era infatuato della venticinquenne Kamila Stösslová, i cui tratti somatici il compositore trasferì nella Zefka del Diario: «una bella gitana, che di cerbiatta ha il passo, nere le trecce sul petto e scuri gli occhi d’abisso». Lo spunto gli venne da alcuni articoli apparsi l’anno precedente su un giornale di Praga, dedicati alle ingenue poesie dialettali di un sempliciotto invaghito di una bella gitana. Il giovane, dopo la nascita del frutto del loro amore, era fuggito dal paese lasciando dietro di sé solo quei versi scarabocchiati su fogli rinvenuti per caso nella sua stanza – il diario di uno scomparso, appunto. La storia della seduzione è il filo di queste liriche, in cui si esprimono i tormenti di Jan – diminutivo di Janiček, alter ego di Janáček, come affermò il compositore stesso – un ragazzo introverso e con un rigido senso del peccato.

Janáček impiega un linguaggio tonale flessibile, costruito su cellule melodiche derivate dal parlato e accompagnate da una musica di straordinaria densità teatrale. Ne emerge una tensione costante tra desiderio e colpa, tra attrazione per l’alterità e sradicamento dal proprio mondo. Il diario di uno scomparso è così un viaggio verso la perdizione ma anche verso la libertà. A parte i brevi interventi della donna e delle tre voci femminili che cantano dietro la scena, si tratta praticamente di un monologo, narrato in prima persona come un flusso di coscienza musicale, una confessione ardente e modernissima, sospesa fra realismo e simbolismo, fra eros, morte e destino.

Nato come pezzo da camera per tenore, soprano, coro di tre soprani fuori scena e pianoforte, quindici anni dopo la morte di Janáček ne venne fatta una versione per orchestra da Ota Zítek e Václav Sedláček, collaboratori del compositore. Qui si rappresenta invece l’originale con il pianoforte di Donald Sulzen, membro del Munich Piano Trio, che non fa affatto rimpiangere la versione orchestrale apocrifa. Più che un accompagnamento, il suo strumento diventa un personaggio esso stesso, assumendo tratti orchestrali nelle dinamiche, nei volumi e nella chiarezza di ogni dettaglio.

Il tenore tedesco Matthias Koziorowski si districa magnificamente in una scrittura irta di difficoltà, delineando la goffaggine e l’allucinazione del giovane Jan con grande efficacia e sensibilità, alternando con abilità ai momenti di slancio passaggi più ariosi e lirici, dove incanta con mezze voci e colori. Una prova maiuscola.

Quasi ricordandosi delle sue tante Carmen, Veronica Simeoni, inguainata in un tubino rosso e pelliccia di volpe grigia (costumi di Elena Beccaro), entra in scena con tutta la sua carica sensuale per interpretare la gitana, qui una escort di lusso. Il timbro è perfetto, le frasi avvolgenti, ineccepibile la dizione in quella lingua improba che è il ceco – tanto che spesso si preferisce eseguire il Diario in tedesco. Dietro scena, «quasi impercettibilmente» scrive il compositore, fanno eco alle profferte della giovane le voci di Carolina Varela, Marika Spadafino e Michela Nardella.

L’elegantissima messa in scena è il punto di forza visivo dello spettacolo: per sottolineare la solitudine del personaggio, lo scenografo Alberto Beltrame e il regista Andrea Bernard costruiscono una moderna camera d’albergo quattro stelle di qualche città del Nord Europa – lo fanno supporre le luci soffuse di Marco Alba. La stanza diventa anche una sorta di scatola magica con scomparti segreti per svelare aspetti della vita del protagonista, che a un certo punto smonta due pannelli della boiserie per rivelare un’icona ortodossa della Vergine col Bambino. La regia è attentissima: i movimenti sono controllati e tutto ha un significato, anche il cameriere che bussa per errore per introdurre il carrello della cena o la musica troppo alta proveniente dalla stanza accanto – una canzone con la struggente voce di Édith Piaf. La stessa canzone che sta ascoltando la protagonista de La voix humaine nella seconda parte del dittico.

Un’altra stanza che differisce solo per alcuni dettagli cromatici – rosse ora sono le lenzuola del letto e le rose in un vaso – ma per il resto uguale. Il carrello della cena, che per sbaglio era stato portato nella camera accanto, è infatti destinato alla donna sola che aggrappata al telefono cerca di trattenere l’amato che l’ha lasciata. Dopo i versi del contadino moravo, qui abbiamo quelli di Jean Cocteau. Siamo quarant’anni dopo, ma anche in questo caso la musica – quella di Francis Poulenc – descrive una solitudine incolmabile, declinata al femminile anziché al maschile.

Caterina Antonacci ritorna a un personaggio che ha interpretato innumerevoli volte, l’ultima proprio al Costanzi nel 2017 diretta da Maxime Pascal in forma di concerto. L’artista riempie la scena vocalmente e fisicamente, esprimendo tutte le emozioni dell’amante tradita e passando dalla recitazione al canto con grande controllo del fiato. La proiezione è invidiabile, la tecnica magistrale, la dizione ineguagliabile.

Anche qui è Sulzen a stendere la tessitura musicale nella versione pianistica che Poulenc però non pubblicò mai ufficialmente in vita. Si tratta infatti di una riduzione realizzata a scopo di prova o di studio, non destinata all’esecuzione pubblica e forse curata da un collaboratore sotto la supervisione del compositore. Dopo la sua morte, nel 1963, la riduzione pianistica rimase inedita e non autorizzata per le esecuzioni pubbliche; solo nel 2013 la famiglia Poulenc, tramite gli eredi e l’editore Salabert, concesse il permesso per una registrazione ufficiale con Felicity Lott e Graham Johnson al pianoforte. Da allora la versione è di fatto “legittimata”. Questa lettura consente un rapporto più intimo tra voce e musica, più essenziale e trasparente, rende il testo più chiaro: tutte le sfumature, le pause, le interruzioni e le silenziose reazioni della donna al telefono emergono con maggiore evidenza. Qui il pianista non è accompagnatore, bensì “partner drammatico”.

Cosa ben evidente nel rapporto tra Sulzen e Antonacci e compresa dal pubblico che ahimè non ha esaurito i già minori posti della sala del Nazionale ma ha compensato col calore degli applausi per uno spettacolo di grande intelligenza ed eccelsa cura formale.

Wozzeck

Alban Berg, Wozzeck

Venezia, Teatro La Fenice, 23 ottobre 2025

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Alla Fenice un Wozzeck d’altri tempi

La Fenice chiude la stagione con Wozzeck nella traduzione italiana del 1942. Scelta che impoverisce il testo di Büchner e solleva dubbi in un clima politico che invoca la “tradizione italiana”. Durante la recita, il direttore Markus Stenz è colto da un malore nel terzo atto, costringendo alla sospensione dello spettacolo.

Con la polemica sul nuovo direttore musicale della Fenice, è passata quasi inosservata la ben più inquietante riforma dei teatri lirici, chiamati a «valorizzare le grandi opere della tradizione italiana». Tradotto: un ritorno all’autarchia e al nazionalpopolare. Ci si chiede allora se si voglia fare un passo ulteriore e resuscitare le vecchie traduzioni italiane dei libretti stranieri, come ai tempi dei dischi a 78 giri.

Non sarà certo stata questa l’intenzione dell’ex sovrintendente Fortunato Ortombina, che aveva ideato la stagione 2024-2025 della Fenice, chiusa ora con Wozzeck a un secolo esatto dalla prima berlinese. Ma il fatto è che il capolavoro di Alban Berg viene proposto nella traduzione italiana del 1942, la stessa con cui fu presentato in Italia in pieno regime fascista: una scelta francamente inspiegabile, fuori dal tempo e priva di giustificazioni convincenti.

Il risultato è un testo scolorito, dove la potenza tagliente di Büchner si smussa in una lingua anodina. L’ebreo diventa un orefice («Portate i vostri occhi all’orefice e fateli pulire»), la dura battuta di Margherita «Sie guckt sieben Paar lederne Hosen durch!» (trapassa con gli occhi sette pantaloni di pelle!) si riduce a un bonario «non ve lo fate chiedere due volte», e il lancinante «Wir arme Leut’!» – grido di dolore sociale ripetuto più volte, quasi slogan dell’opera – si affloscia nel generico «Poveri noi». Anche il Tamburmaggiore perde la sua virilità rozza e violenta: «Faremo un allevamento di tamburmaggiori» diventa un innocuo «Ti voglio regalare un figlio che mi assomigli».

Spariscono inoltre i tratti dialettali e popolari, sostituiti da un registro artificiosamente elevato («sì che lo son, già anche lo fui»), e non mancano veri e propri scivoloni che sfiorano l’assurdo: «Certa gente sta presso la porta e se ne accorge solo quando te la portan via coi piedi avanti!». Che cosa, la porta?

Sulla perdita dei suoni tedeschi, così intimamente legati alla struttura musicale di Berg, non vale nemmeno la pena insistere: da decenni è chiaro che l’opera si ascolta nella lingua originale, mentre il pubblico segue comodamente i sopratitoli. Tornare indietro significa negare un principio ormai elementare del teatro musicale moderno.

In altre circostanze ci sarebbe molto da dire su questa produzione, diretta da Markus Stenz e firmata da Valentino Villa, che ambienta la vicenda in un’Italia del dopoguerra intrisa di neorealismo. Ma il maestro, colto da un malore all’inizio del terzo atto, si è accasciato sul leggio. Anche se dopo è comparso di persona per assicurare che stava meglio, la recita è stata comunque sospesa e non sarebbe corretto giudicarne l’esecuzione e la performance dei cantanti.

Chi volesse comunque farsi un’idea dello spettacolo potrà farlo alla matinée di domenica 26 ottobre. E magari riflettere, uscendo dalla Fenice, su quanto fragile possa essere la linea che separa la memoria della tradizione dal suo malinconico ritorno.

Das Paradis und die Peri

Robert Schumann, Das Paradis und die Peri (Il Paradiso e la Peri)

Amburgo, Staatsoper, 27 settembre 2025

★★★★★

(video streaming)

Il sogno ferito della Peri: Schumann e Kratzer tra cielo e terra

Dopo Salisburgo, anche da Amburgo arriva uno spettacolo che non mette in scena un’opera vera e propria, ma si configura come un’operazione di grande impatto visivo ed emotivo. Soprattutto grazie alla regia — chi l’avrebbe mai detto — di uno dei massimi esponenti del Regietheater, quel Tobias Kratzer che qui, a parere di chi scrive, raggiunge forse il suo miglior esito. Alla Staatsoper della città anseatica la nuova stagione lirica si apre con il nuovo sovrintendente-regista e con un titolo insolito: Das Paradies und die Peri (Il Paradiso e la Peri).

Oratorio profano composto da Robert Schumann su libretto di Emil Flechsig tratto dal poema Lalla Rookh di Thomas Moore, debuttò alla Gewandhaus di Lipsia il 4 dicembre 1843 diretto dallo stesso Schumann. Accolto con entusiasmo dal pubblico, il lavoro fu considerato dal compositore «la più cara fra le mie creature». Non altrettanto unanime fu la critica: si lodarono l’orchestrazione, il colore strumentale e la naturalezza con cui Schumann “faceva parlare” l’orchestra, ma alcuni espressero riserve sulla scelta di evitare i recitativi e di adottare una forma continua, ritenendo che ciò riducesse la chiarezza drammatica, pur senza compromettere l’impressione generale. È comunque una delle opere più luminose e ottimistiche del musicista, in netto contrasto con il tormento interiore che spesso segna la sua produzione.

La storia, intrisa di simbolismo e di significati moralistici, è un’ideale commistione tra misticismo arabo e cristiano. Ambientata in un favoloso Oriente, narra di una Peri — creatura della mitologia persiana, simile a una fata — cacciata dal Paradiso per colpe non chiarite e impegnata a riconquistarne l’accesso offrendo un dono puro e degno della divinità. Dopo aver portato le ultime gocce di sangue di un giovane eroe ucciso da un tiranno, la Peri offre all’Eterno il respiro di una fanciulla morta accanto all’amato appestato, ma invano. Solo alla fine, quando raccoglie le lacrime di pentimento di un feroce brigante commosso dalla preghiera di un bambino, le porte del Paradiso le si spalancano.

La partitura, per soli, coro e orchestra, è un trionfo di lirismo e colore, in cui Schumann fonde l’intensità romantica del Lied con la grandiosità oratoriale di Händel e l’intimità di Mendelssohn. I cori sono esuberanti ma mai pomposi, i “recitativi” fluiscono come dialoghi interiori e le arie traboccano di dolcezza melodica.

Prima dell’inizio dello spettacolo, scena e pubblico vengono filmati e proiettati su uno schermo sospeso. Il narratore (tenore) siede sul palco, come un regista alle prove, davanti a un computer portatile. Con la drammaturgia di Christopher Warmuth, le scene e i costumi di Rainer Sellmaier e le luci di Michael Bauer, ci troviamo in un ambiente asettico e bianco, che nella sua nudità riflette la vita interiore della Peri, distesa tra piume candide, i resti delle sue ali. Le raccoglie, tocca le ferite aperte. Un gran numero di persone le passa accanto impassibile, poi scoppia una battaglia caotica: i cadaveri si allineano sul palco e la Peri viene ricoperta di sangue. Una spettatrice protesta e abbandona la sala.

Dopo la guerra, arriva la pestilenza. Quando la giovane sposa muore, il coro intona il dolcissimo «Schlaf nun und ruhe in Träumen voll Duft» (“Dormi ora e riposa nei sogni fragranti di profumo”), mentre la cinepresa inquadra uno spettatore addormentato. Nella terza parte, un altro spettatore si commuove davanti al dramma della distruzione ambientale: la Peri scende in platea, scavalca le file, raccoglie le sue lacrime e le offre all’angelo, che finalmente le apre le porte del Paradiso.

Ovviamente questi “spettatori” sono attori, con cui Kratzer ha voluto coinvolgere il pubblico e forse ironizzare sull’accoglienza del precedente Trovatore, ampiamente buato qui ad Amburgo. Qualche sparuto “buu” si è sentito anche stavolta alla fine, ma ampiamente coperto dagli applausi frenetici di un pubblico che ha premiato la regia di Kratzer: una riflessione sulla perdita del Paradiso e la ricerca della redenzione come metafora della nostra attualità.

Ineccepibile il livello musicale dell’esecuzione: la direzione di Omer Meir-Wellber si distingue per sensibilità ed energia, in un approccio dinamico che ha reso piena giustizia ai colori e ai chiaroscuri schumanniani. Ottimo il coro, preparato da Alice Meregaglia e impegnato anche scenicamente con grande efficacia. Superlativi i solisti: la Peri vocalmente luminosa e intensamente coinvolgente di Vera-Lotte Böcker; la freschezza di Eliza Boom (soprano); Kady Evanyshyn (mezzosoprano); Annika Schlicht (contralto); Kai Kluge (magnifico tenore narratore); il sempre elegante Christoph Pohl (baritono, Gazna/Un uomo); l’ineffabile Angelo del controtenore Ivan Borodulin e il Giovane di Eric Lunga Hallam.

Da questo primo spettacolo sembra uscire vincente la nuova direzione artistica della Staatsoper di Amburgo, decisa a far dialogare il repertorio romantico con la sensibilità contemporanea.

La contessa

Stanisław Moniuszko, Hrabina (La contessa)

Poznán, Teatr Wielki, 10 ottobre 2025

★★★☆☆

(video streaming)

Quando il sogno di una Polonia indipendente diventa quello dell’indipendenza femminile

Hrabina (La contessa) è un’opera comica in tre atti di Stanisław Moniuszko, su libretto di Włodzimierz Wolski, rappresentata per la prima volta a Varsavia nel 1860. Dopo Halka, è considerata uno dei vertici del teatro musicale del compositore polacco e un raffinato ritratto della società nobiliare del suo tempo, sospeso tra ironia e patriottismo. Ambientata a Varsavia all’inizio dell’Ottocento, l’opera racconta la storia d’amore tra Kazimierz, giovane ufficiale polacco, e la contessa del titolo, donna vanitosa e affascinata dal lusso e dalle mode francesi.

Atto I. Varsavia. Tra un paio di giorni si terrà un grande ballo nella casa della giovane contessa, rimasta vedova da poco. Tutti sono impegnati nei preparativi e parlano della magnificenza dell’evento imminente. Si sta cucendo per la Contessa un mozzafiato costume di Diana. Dzidzi fa del suo meglio per conquistarne il favore. Nella casa si trova anche Bronia, una lontana parente della Contessa, corteggiata dall’anziano Podczaszyc. Bronia è appena arrivata in città dalla campagna e si sente infelice in questo nuovo ambiente: si lamenta con il nonno di non sentirsi a suo agio nel mondo artificiale del salotto, un mondo falso, pieno di usanze straniere innaturali e di risate vuote. Bronia è innamorata, senza essere ricambiata, di un vicino di campagna, il giovane nobile Kazimierz, anch’egli presente in casa. Ma Kazimierz a sua volta ama la Contessa. Chorąży gli dice di smetterla di tormentarsi e di andare a caccia, ma Kazimierz sente che la sua felicità dipende dal fatto che la Contessa ricambi o meno il suo amore.
Atto II. Prima del ballo, la Contessa indossa il suo nuovo abito e si ammira allo specchio. Gli invitati riuniti nella sala da ballo si dividono chiaramente in due gruppi: Kazimierz, Bronia e Chorąży formano il “partito nazionale” – vestiti in modo semplice, con abiti tradizionali polacchi. Gli altri ospiti rappresentano il “partito straniero” – sontuosamente abbigliati, ma del tutto estranei alla tradizione polacca. Segue la prova dello spettacolo che dovrà arricchire il ballo: prima una scena di balletto, poi un’aria virtuosistica cantata da Ewa, amica della Contessa; infine il Podczaszyc, travestito da Nettuno, arriva su un carro a forma di conchiglia, accolto dagli altri ospiti. Il numero finale avrebbe dovuto essere eseguito da un’altra amica della Contessa, che però si è ammalata. Bronia la sostituisce e canta una triste canzone su una ragazza di campagna che attende il ritorno del suo amato soldato partito per la guerra, promettendo di essergli fedele fino alla tomba. Gli ospiti “stranieri” restano indifferenti, trovando la canzone troppo semplice e banale. Kazimierz, Chorąży e perfino il Podczaszyc, invece, ne sono profondamente colpiti per la sua bellezza semplice e sincera. Arriva infine Madame de Vauban, la più illustre degli invitati. Nel trambusto che segue, Kazimierz calpesta per errore l’abito della Contessa, strappandolo malamente. La sua cortesia scompare all’istante: è chiaro che Kazimierz ha perso ogni suo favore.
Atto III. La dimora di campagna di Chorąży. Una malinconica melodia di polacca, suonata da quattro violoncelli, evoca l’atmosfera serena e patriottica della casa. Il Podczaszyc, ospite della tenuta, è a caccia. Bronia sente la mancanza di Kazimierz, che dopo il disgraziato incidente al ballo è partito per la guerra. Inaspettatamente arriva la Contessa: ha compreso il valore dei sentimenti sinceri di Kazimierz e, sapendo del suo imminente ritorno e prevedendo che passerà dalla casa di Chorąży, è impaziente di incontrarlo e riconquistare il suo amore. Ma quando Kazimierz arriva e vede la dimora di Chorąży, gli tornano alla mente il volto dolce e la genuinità di Bronia. Saluta la Contessa con freddezza. Né Bronia né Chorąży sono al corrente del mutamento del suo cuore, e sono in ansia per la presenza contemporanea di lui e della Contessa. Il Podczaszyc, invece, ha capito tutto, compresa l’inadeguatezza della differenza d’età che lo separa da Bronia. Un po’ alticcio, pronuncia un lungo discorso e, a nome di Kazimierz, chiede la mano di Bronia. Kazimierz si inginocchia davanti a Chorąży, confermando che il Podczaszyc ha espresso correttamente il suo desiderio. La Contessa, naturalmente, è profondamente delusa. Vana e orgogliosa, non vuole mostrare i suoi veri sentimenti davanti a tutti e decide di partire subito. Dzidzi ritrova nuove speranze. Gli altri ospiti brindano alla nuova coppia.

Sotto l’apparenza di una commedia di costume, La contessa è in realtà una pungente satira sociale: Moniuszko vi contrappone la nobiltà decadente e cosmopolita, che guarda a Parigi con deferenza servile, al mondo borghese e popolare, custode della lingua, dei costumi e dei valori nazionali. L’opera rispecchia così lo spirito risorgimentale polacco di metà Ottocento, cercando di riaffermare l’identità nazionale attraverso il teatro musicale.

Musicalmente, Moniuszko unisce la tradizione italiana e francese dell’opéra-comique con brillanti pezzi d’assieme, arie eleganti, melodie e ritmi tratti dal folklore polacco, come mazurche e polacche. L’orchestrazione è vivace e colorata, capace di passare dall’ironia alla malinconia con finezza psicologica. In patria La contessa è oggi un titolo di repertorio, apprezzato per la sua ironia leggera e per il suo sottotesto patriottico, e rappresenta uno dei migliori esempi di come Moniuszko abbia saputo fondere l’opera europea con la sensibilità e il colore nazionale polacco.

Al Teatr Wielki di Poznań, La contessa si trasforma da elegante curiosità ottocentesca a vivida riflessione contemporanea. L’allestimento firmato da Karolina Sofulak riesce a restituire linfa teatrale e senso politico a un’opera spesso confinata nel repertorio patriottico, ma che oggi ritrova sorprendente attualità. La regista intreccia tre epoche: la Varsavia di inizio Ottocento, la Polonia tra le due guerre e quella post-1989. La scenografia di Dorota Karolczak, costruita su una grande struttura mobile che ruota e muta come un meccanismo mentale, diventa metafora visiva della nazione in continua trasformazione. Costumi, luci e proiezioni si susseguono come stratificazioni di un sogno storico, a tratti ironico e a tratti doloroso. L’effetto è quello di un palinsesto teatrale in cui il passato non muore, ma continua a interrogare il presente.

La parte visiva è curata con gusto cinematografico: il disegno luci di Giuseppe di Iorio e le proiezioni di Karolina Fender Noińska accompagnano l’evoluzione della scena con precisione poetica. L’insieme è armonioso, di grande eleganza formale, capace di alternare leggerezza ironica e riflessione malinconica senza mai cadere nell’enfasi. Qualche pausa forse rallenta il flusso narrativo, ma l’equilibrio fra tradizione e innovazione resta saldo fino al finale, dove la figura della Contessa, ormai sola, si dissolve come un’eco del passato. Sofulak elimina completamente i dialoghi parlati, lasciando che sia la sola musica a guidare la narrazione. Una scelta decisamente discutibile che manda all’aria l’equilibrio previsto tra musica e recitazione così come la drammaturgia. (1)

La direzione di Katarzyna Tomala-Jedynak mette in risalto la partitura di Moniuszko, che fonde eleganza europea e idiomi popolari con sorprendente modernità, esaltando questi contrasti con tempi flessibili e trasparenze orchestrali: le danze nazionali risuonano con leggerezza, ma mai come puro folklore e le sezioni liriche respirano un lirismo tutto slavo, intimo e misurato.

Nel ruolo della Contessa, Aleksandra Orłowska offre una prova di alto profilo. Con voce piena, timbro chiaro e fraseggio scolpito costruisce un personaggio complesso, diviso tra vanità e fragilità. Non più soltanto l’aristocratica ridicola di una farsa morale, ma una donna sospesa tra le epoche, vittima e simbolo insieme. Accanto a lei, Łukasz Załęski è un Kazimierz di calore e nobiltà d’accento, mentre Wojtek Gierlach (Podczaszyc) brilla per humour e naturale autorità scenica. Il coro del Teatr Wielki, ben preparato e scenicamente vivo, diventa un vero protagonista collettivo, specchio del popolo e della memoria condivisa.

Il risultato è un teatro che parla di noi attraverso Moniuszko: una Polonia che si guarda allo specchio, che riconosce la propria storia senza nostalgia, e che attraverso la musica riscopre la propria voce. La contessa diventa così un’allegoria del tempo, un ritratto ironico ma affettuoso di un Paese che non smette di reinventarsi.

(1) Questa la vicenda messa in scena dalla Sofulak:
Atto I. Un salotto del XIX secolo. Una folla allegra attende il ballo della contessa, al quale è prevista la partecipazione della famosa mondana di Varsavia, Madame de Vauban. Bronia attira l’attenzione di Dzidzi e Valentine. Dzidzi incoraggia Valentine a corteggiarla. Valentine fa il timido, ma non è del tutto riluttante. Dzidzi stesso è innamorato non corrisposto della Contessa, che preferisce Kazimierz Arriva Horatio, che deride i sentimenti di Valentine. Non sa che è sua nipote l’oggetto dell’affetto. Nel frattempo, Bronia non è impressionata dallo sfarzo e dal glamour dell’alta società. Desidera la pace e la tranquillità della campagna. Bronia incontra Kazimierz, angosciato dal suo amore per la Contessa. Egli teme che i suoi sentimenti non siano ricambiati. Ascoltando le sue preoccupazioni, la Contessa gli consiglia di credere e di non perdere la speranza. Dzidzi appare, annunciando l’arrivo di un abito da ballo. La Contessa, splendida nel suo abito, suscita l’ammirazione generale. Le prove per lo spettacolo che accompagnerà il ballo possono avere inizio.
Atto II. Il periodo tra le due guerre. Lo spazio è immerso in una luce onirica. Gli ospiti, guidati dalla signorina Eva, si preparano per le prove – tra loro c’è anche la contessa, che sta facendo progetti ambiziosi. Kazimierz, mezzo addormentato, osserva una serie di tableaux vivants che gli scorrono davanti agli occhi: una danza di perle, la corte di Nettuno, una parata militare. Valentine e Dzidzi partecipano attivamente ai festeggiamenti, ma Bronia non riesce a trovare il suo posto. Viene annunciato l’arrivo di Madame de Vauban. Che emozione! Kazimierz offre goffamente la mano alla Contessa, strappandole il vestito. L’evento provoca scalpore tra gli ospiti.
Atto III. Il volgere degli anni Novanta. La Contessa e la signorina Eva guidano la polonaise delle signore. Allo stesso tempo, i signori tornano, guidati da Valentine. Bronia desidera ardentemente Kazimierz Anche la Contessa spera di incontrarlo, pentendosi del suo violento sfogo. Dzidzi deride i suoi desideri. Kazimierz ritorna. Il suo cuore è più incline a Bronia che alla Contessa. Egli rende chiaro il suo cambiamento di cuore. Valentine decide di porre fine all’impasse tra gli amanti. Chiede a Bronia di sposarlo a nome di Kazimierz La Contessa se ne va, con le sue speranze e i suoi sogni calpestati. Gli ospiti brindano alla salute di Bronia e Kazimierz.

I Concerti del TRT

Pëtr Il’ič Čajkovskij, Francesca da Rimini fantasia sinfonica in mi minore op.32
Andante lugubre – Allegro vivo

Johannes Brahms, Schicksalslied (Canto del destino) op. 54
I. Lento e con espressione
II. Allegro
III. Postludio. Adagio

Arrigo Boito, “Prologo in cielo” dal Mefistofele
I. Preludio e coro
II. Scherzo strumentale
III. Intermezzo drammatico
IV. Scherzo vocale
V. Salmodia finale

Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Regio Torino

Andrea Battistoni direttore, Erwin Schrott basso

Torino, Teatro Regio, 18 ottobre 2025

Dall’Inferno al Paradiso con l’orchestra del Teatro Regio

È questo il viaggio che ci propone il concerto inaugurale della stagione sinfonica del Teatro Regio di Torino, “Abissi”. Ci guida Andrea Battistoni, che dopo la Francesca da Rimini di Zandonai con cui è iniziato il cartellone lirico, ci ripropone la stessa figura nell’omonima “fantasia sinfonica” composta da Čajkovskij nel 1876 e ispirata al celebre episodio del V canto dell’Inferno. Suggestionato dal dramma dei due amanti travolti dalla passione e puniti per l’eternità nella bufera infernale, il compositore traduce in suoni la potenza poetica e tragica del racconto. L’introduzione orchestrale, oscura e minacciosa, evoca l’ingresso di Dante e Virgilio nel cerchio dei lussuriosi, tra venti impetuosi e clamori disperati. Quando l’orchestra tace, il clarinetto intona un tema lamentoso: è la voce di Francesca che ci racconta la sua triste storia. L’episodio che segue, con quel tema melodico di struggente bellezza affidato ai legni e agli archi, rappresenta l’amore dei due protagonisti con la passione che si accende progressivamente fino a trasformarsi in un turbine sinfonico di straordinaria energia. Dopo l’apice drammatico, la musica si spegne in un epilogo mesto, segnato dalla pietà e dalla desolazione. Con Francesca da Rimini, Čajkovskij coniuga pathos operistico, virtuosismo orchestrale e introspezione psicologica, offrendo uno dei vertici del suo sinfonismo romantico e una delle più vibranti trasposizioni musicali di Dante. A memoria e con gesto ampio ed espressivo Battistoni ricrea la travolgente pagina con grande partecipazione, grazie all’impegno dei professori d’orchestra e, in primis, del clarinetto di Antonio Capolupo.

La meta finale del Paradiso è rappresentata in questo programma dal “Prologo in cielo” che apre il Mefistofele di Arrigo Boito, una delle pagine più originali e visionarie dell’opera italiana ottocentesca e fonte inesauribile di guilty pleasure. Ispirato al “Prolog im Himmel” del Faust di Goethe, mette in scena il dialogo tra Dio e Mefistofele, che si offre di tentare l’anima di Faust per dimostrare la corruttibilità dell’uomo. Boito trasforma questo momento filosofico e teologico in un affresco sonoro di straordinaria potenza, ma in equilibrio precario tra teatralità e puro kitsch. Ascoltandolo per l’ennesima volta non può non venire alla mente la realizzazione visiva che ne fece Robert Carsen nel suo geniale spettacolo del 1989 visto anche a Torino nel 2002, con un Paradiso che aveva l’aspetto di un teatro rococò con tanto di palchetti dorati e angeli dai boccoli d’oro in volo tra i panneggi dell’arco scenico. Nella direzione di Battistoni, peraltro precisa ed efficace, avremmo preferito una vena più ironica, che sottolineasse lo stile enfatico, retorico, eccessivo di Boito. In questa esecuzione in forma di concerto, invece, la musica forse viene presa fin troppo sul serio. Mancando l’aspetto visivo e scenico, anche all’intervento di Erwin Schrott, pur vocalmente pregevole Mefistofele, difetta quella dimensione mattatoriale che il basso uruguayano è solito portare in scena. Orchestra in formazione mastodontica quella schierata sul palcoscenico del teatro: ben quattro percussionisti, nove ottoni in scena e altri nove fuori scena, organo, due arpe. Determinante il ruolo del coro del teatro diretto come sempre con maestria da Ulisse Trabacchin mentre Claudio Fenoglio si occupa di quello di voci bianche, formato in massima parte da voci femminili (solo cinque su 34 i maschietti) – la tradizione dei cori maschili di voci bianche è pressoché sconosciuta nel nostro paese, mentre è ben salda in quelli di lingua inglese o tedesca, con Domspatzen, Sängerknaben o Knabenchor in ogni città dell’Austria e della Germania. La qualità dell’esecuzione e il finale in fortissimo strappano immancabilmente applausi entusiastici al pubblico.

E il Purgatorio? La stazione intermedia qui prende a modello il sublime Schicksalslied (Il canto del destino). Il lavoro di Brahms del 1871 per coro e orchestra. Certamente il brano meno spettacolare, ma il culmine estetico ed etico del concerto, una pagina di straordinaria intensità emotiva ispirata all’omonima poesia di Friedrich Hölderlin tratta da Hyperion in cui vengono contrapposti due mondi: quello sereno e luminoso degli dèi e quello tormentato degli uomini, soggetti al dolore e alla caducità. Brahms traduce questo contrasto in una musica che è un capolavoro di equilibrio tra forma classica e sentimento romantico, incarnando la tensione tra bellezza ideale e realtà dolorosa. La prima parte è una contemplazione estatica: gli dèi vivono “in luce eterna”, liberi da pena e tempo, sospesi in una purezza sonora che Brahms rende in un linguaggio corale limpido, classico, quasi apollineo, introdotto da una sezione strumentale dove archi e fiati, perfettamente assimilati, fluttuano in un’atmosfera eterea punteggiata dai sobri ma un po’ inquietanti battiti dei timpani. La seconda parte irrompe invece con un violento contrasto: l’uomo è segnato da destino crudele, la sua condizione “gettata da roccia a roccia come acqua che precipita”. Qui l’orchestra si fa tempestosa, la scrittura corale drammatica, la tonalità instabile. Il breve epilogo orchestrale riporta in forma trasfigurata la serenità iniziale: un gesto musicale che apre uno spiraglio alla consolazione, anche se il testo non la prevede. In questo senso, Brahms supera Hölderlin, sostituendo al pessimismo del poeta una speranza di riconciliazione attraverso la musica – l’arte – stessa. Il Direttore Musicale del Teatro Regio ne offre una lettura che accentua i contrasti emotivi del lavoro, con un primo movimento pieno di tenerezza estatica, una sezione centrale che esplode in un pathos quasi wagneriano e un epilogo orchestrale carico di serena malinconia.

Dal vortice infernale di Čajkovskij alla luce problematica ma redentrice di Brahms, fino alla sfida metafisica di Boito, il concerto disegna un itinerario dantesco che non promette salvezza ma consapevolezza. Un percorso “negli abissi” dell’animo umano, da cui si esce forse non purificati, ma più lucidi, più vivi. E grati alla musica per averci accompagnati.

Vedi anche su iltorinese.it

Stagione Sinfonica RAI

Leoš Janáček, Lašské tance (Danze Lachiane)
1. Starodávný (L’antica)
2. Požehnaný (La benedetta)
3. Dymák [fumoso]
4. Starodávný II (L’antica II)
5. Čeladenský [dal villaggio di Čeladná]
6. Pilky (Le seghe)

Béla Bartók, Il Mandarino meraviglioso suite da concerto, BB 82a, SZ 73b
Allegro
Maestoso
Tempo di valse

Ludwig van Beethoven, Sinfonia n. 2 in re maggiore, op. 36
Adagio – Allegro con brio
Larghetto
Scherzo. Allegro – TrioFestoso
Allegro molto

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Kirill Petrenko direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 16 ottobre 2025

Attesissimo, come sempre, il ritorno di Kirill Petrenko alla RAI

Non è facile trovare un fil rouge che colleghi i brani musicali del secondo concerto della stagione sinfonica della Rai. Ma che importa: la folla che ha riempito l’Auditorium Toscanini di via Rossini è venuta per lui, Kirill Petrenko, che per l’ottava volta, più di vent’anni dopo la prima, ritorna a dirigere l’Orchestra Sinfonica Nazionale, quella da lui più frequentata tra le formazioni italiane. La folla sarebbe accorsa anche se in programma ci fosse stato Fra Martino campanaro: tale è il carisma del direttore siberiano stabilitosi in Occidente. Quella con l’OSN è poi un’intesa fuori del comune, come si è dimostrato ancora una volta ieri sera.

Nella prima parte del concerto figuravano due nomi del Novecento apparentemente molto diversi, ma accomunati da uno stesso intento: sia Janáček sia Bartók affrontarono il folklore musicale senza i connotati nazionalistici con cui si erano mossi invece Smetana e Dvořák, che nei canti popolari da loro rivisitati avevano esaltato il consolante e sicuro sistema diatonico. Per il moravo e per l’ungherese, invece, è la struttura armonicamente insolita del patrimonio musicale popolare dei loro rispettivi paesi a destare interesse. Un modo per superare la crisi della tonalità – e anche dei valori ottocenteschi – che in quegli stessi anni i compositori della Seconda scuola di Vienna (Schönberg, Berg, Webern) affrontavano in modo più radicale.

Le Danze lachiane sono il primo frutto maturo di Leoš Janáček. Iniziate nel 1888 dal compositore trentaquattrenne, furono rimaneggiate nel 1925 e pubblicate nel 1928, pochi mesi prima della sua morte. Fonte d’ispirazione sono melodie e ritmi della regione della Valacchia (Valašsko) in Moravia, poi ribattezzata Lachia (Lašsko). Nei sei pezzi, Janáček combina temi popolari autentici con armonie originali, anticipando già il suo stile personale, più asciutto e rustico rispetto alle Danze slave di Antonín Dvořák, a cui si ispirano. Petrenko ricrea amorevolmente il tono pastorale della prima, il tenero lirismo della seconda, il ritmo marcato della terza, con il martellare del fabbro nella sua fumosa officina; nella quarta, il carattere arcaico della prima danza è ripreso in modo più intimo; la quinta è dominata da un ritmo frenetico che allude al movimento alternato delle seghe o al lavoro collettivo; infine, la sesta esplode in una coda trionfale che celebra il paesaggio e la vitalità popolare. Il tutto reso impeccabilmente da un’orchestra in serata di grazia.

Dall’atmosfera bucolica della campagna si passa bruscamente al sordido paesaggio urbano della suite da concerto tratta da Il mandarino meraviglioso di Béla Bartók, musica per una “pantomime grotesque” messa in scena con grande scandalo all’Opernhaus di Colonia il 27 novembre 1926. Basata sul racconto di Melchior Lengyel A csodálatos mandarin (Il mandarino miracoloso), narra una scabrosa vicenda criminale di sesso, denaro e morte, che la musica del compositore magiaro evidenzia con lividi toni post-espressionistici. «Un’orgia di rumori che dà sui nervi», fu definita allora, e il sindaco della città, quel Konrad Adenauer che sarà cancelliere della Germania Ovest dal 1949 al 1963, ne proibì le repliche. Il mandarino meraviglioso poté essere rappresentato solo ventisei anni dopo. Le armonie dissonanti, la ricca politonalità e i cromatismi estremi, che rappresentano l’angoscia urbana e la brutalità dei personaggi, sono resi in modo lucidissimo dalla direzione di Petrenko, che esalta il virtuosismo dell’orchestrazione e i contrastanti piani sonori. Il suono barbarico, però, conserva una sua qualità “musicale” pur nell’estremizzazione dei livelli sonori e timbrici. Sotto la sua bacchetta, armonia e orchestrazione diventano chiare metafore emotive: il desiderio (i temi del clarinetto), la violenza (ottoni e percussioni), la trasfigurazione finale, dopo la morte del Mandarino, quando i suoni dissonanti si dissolvono in accordi luminosi, simbolo di redenzione.

È necessario il tempo di un intervallo per smaltire la tensione accumulata con il lavoro di Bartók e passare a tutt’altro mondo: quello della Seconda sinfonia di Ludwig van Beethoven. Qui anche il gesto di Petrenko si fa più controllato, pur restando sempre ricco di significato per i professori d’orchestra, che diventano la proiezione delle intenzioni del direttore. La precisione e l’intensità del suo gesto dovrebbero essere oggetto di studio per chi intende intraprendere la carriera di direttore d’orchestra o di direttore musicale di qualche importante istituzione.

Nonostante il momento doloroso che stava attraversando il compositore – il manifestarsi della sordità, la decisione di abbandonare la carriera concertistica e una delusione sentimentale che lo avevano condotto a scrivere il doloroso “Testamento di Heiligenstadt” il 6 ottobre 1802 – la luminosa tonalità di re maggiore irradia tutto il primo tempo, che, dopo una straordinaria introduzione lenta, si apre nell’Allegro con brio con spunti melodici e ritmici sempre nuovi, capaci di sorprendere le abitudini d’ascolto del pubblico di allora. «L’opera guadagnerebbe se venissero accorciati alcuni passi e sacrificate molte modulazioni strane», sentenziava la Allgemeine Musikalische Zeitung. La quantità di idee che si stipano nella pagina è in preda a un vero entusiasmo costruttivo, quello stesso che si trova nell’ouverture delle Nozze di Figaro.

Lo spirito di Mozart sembra infatti aleggiare su questa sinfonia: la struttura aderisce al modello formale mozartiano, con la sua chiarezza tematica e i contrasti ben definiti e proporzionati; la scrittura è luminosa e dialogica, i legni dialogano in modo cameristico e timpani e corni restano vicini al linguaggio classico; la grazia melodica di molti temi richiama quella del genio di Salisburgo e la sua cantabilità. Anche lo Scherzo, che sostituisce il Minuetto, ha un carattere di ironia e leggerezza che si può far risalire alla gioiosità di Mozart. Poi però compaiono già gli elementi caratteristici del Beethoven più maturo, dove il discorso è costruito a partire da piccole cellule motiviche sviluppate con logica stringente. Tutto ciò emerge con chiarezza nell’esecuzione di Petrenko: la nitidezza dei temi e delle modulazioni, il fraseggio espressivo, l’attenzione alle linee melodiche, l’articolazione ritmica chiara e precisa, i momenti lenti trattati con cura e spazio per il respiro, ma senza languore, la messa in evidenza delle diverse famiglie orchestrali sempre magistralmente equilibrate e, al loro interno, l’individuale peculiarità dei singoli strumentisti.

Alla fine, all’entusiasmo al calor bianco del pubblico si affianca l’applauso riconoscente dei professori d’orchestra, grati di aver vissuto un’esperienza tanto intensa.

Vedi anche su iltorinese.it

I concerti dell’Unione Musicale

Valentyn Syl’vestrov, 8.VI.1810… per la nascita di R.A. Schumann per 2 violoncelli “quasi violoncello solo”
Elegia
Serenata
Minuetto

Jacques Offenbach, Duetto in mi maggiore op. 54 n. 2
Allegro
Andante
Polonaise

Valentyn Syl’vestrov, 25.X.1893… in memoria di P.I. Čajkovskij per 2 violoncelli “quasi violoncello solo”
Preludio (Nascita della Melodia)
Ninna Nanna
Serenata

Giovanni Sollima, Dove finisce l’erba

Alexander Knaifel, Lux Æterna for two psalm singers

Mario Brunello violoncello, Giovanni Sollima violoncello

Torino, Conservatorio Giuseppe Verdi, 15 ottobre 2025

Due violoncelli “quasi violoncello solo” per l’Unione Musicale

Per l’inaugurazione della sua stagione l’Unione Musicale ha puntato sulla presenza di due violoncellisti ai vertici del panorama musicale mondiale: Mario Brunello e Giovanni Sollima, uno veneto l’altro siciliano, due personalità diverse e in qualche modo complementari. Unendo rigore e creatività, profondità e leggerezza, è almeno dal 2021 che danno vita a uno straordinario connubio di talento, estrosa fantasia, vigore interpretativo e spontanea forza comunicativa.

(il seguito su lesalonmusical.it)

Francesca da Rimini

foto @ Gaido Ratti

Riccardo Zandonai, Francesca da Rimini

Torino, Teatro Regio, 10 ottobre 2025

★★★★☆

bandiera francese.jpg ici la version française sur premiereloge-opera.com

Il bello, il guercio e lo sciancato: la Francesca da Rimini 111 anni dopo al Regio di Torino

The 2025–26 season of Turin’s Teatro Regio opens with Zandonai’s Francesca da Rimini, marking Andrea Battistoni’s debut as music director. His lucid, vigorous conducting highlights the opera’s modernist richness while Andrea Bernard’s poetic staging reimagines Francesca as a self-aware woman choosing love as freedom. An elegant, powerful revival of a misunderstood masterpiece and an excellent cast, with Barno Ismatullaeva and Roberto Alagna giving intense performances.

Il Teatro Regio di Torino inaugura la stagione 2025-26 con Francesca da Rimini di Zandonai, affidata alla direzione di Andrea Battistoni, nuovo Direttore musicale. Dirige con energia e finezza una partitura modernista e visionaria. Raffinata la regia di Andrea Bernard, che restituisce Francesca come eroina consapevole. Ottimo il cast, con Barno Ismatullaeva e Roberto Alagna protagonisti intensi.

Con Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai si apre la stagione 2025-2026 del Teatro Regio di Torino, un’inaugurazione che segna anche l’inizio del mandato di Andrea Battistoni come nuovo Direttore musicale. Il giovane maestro veronese, che ha più volte dichiarato il proprio amore per il repertorio italiano tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, affronta uno dei titoli più emblematici di quel periodo: un’opera che, dopo decenni di oblio, sta vivendo una sorprendente rinascita grazie a produzioni di rilievo come quelle di Parigi (2011), Strasburgo e Milano (2018), Berlino (2021).

La vicenda dei due amanti danteschi, resa immortale dai versi del V canto dell’Inferno, ha ispirato musicisti di epoche diverse – da Paisiello a Mercadante, da Thomas a Rachmaninov – ma la versione di Zandonai, su libretto di Tito Ricordi tratto dalla tragedia dannunziana rappresentata da Eleonora Duse nel 1901, resta la più ambiziosa e complessa. Nel “poema di sangue e di lussuria” di Gabriele D’Annunzio, il librettista pota con decisione il testo originale ma conserva l’aura preziosa e arcaizzante dell’originale, disseminando la partitura di termini desueti, immagini opulente e cadenze in falso antico. In un italiano così screziato e ricercato, persino i sopratitoli in inglese diventano preziosi alleati per seguire il filo del racconto!

Quando l’opera debuttò al Regio di Torino nel 1914, l’Italia musicale stava cercando nuove direzioni. La stagione del verismo volgeva al tramonto, e Zandonai, pur figlio di quella tradizione, ne spezzava i confini per aprirsi a un linguaggio più modernista, intriso di suggestioni simboliste e impressioniste. La sua Francesca perde i tratti della vittima passionale alla Mascagni o alla Giordano e diventa una creatura più spirituale, quasi preraffaellita, sospesa tra sensualità e sogno, Non Santuzza, non Fedora, ma una figura alla Edward Burne-Jones o Dante Gabriele Rossetti. Nella partitura le influenze di Wagner e di Debussy si intrecciano con l’eredità melodica italiana: le frasi sospese, le modulazioni liquide, gli impasti timbrici rimandano più a Pelléas et Mélisande – anche qui una vicenda di cognati innamorati – che a Cavalleria rusticana. Francesca da Rimini, più che l’ultima opera verista, può dunque essere considerata la prima vera opera italiana moderna.

A raccogliere questa eredità, più di un secolo dopo, è Andrea Battistoni nel suo territorio ideale. La direzione è vigorosa e trasparente, mette in risalto la complessità di una partitura che alterna raffinatezze cameristiche a poderosi slanci sinfonici. Il maestro guida l’Orchestra del Teatro Regio in gran forma con gesto fluido e sicuro, disegnando architetture sonore di grande respiro e curando con meticolosa attenzione i passaggi dinamici. I momenti di maggiore impatto esplodono in tutta la loro potenza, ma senza mai sacrificare i dettagli. L’orchestra diventa così un personaggio a sé, protagonista di una narrazione musicale che amplifica e accompagna le emozioni dei personaggi. Il Coro, istruito da Ulisse Trabacchin, contribuisce con precisione e compattezza alla riuscita complessiva, offrendo una sonorità piena ma mai pesante, sempre nitida nell’articolazione del testo.

Il cast, scelto con intelligenza, sostiene con autorevolezza l’impianto musicale e teatrale. Barno Ismatullaeva è una Francesca di temperamento: voce ambrata, timbro pieno, acuti luminosi e una presenza scenica che unisce fierezza e fragilità. Come protagonista vive di contrasti, tra passione e colpa, desiderio e condanna: un ritratto intenso e umano. Al suo fianco, Roberto Alagna – nonostante una scrittura vocale impervia – presta al personaggio di Paolo, il fratello bello, la sua inconfondibile musicalità, il dono di un timbro ineguagliabile e il fascino della maturità scenica, trovando momenti di autentica commozione nel duetto finale. George Gagnidze è un Gianciotto, il fratello sciancato, solido e violento; Matteo Mezzaro porta in scena un Malatestino, il fratello guercio, insinuante e aggressivo; Devid Cecconi disegna con efficacia il crudele Ostasio.

Le quattro dame di Francesca – Valentina Mastrangelo (Biancofiore), Albina Tonkikh (Garsenda), Martina Myskohlid (Altichiara) e Sofia Koberidze (Donella) – formano un quartetto di voci armonioso e di grande finezza, quasi un coro greco che accompagna e riflette le emozioni della protagonista. Delicata e intensa la Samaritana di Valentina Boi, mentre Silvia Beltrami (Smaragdi), Enzo Peroni (Ser Toldo Berardengo) e Janusz Nosek (Giullare) completano con efficacia il cast, insieme ai comprimari Daniel Umbelino, Eduardo Martínez e Bekir Serbest.

Il cognome è lo stesso del regista che l’anno scorso qui a Torino aveva messo in scena il progetto delle 3 Manon, il francese Arnaud Bernard. Ma Andrea Bernard è italiano – di Bolzano, non distante quindi dalla Rovereto di Zandonai – ed è di vent’anni più giovane. Insignito del Premio Abbiati nel 2024, dopo i recenti successi di Tancredi e L’Ercole amante firma ora un allestimento di raffinata coerenza e forza poetica. Bernard affronta il monumentale testo dannunziano con una lettura lucida e sensibile, spogliandolo della patina decadente per restituirlo all’oggi. La sua Francesca non è un’eroina languida, ma una donna consapevole, che sceglie l’amore come atto di libertà, anche a costo della rovina.

L’ambientazione, ideata dallo scenografo Alberto Beltrame e sapientemente illuminata da Marco Alba, si concentra in uno spazio unico – la stanza di Francesca – che diventa di volta in volta rifugio, teatro interiore e metafora della memoria. Tutto è attraversato da una luce che sembra venire da dentro, dai ricordi della protagonista: all’inizio la vediamo seduta su una sedia da cinematografo osservare la vicenda dipanarsi dietro un velino, come lo schermo di un cinematografo. Solo più tardi la vediamo entrare nell’azione. I doppi di lei e della sorella Samaritana bambine in scena sono un vezzo prevedibile della regia moderna, ma qui più che giustificabili. I costumi di Elena Beccaro collocano i personaggi in un tempo sospeso, tra il medioevo evocato e la contemporaneità allusiva. Bernard costruisce un racconto visivo di grande eleganza, punteggiato da simboli e gesti minimi: Samaritana su sedia a rotelle allude alla sua morte tra il terzo e il quarto atto; le scarpette rosse deposte ai piedi del letto prima del finale dicono invece più di mille parole sulla consapevolezza del destino femminile. Il suo teatro è fatto di immagini interiori, di silenzi eloquenti, di figure che si muovono come in un sogno inquieto: una regia che accompagna la musica più che dominarla, respirandone il ritmo e la tensione.

L’esito complessivo è quello di una produzione di grande compattezza e suggestione, che riconcilia lo spettatore con un titolo spesso frainteso. Grazie alla concertazione ispirata di Battistoni e alla regia poetica di Bernard, Francesca da Rimini si rivela per ciò che davvero è: non un residuo del verismo, ma un ponte verso la modernità, un’opera che guarda avanti, capace di parlare ancora al nostro tempo con la forza di un mito eterno. Lo ha capito il folto pubblico che ha applaudito con convinzione e insistenza.

Vedi anche su iltorinese.it