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Gaetano Donizetti, Don Pasquale
Bergamo, Teatro Donizetti, 17 novembre 2024
ici la version française sur premiereloge-opera.com
Un Don Pasquale in stile cafonal al Donizetti Opera
In rete è disponibile il video della produzione del 2022 del Don Pasquale dell’Opéra di Digione che, con interpreti diversi, completa la decima edizione del festival Donizetti Opera. Giusto per farsi un’idea dell’allestimento di Amélie Niermeyer di cui ricordo una terribile Leonore della Staatsoper di Vienna e una Lucia di Lammermoor in chiave femminista alla Staatsoper, questa volta di Amburgo, anch’essa abbastanza sgradevole.
Per quest’altra incursione nel mondo donizettiano, la regista tedesca trascura le letture fortemente ideologiche che hanno caratterizzato le altre sue produzioni, per puntare tutto sull’umorismo, un umorismo greve, tedesco, che trasforma la malinconica commedia in un reality in stile cafonal. L’impianto scenico di Maria-Alice Bahra ricorda quello disegnato da Pizzi per La pietra di paragone del Rossini Opera Festival 2002, qui una villa molto più borghese dove invece della piscina c’è una piccola vasca, forse idromassaggio, non si sa, dalla platea non si vede, dove tutti quanti inciampano. La costruzione è montata sulla solita piattaforma girevole per farci vedere anche il retro della villetta dov’è con parcheggiata una Panda rossa. Molti i vasi di piante curate amorevolmente dal proprietario che si dedica alla ginnastica per rimediare ai guasti dell’età. La storia narrata dalla Niermeyer è quella prevista, senza stravolgimenti, ma ambientata negli anni ’70 del secolo scorso, quelli più esasperati nei modi e negli abiti, qui disegnati dalla stessa Bahra, con predominio di canottiere e infradito o outfit luccicanti. Teatralmente inesistente la scena in cui Norina disfa la casa del vecchio per trasformarla a suo gusto: qui nulla di tutto questo, l’arredamento moderno del titolare rimane tale e quale e c’è soltanto un gran movimento di scatoloni con i microfoni e gli altoparlanti per il party che segue.
Tre domestici si prendono cura del padrone e del nipote fannullone e squattrinato, talmente poco appetibile che neanche Norina lo vorrà più: infatti nel finale la ragazza invece che con lo spasimante fugge da casa sola con la sua amata vetturetta dentro la quale fino a quel momento ha vissuto. Sceglie insomma la libertà in povertà invece di una sicurezza borghese. Capisco le istanze femministe, ma è quello che dice l’opera? E tutta quella buriana per poi tornare a dormire in macchina?
I domestici che nel libretto nel terz’atto commentano l’«interminabile andirivieni» di parrucchieri, “scuffiare”, gioiellieri, pellicciaie, sarte in una casa dove «si spende e spande, v’è da scialar», qui sono una turba di sciamannati che saranno invitati a un party. Che poi la “romanesca” di Ernesto sia accompagnata da un terzetto di Mariachi e che a un certo punto entri in scena un elefantino rosa che passa davanti al sipario non stupisce più di tanto.
Detto dell’allestimento, l’interesse dell’operazione sta nella parte musicale, in quanto l’edizione proposta è quella critica curata da Roger Parker e Gabriele Dotto che fanno riferimento alla prima versione del gennaio 1843 – solitamente viene presentata la seconda versione della ripresa nel maggio dello stesso anno – integrando i molti tagli di tradizione non solo nei recitativi ma anche in certi numeri musicali. Il duetto tra basso e baritono nel terzo atto è quello ripristinato dalla prima versione e viene qui eseguito per la prima volta in tempi moderni.
I valzer di cui è ricca la partitura e i ritmi a tratti frenetici sono affrontati con slancio garibaldino da Iván López-Reynoso, giovane direttore messicano che nell’intento di trovare la giusta misura tra allegria e tristezza sembra far pendere maggiormente il piatto della bilancia del divertimento, anche per star dietro a quanto avviene in scena. Il lato amaro della commedia si trova nella musica del cantabile «È finita, Don Pasquale» dopo lo schiaffo della ragazza e nel momento lirico della serenata di Ernesto dove López-Reynoso riesce a costruire un’atmosfera di grande malinconia. L’Orchestra Donizetti Opera risponde con convinzione così come il Coro dell’Accademia Teatro alla Scala preparato da Salvo Sgrò.
Il Don Pasquale della prima parigina poteva contare sui maggiori cantanti della sua epoca: Luigi Lablache interpretava il personaggio del titolo, Giulia Grisi Norina, Antonio Tamburi il dottor Malatesta e Giovanni Matteo de Candia Ernesto. Qui a Bergamo la metà dei quattro interpreti principali sono allievi della Bottega Donizetti e si dimostrano non solo all’altezza della situazione, ma quasi più convincenti degli interpreti titolati. È il caso di Giulia Mazzola, spigliata e di simpatica presenza scenica, voce importante, ben proiettata e timbrata, che delinea una Norina vivace e intraprendente, in contrasto col carattere più dimesso di Ernesto, qui un Javier Camarena non nella sua serata migliore: anche se non annunciato, è evidente che lo stato di salute del tenore messicano, un beniamino del festival bergamasco, non è ottimale, ferma restando la qualità del timbro e lo stile elegante, la voce è appannata, la linea musicale non sempre fluida, alcuni acuti non risultano emessi bene. Nel ruolo del titolo ritorna Roberto de Candia, ruolo che il baritono pugliese ha già frequentato nel passato, così come quello di Falstaff, l’altro grande vecchio gabbato nei suoi tardivi risvegli amorosi. Il personaggio ne esce sbalzato con precisione, con una recitazione da grande attore comico e un canto dal fraseggio elegante. Anche Dario Sogos è un allievo della Bottega che ricrea un Dottor Malatesta di grande sapore e bella presenza vocale. Molto divertente si dimostra il Notaro di Fulvio Valenti.
Buon successo di pubblico e applausi insistiti per la giovane Mazzola, visibilmente commossa davanti a tanto calore.
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